Fisiognomica della sconfitta
Viaggio nel ducato berlusconiano in fiamme che scioglie le maschere di cera
L'altra sera, a “Ballarò”, il ministro Raffaele Fitto sembrava uno che avesse preso un gavettone per strada: in certi momenti pareva boccheggiare, sempre abbondantemente sudava. Da sotto la bella capigliatura, che uno shampoo recente lasciava intuire, centinaia di gocce che lentamente scivolavano lungo il viso del piacente berlusconiano.
L'altra sera, a “Ballarò”, il ministro Raffaele Fitto sembrava uno che avesse preso un gavettone per strada: in certi momenti pareva boccheggiare, sempre abbondantemente sudava. Da sotto la bella capigliatura, che uno shampoo recente lasciava intuire, centinaia di gocce che lentamente scivolavano lungo il viso del piacente berlusconiano. Sudore – rivoli come gocce di cera sciolta (ah, inascolati ammonimenti: non fatevi statue di cera!): per troppo calore, magari per troppo mal riposto ardore. E' la sconfitta che muta la faccia in maschera – e la maschera svela la tempesta che in certi momenti umanamente travolge.
Le facce del ducato berlusconiano (ducato, verrebbe da dire, gaddianamente in fiamme), in questi giorni sospesi tra complicata resurrezione e probabile dissoluzione, a vederle sfilare in televisione – a parare, a motivare, ad annaspare – hanno tutte questo mutarsi in maschere di ciò che furono: come se l'immagine si sgranasse, e quasi miracolosamente dai tratti che si fanno indistinti – per il controllo che comprensibilmente cede, per lo sforzo di mantenere la rotta che forse neanche più il nocchiero conosce – limpido emerge il profilo reale. Fisiognomica, ecco.
“Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e naso hanno la lingua, e l'aspetto proclama il cuore…” – così la metteva, e il vero diceva, Thomas Browne: è la sofferenza e lo spaesamento di Fitto che già si preannunciavano qualche secolo fa. E il ridere continuo, persino un tantino esagerato – gli occhi spalancati quasi con surreale allegria, il contesto floreale che ormai lo veste e lo impreziosisce – di Roberto Formigoni. Ché anche lui una stretta avverte – e il che fare, e il come fare. Ed è strategia pure questa, che il corpo afferra e rilancia: nel cuore della buia sorte, far del bianco crine e della larga risata quasi lampada rassicurante. Un po' come fa la collega Renata Polverini – anch'essa ultimamente tendente a molti fiori sulle vesti e a raffiche di sorrisi a destra e a manca. Merito certo pure dei suoi sì referendari, che mediaticamente ne fa giunco capace di reggere alla piena, mentre il vento delle urne sradica la sua foresta politica.
Che poi nessuno, nel centrodestra che fu falange e che ora sente di aver posto i piedi sul terreno di Waterloo, ha la stessa faccia che aveva prima – essendo “nei tratti del nostro volto scolpito il ritratto dell'anima nostra”, e siamo sempre al filosofo del Seicento. Innanzi tutto, il Cav. non ha più la faccia che aveva – e che solo malamente cerca di recuperare evocando bunga bunga dell'epoca napoleonica, mutando “il sole in tasca” di cui una volta era detentore in vampate d'imbarazzo, che raggelano persino la faccia solitamente gioconda del ministro Frattini seduto in prima fila. Perché la faccia del Cav. che racconta di questa primavera di amare sorprese, non è quella che l'arte sua della seduzione e della conquista ha mostrato per vent'anni. E' una faccia che quasi non si vede, quella più vera del Cav.: quella pubblicata l'altro giorno a pagina tre del Corriere, quel capo stancamente chinato, assurdamente dentro quel negozio di bigiotteria – collanine e braccialetti ai turisti destinati, alla fidanzatina di qualche pischello in trasferta in centro città. L'uomo più potente e più ricco a girare lì dentro – come chi si sperde in una stazione, come chi d'improvviso ha voglia di ritrovarsi in un altrove che non sia il suo reale, mentre le urne vomitano un inaspettato, colossale rifiuto.
“C'è poca gente che mi vuole bene…”, raccontano abbia detto. Ecco, la sua espressione facciale pare dire dello stordimento del “non amato”, dell'imperatore che avverte come un fiato di sedizione tra le sue truppe. “Non è più come una volta”. E' più di una faccia stanca, quella che il Cav. mostra di profilo, dietro un sipario di collanine colorate: è quella dolente che sempre sostituisce quella che ha appena conosciuto un inaspettato stupore – quale un perfetto dolore. Quella faccia china su qualche forse non imperdibile braccialetto, mentre la tempesta si fa perfetta come perfetto è il dolore (personale non meno che politico) che causa – e quelli del Pd che tappezzano i muri: “Senti che bel vento…”, bufera redentrice alle porte. E' la faccia di uno che sa che gli toccherà camminare sul filo di una lama – ma che per ora, per qualche ora, visionando anellini, ancora non vuol vedere: allontana da me questa lama…
C'è una sorta di finale grandezza, in quel profilo del Cav. Dopo una lunghissima gloriosa cavalcata – così che pareva, il Cav. in sella raggiante, quale la regina Vittoria: “Noi non siamo interessati alle possibilità di sconfitta” – pare smarrito l'intero interminabile corteo di scudieri che lo accompagnava e faceva ala. Perché il ridere di alcuni, come l'ira di alcuni, e di alcuni altri la mestizia, sono le stesse identiche facce di uno stesso identico smarrimento. Persino l'incredibile risposta (così da apparire scatto di nervi, piuttosto che riconferma di radicati convincimenti) del ministro Brunetta a una precaria che gli voleva rivolgere una domanda, “siete la peggiore Italia”, e via, un altro piccolo incendio che s'avvampa, e poi l'uscire di scena con quel sorriso che forse voleva mostrare decisione – ma che ognuno può forse vedere d'imbarazzo, di sicuro con imbarazzo vedere. Ecco, il sorriso di Brunetta entra a giusto merito in questa rassegna sulla fisiognomica della sconfitta: e non per lombrosiana tentazione, piuttosto e ancora per umana (ma politicamente insostenibile) reazione. Perfettamente sovrapponibile a quella dell'onorevole Stracquadanio, ilare e sarcastica, sbadatamente sarcastica si vorrebbe credere, mentre da un palco, parlando di Internet, dice che a sinistra hanno un esercito di milioni di dipendenti pubblici “che alle due del pomeriggio se ne va a casa e non fa un cazzo”, e là smanetta. O la faccia, così (e non sempre) simpaticamente sopra le righe (e “sotto la cresta dell'onda”, direbbe Marcello Marchesi) di Ignazio La Russa.
Ma la faccia più impressionante resta quella di Claudio Scajola, il pomeriggio dei risultati: dentro uno studiolo scuro, la bocca un taglio senza labbra, lo sguardo che vagava stupito su un orizzonte irriconoscibile: sguardo da annegato (politico, si capisce). Ma Scajola una consolazione ce l'ha, anche se la sua faccia certo non la mostrava: essendo stato ultimamente tenuto ai margini del partito, potrà sempre far presente che si tratta di una sconfitta a sua insaputa.
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