I tesori di Damasco

Marco Pedersini

Per il ministro degli Esteri siriano, Walid Moallem, la soluzione è semplice: “Ci dimenticheremo che l'Europa sia sulle mappe e guarderemo a est, verso chiunque ci tenderà la mano”. Pazienza se l'Unione europea ha deciso di sanzionare, su proposta di Francia e Gran Bretagna, ventisette aziende e sette persone (compresi tre iraniani) coinvolte nella repressione del dissenso in Siria. “Non c'è soltanto l'Europa, a questo mondo”, ha detto Moallem ai giornalisti, senza dimenticare qualche carezza per i vicini a nord.

    Per il ministro degli Esteri siriano, Walid Moallem, la soluzione è semplice: “Ci dimenticheremo che l'Europa sia sulle mappe e guarderemo a est, verso chiunque ci tenderà la mano”. Pazienza se l'Unione europea ha deciso di sanzionare, su proposta di Francia e Gran Bretagna, ventisette aziende e sette persone (compresi tre iraniani) coinvolte nella repressione del dissenso in Siria. “Non c'è soltanto l'Europa, a questo mondo”, ha detto Moallem ai giornalisti, senza dimenticare qualche carezza per i vicini a nord: “Spero che la Turchia riconsideri la sua posizione, non vogliamo cancellare di colpo anni di sforzi diplomatici”. Stando al ministro degli Esteri siriano, il momento critico è finito e l'iniziativa di dialogo nazionale lanciata dal presidente Bashar el Assad porterà a riforme “entro poche settimane, grazie alla partecipazione di tutti”. In tre mesi la Siria brillerà come “un esempio di democrazia senza precedenti: ci saranno giustizia sociale, uguaglianza di fronte alla legge e trasparenza”. Se proprio dovessimo trovare spunti per qualche grattacapo, ha ammesso Moallem, lanciandosi su un tema già esplorato dal colonnello libico Gheddafi, “non posso nascondere il fatto che il modo in cui sono stati uccisi molti membri delle forze di sicurezza porta direttamente a responsabilità di al Qaida”.

    Il regime di Damasco sta cercando in tutti i modi di preservare i contatti diplomatici con Ankara, nonostante gli oltre diecimila profughi che sono stati accollati ai vicini turchi. Lo si capisce anche dai particolari, come la finezza di mandare in avanscoperta un inviato speciale di etnia turkmena, il generale Hassan Turkmani. Il premier turco Erdogan ha comunque posto condizioni non negoziabili: finirla con la repressione violenta, annunciare progetti di riforma concreti e sbarazzarsi del tycoon Rami Makhlouf. Perché sì, come dicono fonti diplomatiche al direttore del quotidiano turco Hurriyet, “non siamo interessati a un cambio di nomi, ma di principi”. Ma Rami Makhlouf, l'uomo più ricco della Siria, il cugino del presidente Assad, è più di un nome, è il simbolo della corruzione dell'intero establishment alawita di Damasco. Per capire come stia il regime, nel sedicesimo “venerdì della collera”, bisogna guardare alle sue mosse. E' Makhlouf che la settimana scorsa ha versato un miliardo di dollari nelle casse della banca centrale di Damasco, per cercare di stabilizzare la moneta siriana. E' Makhlouf che, secondo il quotidiano finanziario francese Les Echos, ha due trasferimenti da 25 e 34 milioni di dollari pronti per essere diretti su conti malesi, della Banca centrale di Kuala Lumpur e dell'istituto Exim – per l'Echos, non sarebbero che l'avanguardia di un'operazione da 250 milioni di dollari. E' lui che in uno slancio benigno verso i manifestanti, giovedì scorso, ha promesso di lasciare le proprie cariche governative e di vendere il quaranta per cento della sua compagnia telefonica, il colosso Syriatel, per destinarlo a imprecisate opere di beneficenza e progetti di sviluppo – “non mi dedicherò più ad alcun progetto che possa darmi vantaggi personali, mi dedicherò totalmente a progetti umanitari”, ha detto.

    Makhlouf è “la piovra”, l'uomo che in Siria ha una rendita su tutto, dal petrolio all'immobiliare. Stando al Financial Times, controlla il 60 per cento dell'economia nazionale: se si atterra in un aeroporto siriano e si compra qualcosa in un duty free, si sta arricchendo Rami Makhlouf, ma anche se si fa benzina, se si telefona, se si compra una casa – per restare nelle attività tracciabili alla luce del sole. Secondo il Tesoro americano, è “uno dei principali catalizzatori della corruzione in Siria”: “Makhlouf ha manipolato il sistema giudiziario, usando i servizi segreti per intimidire le aziende concorrenti. Ha usato queste tecniche per accaparrarsi vantaggi contrattuali e il diritto di rappresentare, in esclusiva, le compagnie straniere in Siria”.

    “Non voglio essere un peso per la Siria, la sua gente e il suo presidente, a partire da adesso”, dice ora Makhlouf, che ha pianificato una ritirata strategica anche dal monopolio dei duty free Ramak, che ha disseminato in porti, aeroporti e ai confini con Giordania e Turchia. Li ha venduti a un consorzio di investitori del Kuwait, l'al Kharafi Group, per dimostrare la sua buona volontà ai manifestanti e al Tesoro americano – che lo tiene sotto sanzioni, senza troppo successo, dal luglio del 2008, e ora potrebbe rincarare la dose.

    Ogni scelta di Makhlouf, però, è il riflesso di una decisione già presa in precedenza nei palazzi di Damasco. Non è soltanto una questione di ricadute politiche, visto che per contratto, la sua Syriatel, che è il più importante operatore del paese, deve versare la metà delle proprie rendite al regime degli Assad. La tattica conciliante è poco più che cosmetica: anche se Makhlouf lasciasse tutte le sue aziende, il resto della famiglia continuerebbe a gestire gli affari come prima.

    Il ramo dei Makhlouf è quello che si occupa dell'economia, da quando il potere degli Assad è uscito dai confini della ricca città costiera di Latakia per imporsi su tutta la Siria. Già da allora i ruoli erano chiari: Hafez el Assad, padre di Bashar, dirigeva la politica, il fratello Jamil era la guida spirituale, il fratello minore Raafat il capo dell'esercito e ai Makhlouf spettava l'amministrazione degli affari. Non è un compito facile: si calcola che la famiglia Assad abbia almeno un centinaio di miliardi di dollari sparsi in svariate forme in banche europee, americane e degli emirati arabi. La destinazione preferita, per depositi e investimenti, è sempre la Turchia – infatti il fratello del presidente siriano, il sanguinario Maher Assad, non ha per niente gradito la scelta di molti istituti turchi, che negli ultimi giorni hanno rifilato buona parte dei depositi degli Assad a banche europee, a portata di sanzioni internazionali.

    Ogni membro della famiglia Makhlouf, al momento, ha la sua attività peculiare: Hafez, più giovane di Rami, è l'influentissimo capo dei servizi segreti di Damasco, molto ascoltato dal cugino presidente; i gemelli Iyad e Ihab comandano la milizia degli al Shabiya, che, quando non è impegnata dal regime per gli atti di repressione più sporchi, si occupa del business di famiglia: garantire il passaggio in Libano dei fondi illeciti di Damasco e, strada facendo, contrabbandare droghe e rubare auto in territorio libanese. Anche Hafez, insieme a Rami, è stato colpito dalle sanzioni europee.

    Il corridoio economico con il Libano è vitale per il regime siriano, soprattutto in un momento in cui persino il presidente Assad è arrivato a dire, nel suo discorso di lunedì, che “il pericolo maggiore a cui andiamo incontro nei prossimi mesi è il collasso dell'economia”. Rami Makhlouf ha dato il suo contributo, con un milione di dollari di tasca propria. Ma con i confini bloccati, la rottura dei rapporti con la Turchia, anni di sanzioni internazionali (in via di appesantimento), l'esercito schierato in tutto il paese e il dissenso che continua a ribollire, difficilmente si assisterà a investimenti incoraggianti per l'economia siriana. Il settore del turismo, che da solo fa il 12 per cento del pil siriano, è chiaramente inceppato. La Qatar Electricity & Water Company ha rinunciato alla costruzione di due impianti per la produzione di energia elettrica in Siria, spostando le sue attenzioni verso la Giordania. La moneta di Damasco si è svalutata del 17 per cento rispetto al dollaro, a partire da aprile. A fine anno il deficit, secondo le previsioni del Financial Times, non potrà che superare il 7,7 per cento del pil (il doppio rispetto al 2009). Il ministro delle Finanze, Mohammed al Jleilati, ha provato a raccontare una Siria “forte, in salute” e autosufficiente per quanto riguarda provviste alimentari, ma non è stato convincente. Secondo la Reuters, dopo tre mesi di lotte, anche i rivoltosi hanno trovato qualcuno disposto a finanziarli: “Ormai non è più una rivolta dei poveri, c'è un flusso di soldi che arriva direttamente dal mondo imprenditoriale e dai ceti benestanti siriani – ha scritto l'agenzia – si distribuiscono telefoni satellitari, macchine fotografiche, cibo, acqua e medicinali, ormai è un movimento che coinvolge anche imam, manager, persino ex membri del Partito baathista”.

    Il regime, intanto, sonda anche vie alternative al Libano. La Europäisch-Iranische Handelsbank, banca iraniana con sede ad Amburgo, sotto sanzioni dallo scorso settembre, è stata allertata per gestire i trasferimenti in Malesia e in altri paradisi fiscali. Anche l'Ong turca Ihh, principale sponsor della spedizione infelice della Mavi Marmara, collusa con i movimenti terroristi sunniti in Iraq e in Palestina, potrebbe tornare utile. L'Ihh gestisce abitualmente una rete di distribuzione capillare in trenta paesi e sarebbe in grado di smistare i guadagni del regime siriano, sempre che il governo turco non si metta di mezzo.

    Al momento, però, la via maestra dei traffici di “mister cinque per cento” – il soprannome di Rami Makhlouf, dalla percentuale che si prende per trattare i contratti con il regime – resta quella verso sud, lungo il confine molto poroso con il Libano. I destini dei due paesi sono saldamente raccordati e non è un mistero per nessuno che il gioco venga diretto dai palazzi di Damasco. La sincronia è illuminante: mentre le atrocità della repressione siriana raggiungevano il loro apice, nella città di Jisr al Shugur, il tycoon sunnita Najib Mikati, amico personale degli Assad, annunciava la formazione del nuovo governo libanese. Dopo cinque mesi, i negoziati s'erano improvvisamente sbloccati. Il presidente Assad si è complimentato per il risultato, con una soddisfazione che ha ripetuto di persona al leader del Partito democratico libanese, Talal Arslan, che mercoledì ha fatto la cortesia di passarlo a trovare a Damasco.

    Per capire che succeda ai fondi neri in Libano, c'è un altro nome da tenere a mente, quello di Riad Salameh, il banchiere centrale di Beirut. Il suo ruolo è tenuto in alta considerazione: prima ancora che Mikati annunciasse il nuovo governo del Libano, il presidente del Parlamento aveva provato a riunire l'Aula per votare il rinnovo del suo mandato alla guida della Banca centrale libanese, per altri sei anni. In un paese precario e diviso come il Libano, Salameh è rimasto al suo posto dal '93, attraversando indenne l'assassinio del premier Rafiq Hariri, la guerra scatenata da Hezbollah contro Israele nel 2006, la crisi economica, il ritorno al potere del Partito di Dio e ora gli ultimi, letali, focolai della “primavera araba” nella vicinissima Siria. Salameh, peraltro, non è soltanto un sopravvissuto al naufragio: al momento, per tutte le forze politiche libanesi, spaccate da una cronica lotta settaria, Riad Salameh è il candidato preferito, la scelta migliore. E' molto noto anche all'estero, grazie al suo divieto di acquistare prodotti derivati, un'idea che Salameh ha messo in pratica nel 2004, evitando di fatto che il Libano venisse trascinato nel gorgo dei mutui subprime.

    A sentire la narcotici americana (Dea) e il dipartimento del Tesoro, però, le banche libanesi, che Salameh dice essere “sempre trasparenti”, sono il fulcro di un giro di riciclaggio di centinaia di milioni di dollari. Di fatto, sotto l'amministrazione di Salameh – per quanto non sia mai stata scalfita da indagini –, un paese grande metà della Lombardia è diventato il più efficiente depuratore di fondi neri della regione. L'istituto più attivo, secondo la Dea, è la Banca libanese canadese (Blc), con sede a Beirut. Il boss del narcotraffico Ayman Joumaa, a capo di una rete criminale che acquista stupefacenti in Sudamerica per poi smerciarli in Europa, Africa e medio oriente, la userebbe per riciclare i suoi proventi, a un ritmo di 200 milioni di dollari al mese. Per Abdallah Safieddine, sostiene il Tesoro americano, il ruolo di inviato di Hezbollah a Teheran non sarebbe che un compito di facciata: da anni sarebbe l'intermediario tra i palazzi del potere iraniano e i manager della Blc, gestori scrupolosi dei risparmi del regime iraniano. Per la Dea, però, c'è anche dell'altro: “La Blc ha contribuito a un sofisticato schema di riciclaggio attraverso una rete finalizzata allo smercio di auto usate comprate negli Stati Uniti”.

    Riad Salameh ha risposto con mestiere. Ha detto che “la Blc ha amministratori altamente qualificati, una liquidità eccellente e il supporto della Banca centrale”, poi è volato a Washington e ora l'istituto sanzionato è pronto per essere acquistato dalla controllata libanese della Société Générale – con il benestare del Tesoro americano. Ma non c'è soltanto la Blc. Nel luglio del 2003, Salameh aveva dovuto gestire il caso della banca al Madina, scoperta di liquidità per 300 milioni di dollari. I dipendenti di al Madina tenevano in grande considerazione i fondi neri dei corrotti leader iracheni, così come gli affari di Hezbollah – uno dei principali mercanti d'armi libanesi, scoprì l'Fbi, aveva depositato 160 milioni di dollari in contanti, in una sola volta. Nel 2006, l'uomo chiave delle sanzioni all'Iran, l'allora sottosegretario al Tesoro Stuart Levey (uomo di George W. Bush, riconfermato da Obama), aveva congelato le operazioni dell'iraniana Saderat Bank, saldamente presente in Libano, fin dal 1963. Secondo Levey, il riciclaggio viaggiava su binari definiti: da Teheran agli sportelli libanesi, previo scalo a Londra, per poi essere distribuiti anche ai miliziani palestinesi di Hamas.

    Anche i vicini siriani hanno ottimi rapporti con le banche libanesi, soprattutto con al Madina. Secondo Fortune, all'epoca dell'attentato al premier libanese Rafiq Hariri, Maher Assad, “il macellaio” di Damasco, fratello del presidente Bashar, era solito riservarsi il 25 per cento dei proventi del riciclaggio della banca di Beirut. E' improbabile che si possa fare maggiore chiarezza, vista l'amnistia sbrigativa concessa di fatto allo scandalo al Madina – quando la Siria ha ritirato l'esercito dal territorio libanese, nel 2006, le indagini sulla banca al Madina si sono arenate negli scaffali del ministero della Giustizia, da dove difficilmente riemergeranno. Non sono in molti ad aver voglia di parlare della questione, visto il trattamento riservato al generale Ghazi Kenaan, ex ministro dell'Interno siriano e capo dell'intelligence militare in Libano, che s'era preso i documenti riservati della banca mentre indagava sull'assassinio di Hariri ed era morto poco dopo, in un suicidio molto dubbio – secondo molti, sulla sua fine ci sarebbero chiare impronte siriane. La direttrice della banca al Madina, Rana Koleilat, incarcerata poco prima della ritirata siriana dal Libano, è scomparsa per poi riemergere, due anni dopo a San Paolo, in Brasile, dove ora viene custodita in una cella, in attesa di un'estradizione che nessuno ha fretta di autorizzare. Secondo l'Onu, “è altamente probabile” che l'intenzione del premier Hariri di riaprire le indagini sulle attività dubbie della banca al Madina se rieletto, nel 2005, abbia giocato un ruolo importante nel suo assassinio.