Siria e Yemen, Shakespeare in war
Tutto l'amore e la violenza del clan siriano degli Assad
Un padre che perde un figlio è uguale a tutti gli altri padri, anche se si chiama Hafez Assad ed è un dittatore che ordina stragi e poi scende per strada dicendo che lui sì che protegge il suo popolo. Un padre che perde un figlio non sa, non può nascondere il suo dolore, anche se in decenni di potere ha imparato a insabbiare, a camuffare, a mettere a tacere. Al funerale di Bassel – il figlio designato a succedergli alla guida della Siria, il delfino coccolato, l'erede a un trono che non c'è ma è come se ci fosse – Hafez scoppiò a piangere.
Un padre che perde un figlio è uguale a tutti gli altri padri, anche se si chiama Hafez Assad ed è un dittatore che ordina stragi e poi scende per strada dicendo che lui sì che protegge il suo popolo. Un padre che perde un figlio non sa, non può nascondere il suo dolore, anche se in decenni di potere ha imparato a insabbiare, a camuffare, a mettere a tacere. Al funerale di Bassel – il figlio designato a succedergli alla guida della Siria, il delfino coccolato, l'erede a un trono che non c'è ma è come se ci fosse – Hafez scoppiò a piangere. Si trattenne a lungo, sorretto dagli altri figli, poi i singhiozzi rimbombarono nella moschea di Qardaha, la città d'origine degli Assad vicina al porto di Latakia. Il fratello di Hafez, il generale Rifaat, meglio noto come “il macellaio” – un'altra carica che si tramanda in famiglia, da zio a nipote, in questo romanzo siriano pieno di misteri ma anche di feroci certezze –, perse i sensi, fu trasportato fuori dalla moschea a braccio, con la testa ciondolante.
Era il 23 gennaio del 1994. Due giorni prima Bassel, il primo figlio maschio del rais siriano Hafez Assad, era morto in un incidente d'auto, mentre viaggiava sulla sua Mercedes in direzione dell'aeroporto di Damasco. Era l'alba, c'era la nebbia, Bassel guidava veloce perché doveva prendere il primo aereo per Berlino, andò dritto in una rotatoria e morì lì, all'istante, a 32 anni. Così recita la versione ufficiale, ma su quella mattina si è detto e raccontato di tutto, mentre il regime come sempre ha insabbiato, perché oltre al lutto non poteva permettersi di mostrare le ferite interne, le lotte tra fratelli, le dinamiche di una successione che era molto meno pacifica di quel che si voleva far intendere. Era una guerra di famiglia, come accade in molte dinastie, ma ancora più delicata e drammatica per un nucleo che già era minoranza nel paese e che non poteva permettersi di disunirsi, altrimenti il golpe sarebbe stato gestito da altri molto meglio attrezzati – e sarebbe stato fatale.
Per Hafez fu un colpo tremendo, perché su quel figlio aveva lavorato tanto, perché per lui la partita era chiusa, perché lui già si faceva chiamare “Abu Bassel”, padre di Bassel, e aveva stampato quel nome sui cartelloni con cui aveva celebrato la vittoria elettorale (se così si può chiamare) del 1991 a Damasco. Bassel non era corrotto, Bassel era onesto, Bassel era “il cavaliere d'oro” perché montava a cavallo (e sparava) come nessun altro, a lui erano intitolati anche i “Bassel check-point” tra Siria e Libano, perché di lui tutti potevano e dovevano fidarsi, anche i libanesi sotto assedio siriano. Al funerale di Bassel partecipò l'allora primo ministro di Beirut, Rafiq Hariri, commosso quasi quanto Hafez, perché anche lui era un padre che aveva perso un figlio cinque anni prima, in un incidente d'auto, perché anche lui come tanti padri quel dolore lo conosceva troppo bene. E certo non poteva immaginare che, undici anni più tardi, lui stesso, Hariri, sarebbe morto per strada, sarebbe saltato in aria assieme alla sua auto a causa di una bomba piazzata sul lungomare di Beirut da qualcuno molto vicino ai figli di Hafez.
Dovendo scegliere un nuovo successore, Hafez prese a rassegna i suoi figli maschi, Bashar e Maher. Puntò quasi subito su Bashar, che se ne stava a Londra a finire i suoi studi in oculistica, che non aveva aspirazioni politiche, che certo non aveva il carattere e il carisma di Bassel, e che per di più non aveva alcun rapporto con l'esercito, dettaglio non da poco in un regime. Non aveva molte alternative. Non poteva scegliere Bushra, la sua unica figlia, la primogenita amatissima ma femmina, la primogenita che sarebbe stata perfetta per conservare l'unità familiare, almeno quella formale, ma non poteva guidare il paese. Nel 1984, a due anni dall'infame strage di Hama con cui suo padre e suo zio massacrarono decine di migliaia di sunniti che si erano rivoltati al regime, era stata Bushra a consigliare Hafez di non sbattere in galera (né uccidere) Rifaat, il traditore. Due anni prima Hafez e Rifaat si erano divisi i compiti a Hama, esattamente come oggi gli eredi fanno con le proteste delle ultime quattordici settimane: Hafez faceva la parte politica denigrando la rivolta dei Fratelli musulmani che volevano la fine del regime alawita; Rifaat guidava l'esercito, ordinava come e quando sparare, faceva scavare fosse comuni che venivano riempite e ricoperte nel giro di una notte. Fu allora che Rifaat divenne “il macellaio di Hama”. Un anno più tardi Hafez ebbe un attacco di cuore e nominò un consiglio di sei fedelissimi per gestire il paese durante la convalescenza. Suo fratello non era tra loro. Rifaat non la prese bene, pensava di essere il numero due, aveva agito in simbiosi con Hafez contro i sunniti a Hama, come poteva rimanere escluso proprio ora? Il macellaio allora, con la parte dell'esercito che gli era leale, prese il controllo di Damasco mentre i suoi soldati dicevano di rispondere agli ordini del “successore di Hafez”. La fiammata durò pochissimo, poi tornò la calma. Il presidente nominò Rifaat come suo vice, in segno di pace, e dopo qualche mese lo mandò “all'estero per una visita lunga e ad ampio respiro”. Rifaat sarebbe tornato in Siria per il funerale di sua madre e poche altre volte. Oggi è ancora in esilio a Londra.
Bushra convinse papà che fosse meglio camuffare anche quella volta. Allora la credibilità della primogenita era ai massimi, soltanto una decina d'anni dopo Bushra si sarebbe messa di traverso. Per amore, naturalmente. Per amore di Assef Shawkat, oggi una delle figure chiave del regime siriano, ma allora, all'inizio degli anni Novanta, un uomo sconosciuto che era riuscito a colpire al cuore l'affascinante (così dicono loro) figlia di Hafez. Ambizioso e determinato, Shawkat era detestato da Bassel: il fratello-delfino, così elegante e stimato, ingaggiò una guerra meschina contro quel ragazzo che non gli piaceva proprio e che aveva origini troppo modeste per imparentarsi con gli Assad: arrivò persino a sbatterlo in galera con accuse inventate, fece di tutto per evitare che i due si incontrassero, e convinse anche papà Hafez a detestare quell'arrampicatore. Poi Bassel morì nell'incidente misterioso, e Shawkat l'anno seguente sposò la sua Bushra. Per essere accettato in famiglia dovette lavorare ancora un po', perché Bassel era morto, ma Maher no.
Maher è il figlio più piccolo di Hafez, anche lui come Basher cresciuto lontano dal palazzo: studiava all'università, ma aveva una passione per le armi, così papà lo assecondò e lo fece entrare nel giro dell'esercito. Ma il ragazzo era instabile, molto instabile. Fragile, iroso, era capace di sbottare per niente, davanti a tutti, violando la sacra regola della sorella che voleva che là fuori tutti credessero alla favola della famiglia unita e felice. Maher si faceva influenzare dai compagni militari, ascoltava il fratello Bassel ma non sempre gli obbediva, litigava appena poteva con chiunque gli si parasse davanti. Quando il fratello morì sulla strada per l'aeroporto, Hafez fu costretto a escludere il suo ultimo figlio per la successione: Maher era capace di usare le armi, stava crescendo di rango nell'esercito, ma come ci si poteva fidare di lui, come ci si poteva fidare di quegli occhi spiritati? Per questo Hafez scelse Bashar che non sapeva nulla né di armi né di politica – per esclusione. E Maher gli dimostrò che aveva avuto ragione: un anno prima della morte di papà, avvenuta nel 2000, Maher litigò furiosamente con il cognato, quell'Assef Shawkat che il fratello Bassel gli aveva insegnato a detestare, e gli infilò un coltello nello stomaco. Shawkat fu trasportato d'urgenza a Parigi, all'ospedale militare, dove rimase per parecchie settimane.
Con la morte di Hafez, Bashar ha riunito la famiglia. Maher è il suo braccio destro, guida la Guardia repubblicana, è “il macellaio” delle stragi del 2011, guida quella Quarta divisione che rappresenta l'élite delle forze speciali siriane e che è stata mobilitata per andare al nord a riprendere Jisr al Shoghour, la città in cui si è consumata la prima, vera frattura di regime di cui ancora non si conosce la dinamica. Shawkat, che è stato a capo dei servizi segreti siriani dal giorno prima dell'assassinio Hariri fino al 2008, è il più ambiguo di tutta la banda di Bashar. Per il Tribunale dell'Onu che indaga sulla morte dell'ex premier libanese, Shawkat è talmente dentro la banda da essere uno dei mandanti della strage; però sotto il suo comando dell'intelligence c'è stato il bombardamento israeliano di una base nucleare (nel 2007) e l'assassinio del leader di Hezbollah Imad Mughniyeh (nel 2008), due eventi che hanno fatto molto chiacchierare sulla sua lealtà. Ora Shawkat è formalmente vicecapo di gabinetto dell'esercito, sul suo destino nella famiglia Assad si discute sempre, ma secondo i documenti ottenuti dall'inglese Daily Telegraph è stato lui a convocare il meeting in cui si è deciso, a tavolino, la rivolta del Nakba Day del 15 maggio scorso sulle alture del Golan, quelle in cui si sono fatti esperimenti di guerra con Israele. Quella regione – contesa, perennemente in allerta – è di competenza di Shawkat.
E' da lui che ha origine la frattura? Non si sa. Quel che si sa è che sua moglie sta dalla sua parte, ancora oggi, e che il rapporto tra fratello e sorella, tra Bashar e Bushra, si è guastato. Per via di una donna naturalmente: la first lady Asma, così mondana, così ciarliera, così glamour da finire su Vogue. Quanto basta per far inorridire Bushra, e per darle il pretesto di vendicarsi di tanti anni di fatiche e dolori, in cui ha dovuto lei battersi per tenere insieme la famiglia, per far fare carriera al marito (e non farlo ammazzare da qualche suo fratello), per fare quello che voleva papà: il rais da dietro le quinte.
(Nel Foglio in edicola "Il despota di Sana'a vede gli assassini in fondo al letto" di Daniele Raineri)
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