Riuscirà Bersani a essere Bersani?

Claudio Cerasa

Si possono fare tutte le considerazioni che si vogliono, si possono fare tutte le osservazioni che si credono, si possono utilizzare tutti i distinguo che si desiderano, e si possono rinfacciare anche alcune scelte sbagliate, alcune circostanze fortunate e persino alcune retromarce decisamente sfacciate. Ma alla fine di questa lunga campagna elettorale, tra elezioni stupefacenti e referendum sorprendenti, c'è un importante dato politico da non trascurare che riguarda il Partito democratico e che in particolare riguarda il suo attuale segretario.

    Si possono fare tutte le considerazioni che si vogliono, si possono fare tutte le osservazioni che si credono, si possono utilizzare tutti i distinguo che si desiderano, e si possono rinfacciare anche alcune scelte sbagliate, alcune circostanze fortunate e persino alcune retromarce decisamente sfacciate. Ma alla fine di questa lunga campagna elettorale, tra elezioni stupefacenti e referendum sorprendenti, c'è un importante dato politico da non trascurare che riguarda il Partito democratico e che in particolare riguarda il suo attuale segretario. Diciamolo con chiarezza: tra i principali volti dell'opposizione Pier Luigi Bersani è senza dubbio quello che esce maggiormente rafforzato dai risultati dell'ultima tornata elettorale, e nonostante la diffidenza maturata negli ultimi anni circa la sua effettiva predisposizione a indossare le vesti da vero leader carismatico (“Non è capace”, “Non ha il piglio”, “Non ha presa”, “Non buca lo schermo”, “Non funziona”, “Era bravo solo a fare il ministro”) il segretario del Pd ha stupito un po' tutti e ha improvvisamente dimostrato di essere dotato non solo di una buona dose di furbizia, di malizia e di coraggio ma anche di quella necessaria buona dose di saggezza indispensabile per correggere in corsa alcuni errori commessi nel passato e fondamentale per offrirsi una buona volta di fronte al proprio elettorato non più come un vecchio traghettatore di passaggio ma bensì come un vero timoniere. Come il vero capitano della nave. Da traghettatore a timoniere: si insiste molto nel Partito democratico su questa metafora marittima per descrivere la trasformazione più recente del segretario del Pd e si insiste molto su quest'espressione figurata non solo per le note attitudini velistiche di alcuni importanti consiglieri del leader del Pd (c'è ne è anche uno con i baffi) ma anche perché, come i lettori del Foglio forse ricorderanno, poco prima delle elezioni il segretario del Pd aveva ricevuto dal capo della minoranza del Pd, Walter Veltroni, l'invito esplicito a mollare gli ormeggi, a uscire fuori dal porto e a prendere una volta per tutte la via del “grande mare aperto”. Ebbene, quell'invito Bersani sembra averlo colto sul serio e oggi si può dire che il segretario abbia davvero scelto di indirizzare il barcone del Pd verso una rotta che non solo è diversa da quella percorsa nel passato ma che a lungo andare potrebbe rivelarsi persino vincente.

    Nel mondo del Pd, e non solo lì a dire la verità, ci si interroga molto sulle ragioni che hanno permesso al segretario di intercettare in modo inaspettato il nuovo corso del vento: la crisi del Cav. è ovviamente il fenomeno che ha più determinato lo scatto in avanti del barcone democratico ma accanto alla fase declinante del berlusconismo vi sono almeno altre due ragioni che hanno contribuito all'affermazione di Bersani. Una ragione riguarda la tattica e un'altra ragione, invece, riguarda la comunicazione. Sulla prima questione, quella legata alla tattica, il segretario del Pd ha dimostrato di aver imparato molto dai suoi errori e, seppur silenziosamente e seppur senza ammetterlo mai, Bersani ha fatto suo un suggerimento che negli ultimi mesi gli è stato spesso offerto da un numero consistente di esponenti democratici. Un suggerimento che suona più o meno così: finiamola di parlare sempre di alleanze, finiamola di parlare sempre di coalizioni, finiamola di dare sempre l'impressione di essere quei caciaroni dell'Unione e prepariamoci semplicemente a organizzare un buon buffet e a far sì che quel banchetto sia fatto in maniera tale da risultare appetitoso a chiunque, quando sarà, quando arriverà il momento di prepararsi alle elezioni, vorrà sedersi attorno al tavolo per mangiare con noi. “Per dirla in altre parole – suggerisce Giorgio Tonini, senatore del Pd – Bersani ha capito che il Partito democratico, per risultare vincente, non può permettersi di perdersi in mezzo a mille tatticismi, a mille inutili formule algebriche, ma ha assoluto bisogno di presentarsi di fronte ai propri elettori come il perno centrale di un grande progetto riformista. E bisogna dire che in un certo senso è una piccola rivoluzione sentire dire a Bersani che il Pd ha l'obiettivo di essere il primo partito d'Italia, e non solo una piccola parte di una coalizione potenzialmente alternativa al centrodestra. E scusate se lo dico – sorride Tonini – ma questa qui a casa mia si chiama vocazione maggioritaria…”.

    Al ragionamento sulla nuova filosofia
    adottata da Bersani ne va aggiunto un altro che tocca sempre il tema della tattica ma che riguarda in particolare un tratto decisivo del nuovo rapporto costruito dal segretario del Pd con l'elettorato democratico. Bersani, come più volte abbiamo scritto anche su questo giornale, ha sempre manifestato una certa diffidenza nei confronti delle leadership personali e anche negli ultimi mesi il segretario del Pd non ha mai perso occasione per rivendicare le sue perplessità riguardo al tema della “personalizzazione della politica”. “Fino a poco tempo fa – ricorda Alessandro Maran, vicecapogruppo alla Camera del Pd – Bersani sosteneva che, fosse toccato a lui, alle prossime elezioni mai e poi mai si sarebbe sognato di mettere il suo nome sopra il simbolo del partito. Ma visto quanto è successo in queste elezioni, visto il modo in cui il segretario ha giustamente rivendicato il successo elettorale e visto anche l'impegno mostrato dal segretario nel tappezzare l'Italia con tutte quelle bellissime foto con le maniche arrotolate, beh, mi sentirei di escludere che Bersani oggi non sia convinto che un po' di sana personalizzazione della leadership sia più che benefica per la salute di un vero capo”.

    Dal punto di vista comunicativo c'è un altro fenomeno che non è sfuggito all'occhio dei più attenti tra gli osservatori e che ha permesso al segretario del Pd di presentarsi di fronte ai suoi elettori con un profilo meno ingessato rispetto al passato. E così, un po' come fece anni fa il capitano della Roma Francesco Totti quando decise di ironizzare sul suo italiano non esattamente perfetto scrivendo un libro di barzellette di successo incentrato proprio sul suo italiano imperfetto, il segretario del Pd, durante l'ultima campagna elettorale, ha promosso una piccola operazione simpatia finalizzata a rendere meno seriosa, meno imbronciata e più frizzante la sua immagine di leader. La campagna (tutta basata sulla presa in giro di quel linguaggio campagnolo di Bersani fatto – come notò due anni fa Miguel Gotor sul Sole 24 Ore – di “toni gergali e quotidiani, dei dialettismi orgogliosamente esibiti, delle parole tronche e strascicate, della sentenziosità proverbiale”) ha avuto molto successo, ha permesso al segretario del Pd di duettare a teatro con il magnifico Bersani interpretato dal comico Maurizio Crozza, ha contribuito a far esplodere sui social network il famoso tormentone del “oh, masiampassi?” (Bersani usa spesso questa espressione e per molti giorni su Twitter i simpatizzanti del segretario si sono divertiti a creare i loro personalissimi “masiampassi”: “Oh, ragassi, ma siampassi? Non stiamo mica qui a rompere le noci a Cip e Ciop!”, “Oh ragassi, ma siampassi? Siamo mica qui a mettere le cravatte alle giraffe!”, o “Oh ragassi, masiampassi? Siamo mica qui a cambiare gli infissi al Colosseo?”) e ha avuto il suo massimo momento di visibilità il giorno dei risultati dei ballottaggi, quando Bersani, festeggiando a Roma in piazza del Pantheon la vittoria milanese di Giuliano Pisapia, offrì al pubblico il suo tormentone più celebre: “Oh, ragassi: siam mica qui a smacchiare i giaguari!”.

    “Ecco – dice Andrea Sarubbi, deputato del Pd attivissimo su Twitter – negli ultimi due mesi Bersani è stato bravo a cogliere ogni soffio di vento ed è stato bravo a trovare il giusto equilibrio per rimediare ad alcuni errori e a tenere la barca sempre in corsa. Ma la cosa importante che secondo me va considerata quando si parla di come governare una nave è che un buon timoniere deve sapere che spesso non basta seguire il vento per portare l'imbarcazione al traguardo. Se il vento diventa ingovernabile – e per uscir fuori dalla metafora: se la piazza, per dire, diventa non più governabile – il rischio è quello di non riuscire più a controllare la barca. E vedendo quello che è successo martedì nella baia di San Francisco, dove il celebre catamarano dello skipper neozelandese di Oracle detentore della Coppa America, si è capovolto durante una regata dimostrativa per il vento troppo forte mi viene da augurare a Bersani, con un sorriso, che il Pd riesca a trovare la giusta rotta, e il giusto percorso, per non farsi portare via dalle future folate di vento”.

    Ecco, sì, il percorso. Perché una volta esplicitato il modo in cui Bersani è riuscito a diventare in questi mesi una sorta di nuovo Bersani (anche a costo di smentire il vecchio Bersani) resta da chiarire ora una questione mica da poco sulla quale si interrogano in molti all'interno del Pd. Ovvero: ma riuscirà Bersani a stare al passo del nuovo Bersani? Riuscirà il segretario del Pd a non cadere negli errori del passato e a far tesoro delle lezioni assimilate in questi ultimi mesi? Riuscirà il timoniere del Pd a dare al suo partito un respiro di responsabilità nazionale capace di rappresentare davvero un'alternativa credibile al centrodestra? E insomma riuscirà il Pd a presentarsi davvero come la vera forza riformista del centrosinistra? Naturalmente ci vorrebbe una bella palla di vetro per rispondere a tutte queste domande ma volendo essere precisi, e volendo riportare ai lettori quel  mormorio che si avverte all'interno del Pd anche in questi giorni di grandi euforie post elettorali, bisogna dire che, nonostante tutto e nonostante i successi ottenuti, esiste una piccola ma significativa preoccupazione diffusa tra alcune anime del maggior partito d'opposizione. Una preoccupazione che è stata intercettata ieri dal professor Angelo Panebianco sul Corriere della Sera e che si riferisce alla possibilità che il Partito democratico – un po' per la posizione mantenuta sui referendum (sia sul tema dell'acqua sia sul tema del nucleare, fino a pochi mesi fa Bersani aveva idee completamente opposte a quelle di oggi, e come raccontato ieri da Panebianco è un fatto che il segretario del Pd, su questi temi, abbia compiuto una sorta di “salto della quaglia”) – retroceda nel suo percorso riformista.

    “In questa fase – dice al Foglio il professor Panebianco – il Pd ha ottenuto un successo innegabile ma ha scelto indiscutibilmente di seguire una strada più conservatrice rispetto al passato, specie sui temi referendari. A questo va aggiunto che sia Vendola sia Di Pietro potrebbero condizionare il percorso successivo del Pd, e se così dovesse andare il Pd avrà difficoltà a mettere in atto un coraggioso piano di governo. E' un'ipotesi ancora remota, naturalmente, ma io sono convinto che per Bersani sarebbe un grave errore non rendersi conto che prima di poter presentarsi al paese come una vera alternativa bisogna fare ancora molta ma molta strada”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.