Tre uomini in banca
Adesso è fatta per davvero. Mario Draghi ha ottenuto il via libera anche dai capi di stato e di governo che compongono il Consiglio europeo. Il governatore della Banca d'Italia, quindi, è il nuovo presidente della Banca centrale europea. Il passaggio dei poteri avverrà solo alla scadenza formale del mandato di Jean-Claude Trichet, il 31 ottobre prossimo. Ma già in questi giorni, nel discutere la crisi greca con Angela Merkel, si è visto all'opera il metodo Draghi.
Adesso è fatta per davvero. Mario Draghi ha ottenuto il via libera anche dai capi di stato e di governo che compongono il Consiglio europeo. Il governatore della Banca d'Italia, quindi, è il nuovo presidente della Banca centrale europea. Il passaggio dei poteri avverrà solo alla scadenza formale del mandato di Jean-Claude Trichet, il 31 ottobre prossimo. Ma già in questi giorni, nel discutere la crisi greca con Angela Merkel, si è visto all'opera il metodo Draghi: dialogare, convincere, far valere competenza tecnica e buon senso. La formula annunciata ieri ricalca l'approccio non dottrinario del banchiere italiano: aiuti ad Atene (altri 110 miliardi in cambio del rigore), condivisione degli oneri, una strategia temporeggiatrice, convinti che bisogna guadagnar tempo, finché non entrerà in funzione nel 2013 il meccanismo che consente di affrontare anche il peggiore degli scenari: il fallimento di uno stato sovrano.
Sbloccato l'impasse a Francoforte, si tratta di sciogliere i nodi domestici e scegliere un sostituto a via Nazionale. Silvio Berlusconi ieri ha fatto un passo in questa direzione, presentando una terna: Lorenzo Bini Smaghi, Fabrizio Saccomanni, Vittorio Grilli. Chissà se prima di dare l'annuncio ha pensato al motto che Voltaire mette in bocca a Luigi XIV: “Ogni volta che offro un posto vacante, faccio cento malcontenti e un ingrato”. A differenza dal re Sole, il primo ministro non è il solo a decidere: deve “raccomandare” i candidati al presidente della Repubblica, sentito il governo e il consiglio della Banca centrale il quale si riunirà martedì prossimo per formulare i propri desiderata.
La dichiarazione del premier Silvio Berlusconi ha sorpreso molti, soprattutto quando ha sottolineato che Bini Smaghi “è idoneo” a governare la Banca d'Italia, una formula che lo colloca oggettivamente in pole position. La situazione ieri mattina era ancora bloccata dall'ostinazione di Nicolas Sarkozy il quale vuole piazzare il suo candidato in seguito alla regola non scritta che i quattro grandi paesi dell'Eurozona debbono avere un rappresentante ciascuno nel direttorio.
Bini Smaghi ha puntato i piedi fino all'ultimo, rivendicando l'autonomia della Bce, scritta nero su bianco nello statuto. Gli è stato offerto il posto di direttore generale della Banca d'Italia, quello oggi ricoperto da Saccomanni, il quale, in questo caso, diventerebbe governatore. L'obiezione dell'interessato è che sarebbe una diminutio perché il sancta sanctorum dell'Eurotower vale di più: è lì che si prendono ormai le decisioni importanti. Tanto meno accetta un posto da direttore generale del Tesoro. In via XX Settembre ha già trascorso sette anni con diversi ministri: chiamato da Carlo Azeglio Ciampi ha lavorato con tutti fino a Giulio Tremonti e Domenico Siniscalco. In ogni caso, non lo ritiene coerente con il suo attuale profilo.
Tuttavia, di fronte a un braccio di ferro che rischiava di avere un impatto pessimo sulla Bce, sull'Unione europea e anche sull'Italia, bloccando l'ascesa di Draghi, Bini Smaghi ha dichiarato pubblicamente che entro la fine dell'anno si troverà una soluzione. Quale, a questo punto, se non la poltrona più importante di Palazzo Koch? I giochi non sono fatti, ma le carte sono sul tavolo e tocca a Berlusconi trovare un accordo con Giorgio Napolitano. Sapendo che la Banca d'Italia preferisce una soluzione interna, cioè Saccomanni. E Draghi considera nomine esterne come quella di Grilli, un'incognita. Bini Smaghi, che viene da Francoforte, ma ha trascorso molti anni in via Nazionale, si presenta come il giusto mezzo.
I tre uomini in corsa per la Banca d'Italia hanno in comune passione ed esperienza per l'economia e le istituzioni internazionali, frequentano le amene località montane dove si intrecciano affinità elettive, da Aspen a Davos, ma non possono essere più diversi. Romano, gioviale e ironico Fabrizio Saccomanni. Milanese, asciutto nell'aspetto e nell'eloquio Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro. Fiorentino flamboyant e amante della mondanità intellettuale, Lorenzo Bini Smaghi. Saccomanni apprezza la musica classica e Giuseppe Gioacchino Belli, scrive sonetti (uno lo dedicò a Carlo Azeglio Ciampi per il suo settantesimo compleanno), racconta aneddoti e facezie con le quali fa scendere sulla terra anche le più astruse elucubrazioni teoriche. Grilli, golfista di talento (l'altra sua passione sportiva è per l'Inter), è abituato a lunghe meditazioni solitarie, prima di assestare il colpo vincente e andare in buca. A parte il vino di qualità, verso il quale dichiara “un amore intenso e coinvolgente”, sembra nutrirsi di barrette energetiche come si dice faccia Draghi. Mentre Saccomanni, vero gourmand, è sempre alla ricerca della ricetta più sfiziosa. Lui, a palazzo Koch, la sede della Banca d'Italia che in questi giorni molti descrivono come un fortino, è entrato giovanissimo, dopo la laurea alla Bocconi e la specializzazione a Princeton (la stessa università dove ha insegnato Ben Bernanke, il capo della Fed), assunto per una carriera dirigenziale con il viatico d'ordinanza: “Caro dottore, sappia che lei potrà arrivare nella scala gerarchica fino a direttore generale. Se vuole diventare governatore, allora quella è un'altra cosa”.
Bini Smaghi, figlio di un funzionario della Commissione europea, nasce a Firenze il 29 novembre del 1956, e come tutti i sagittari punta subito in alto. Diploma al liceo francese di Bruxelles, laurea in Economia a Lovanio, master in California, dottorato a Chicago, la fortezza dei liberisti, dove studia con il Nobel Robert Lucas, entra in Banca d'Italia nel 1983 al settore internazionale del servizio studi e poi all'ufficio cambi. Nel 1994 avviene il grande salto: sostenuto da Ciampi e Padoa-Schioppa, va a all'Ime (Istituto monetario europeo) che poi diventerà il nucleo della Bce. Anche per questo percorso biografico, si sente socio fondatore dell'euro e difende a spada tratta la moneta unica (vi ha scritto sopra anche un libro di successo uscito nel 1998 per i tipi del Mulino). A parte l'economia, amore, interessi (e passione calcistica), lo legano alla natia Firenze. I figli si chiamano Corso e Laudomia. E lui non fa mancare il proprio impegno come presidente della fondazione Amici di Palazzo Strozzi della quale fanno parte numerosi Bini Smaghi. Il fratello Bernardo, tra l'altro, è direttore generale della Cassa depositi e prestiti. La moglie Veronica De Romanis, economista, esperta di Germania, ha scritto due anni fa un elogio della Germania pubblicato da Marsilio: “Il metodo Merkel, il pragmatismo alla guida dell'Europa”. Laureata alla Sapienza, specializzazione alla Columbia di New York, per dieci anni ha lavorato al ministero dell'Economia nel consiglio degli esperti.
Anche Grilli ha avuto rapporti frequenti con via Nazionale, ma dall'esterno. I suoi sentieri si sono incrociati spesso con quelli di Saccomanni e Bini Smaghi, nel duro cammino degli sherpa. Così, proprio come i nepalesi specializzati nel portare fardelli sul tetto del mondo, vengono chiamati i tecnici e gli alti funzionari del Tesoro e delle Banche centrali incaricati di buttar giù idee, proposte, documenti, bozze di comunicati finali che poi i ministri dovranno leggere e firmare. Ci vuole competenza, ma anche finezza diplomatica, passione e culo di piombo. Nottate intere a spaccare il capello, liti furibonde su una virgola e un aggettivo, faticose lezioni a politici che vogliono subito andare all'osso, ma trascurano i dettagli dove, si sa, s'annidano i cavalieri del male.
Venuto al mondo il 19 maggio 1957, sotto il segno del Toro, il giovane Vittorio si forma con valori e riti della borghesia lombarda: il padre imprenditore, la madre Maria Ines Colnaghi biologa all'Istituto dei tumori, una moglie americana, Lisa Lowenstein, dal quale si è separato, e una compagna con la quale ha una figlia. I genitori lo avrebbero voluto medico, ma lui molla per la Bocconi. Laureato, va all'Università di Rochester (New York State) con una borsa di studio Bankitalia. Poi a Yale dove tiene corsi a soli 29 anni e all'Università di Londra. Nel 1994, si dischiudono le porte del Tesoro. Ministro è Lamberto Dini già direttore generale della Banca d'Italia. Gli sponsor sono Luigi Spaventa e Francesco Giavazzi. Quando quest'ultimo lascia la commissione di esperti che assiste i ministri in via XX Settembre, Grilli sembra la persona più adatta. E lo sarà, eccome se lo sarà. Sono gli anni in cui si smonta lo stato imprenditore, fonte e sostegno di quel che veniva chiamato “il sistema di potere democristiano”. Mani pulite ha tagliato le teste. Silvio Berlusconi è già sceso in campo ed entra a Palazzo Chigi, anche per soli otto mesi. Romani Prodi lascia l'Iri e prepara la propria candidatura, spinto dal proprio mentore Beniamino Andreatta e da Giovanni Bazoli.
Il Professore vince le elezioni nel 1996 e chiama a gestire i disastrati conti dello stato Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore della Banca d'Italia e primo ministro per un anno, il quale si circonda di consiglieri fidati (verranno poi definiti Ciampi boys), presi per lo più da via Nazionale. Tutti tranne Grilli il quale, rimasto al Tesoro sotto la direzione di Draghi, gestisce la campagna delle grandi privatizzazioni. Nel 2000, mentre si consuma con Giuliano Amato l'eclisse dell'Ulivo, l'economista milanese torna alla Bocconi e poi va al Crédit Suisse First Boston. Ma è troppo giovane per fare Cincinnato. Giulio Tremonti, diventato ministro dell'Economia, lo chiama alla Ragioneria dello stato per sostituire un uomo-istituzione come Andrea Monorchio.
Una posizione ingrata, in cassetta, sotto il fuoco, mentre la diligenza viene regolarmente assaltata ad ogni legge finanziaria. Lo prende di petto Gianfranco Micciché, viceministro con la delega sullo sviluppo e il mezzogiorno il quale vuole allargare i cordoni della borsa. Per aumentare gli investimenti, ça va sans dire. E finisce nella tenaglia tra Gianfranco Fini e Tremonti che nel 2004 costa il posto all'inquilino di via XX Settembre. Il sostituto, Domenico Siniscalco, nomina Grilli direttore generale quando Draghi va in Banca d'Italia. E lì resta con il ritorno di Tremonti, ma anche con il governo Prodi e l'arrivo di Tommaso Padoa-Schioppa. Insieme mettono a punto il meccanismo dei tagli mirati, entrambi difendono “il tesoretto” al quale tutti vogliono mettere mano. L'implosione dell'ultimo governo di centrosinistra riporta Grilli al centro dello scacchiere. Nel 2008 Tremonti gli conferma la fiducia con una missione che, dopo il collasso finanziario, sembra davvero impossibile: tenere i conti lontani dalle mire dei ministri e seguire le direttive dell'Unione europea e della Bce, perinde ac cadaver.
Il passaggio su un galeone di Wall Street manca al curriculum di Saccomanni. In questo, è Grilli che assomiglia più a Draghi. Fabrizio, come lo chiamano i colleghi di via Nazionale, è nato il 22 novembre 1942, ultimo giorno di transito nella costellazione dello Scorpione. Proviene da una famiglia di medici, ma racconta di aver desiderato fin dal liceo una carriera da civil servant. Sposato sempre con la stessa moglie, entra alla Banca centrale nel 1967 quando Guido Carli apre le porte a brillanti giovanotti, una leva destinata a un radioso futuro. Nel 1970 viene inviato a Washington come economista del Fondo monetario internazionale dove rimane per cinque anni. E lì incontra Lamberto Dini, nel Fmi dal 1959, che nel 1976 diventerà direttore esecutivo per l'Italia e l'Europa del sud. Tornato in via Nazionale con il governatore Paolo Baffi (anche lui bocconiano), dopo un periodo nel prestigioso servizio studi, si occupa di cambi e monete. Non solo teoria, dunque, ma prassi; e che prassi negli anni in cui la lira balla la tarantella fino a sfondare quota 2.000 con il dollaro il 19 luglio 1985, per una sciagurata operazione dell'Eni.
La sua preparazione internazionale e il prestigio di cui gode non sfuggono a Gianni De Michelis quando diventa ministro degli Esteri nel 1989. E' un momento difficile, l'Italia deve presiedere la Comunità europea e il solito Economist fa lo spiritoso. “E' come salire su un bus guidato da Groucho Marx”, scrive il settimanale. Un sarcasmo che irrita, ma sarebbe sciocco e inutile rispondere con note acide o polemiche stantie. A Saccomanni viene un'idea brillante. Butta giù un pezzo in cui prende a prestito lo humour britannico e spiega come condurre l'affollato pullman Europa. Firmato: Groucho Marx. L'articolo arriva a De Michelis che di punto in bianco lo manda all'Economist. La settimana dopo occupa una pagina del magazine. Chapeau per l'autore e anche per l'editore che ha saputo stare al gioco.
Con stile brillante, ma tono ben più serio, Saccomanni scrive anche un libro premonitore sull'instabilità dell'economia mondiale, intitolato “Tigri globali e domatori nazionali”, pubblicato dal Mulino dieci anni fa. Nel 2003 va alla Bers (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) che opera nei paesi ex comunisti. Molti pensano sia la premessa per uno sganciamento da Palazzo Koch, nel periodo in cui infuria la tensione tra Antonio Fazio e Giulio Tremonti che coinvolge, come abbiamo visto, anche Grilli. Ma Draghi, nominato governatore, lo richiama in patria.
E' possibile individuare un'agenda, un manifesto politico e intellettuale dei tre candidati? Vittorio Grilli parla solo in occasioni ufficiali, anche se non si sottrae all'esigenza di spiegare ai giornalisti, con la formula delle informazioni di background in voga anche alla Banca d'Italia. Non si sa molto come la pensa sulla Banca centrale. Sono nati dei sospetti quando dal Tesoro è scaturita l'idea di mettere mano alle riserve auree che sono tra le prime al mondo. Il direttore generale viene rappresentato come il cerbero del bilancio pubblico, spietato maestro di forbici e mannaie che cadono sulla spesa. Eppure, almeno due innovazioni portano la sua impronta e dimostrano l'abilità nel maneggiare l'ingegneria finanziaria. La prima si chiama Ctz, certificati del Tesoro a zero coupon introdotti nel 1998. Sono titoli a 24 mesi, riservati agli operatori istituzionali, che non danno cedole, quindi si guadagna dallo scarto tra il valore all'emissione e quello alla scadenza. La seconda novità, ancor più importante, risale a un anno fa, è una risposta alla crisi greca e rappresenta il primo elemento istituzionale per consentire di affrontare un default, o quasi, in un paese che aderisce all'euro: il Fondo di stabilizzazione che mette a disposizione fino a 500 miliardi di euro per i paesi in difficoltà.
Grande abilità di manovra Grilli l'ha mostrata in alcune intricate vicende di nomine bancarie. E' stato lui a portare alla Cassa depositi e prestiti, braccio armato del Tesoro, Giovanni Gorno Tempini, ex amministratore delegato di Mittel, finanziaria che fa capo a Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Banca Intesa, l'istituto creditizio azionista numero uno di Banca d'Italia. Grilli aveva conosciuto Gorno Tempini quando il finanziere lavorava alla JP Morgan e ne aveva testato l'abilità. Un altro amico, anzi allievo dei tempi di Yale, è Andrea Beltratti, presidente del consiglio di gestione di Intesa. E' stato eletto dopo un lungo braccio di ferro alla Compagnia San Paolo, azionista dell'istituto di piazza della Scala, con Domenico Siniscalco. Non è, dunque, solo Tremonti a sponsorizzare Grilli. Gioca a suo favore anche la dimestichezza con l'eredità ciampiana che tradizionalmente ha aperto le porte del Quirinale.
Nemmeno Saccomanni concede molte interviste. Ai primi di aprile, l'ho incontrato nel suo ufficio in Bankitalia per una conversazione pubblicata da Panorama Economy. Ottimista sulla Grecia, all'obiezione che l'euro resta pur sempre una moneta senza sovrano, replica: “Non esiste solo la sovranità del potere, ma anche quella delle regole. La prima scende dall'alto, la seconda sale dal basso. Ecco, nel caso dell'euro è prevalsa la sovranità delle regole”. Quel che lo preoccupa davvero è la bassa crescita dell'Italia. Colpa del debito pubblico, ma non solo. E, pur con stile soffice, lancia una staffilata bruciante: “L'élite ha perso il gusto della sfida, a cominciare dalla classe imprenditoriale”. La sua ricetta punta su una decisa politica dell'offerta: “Stabilizzata la moneta adesso tocca all'economia reale – spiega – E all'economia interna”. Saccomanni, insomma, è uno sviluppista, per lui il rigore nella finanza pubblica è l'alfa, ma l'omega è la crescita. Paradigma che Bini Smaghi condivide, anche se la sua posizione lo rende un guardiano della ortodossia monetaria all'europea. Respinge qualsiasi eventualità che Atene possa ristrutturare il proprio debito (a suo avviso sarebbe una catastrofe per l'euro e per l'economia mondiale), insiste invece sulla priorità assoluta al risanamento dei conti nazionali: “La Grecia deve decidere se vuole diventare un paese normale”, ha dichiarato giorni fa. La resistenza al diktat francese lo ha reso un paladino dell'autonomia del tecnico dalla politica, ottenendo l'appoggio di Trichet e degli altri membri del board, eletti per otto anni, indipendentemente dai giochi per la presidenza. Una bandiera che senza dubbio serve anche a Roma o a Parigi, non solo a Francoforte. Lo statuto della Bce è una garanzia per l'intero sistema delle Banche centrali, insiste Bini Smaghi. Ma se esso viene calpestato dai governi, c'è il rischio di una reazione a catena. Vedremo. Molto dipende da come verrà risolto l'assedio di Palazzo Koch.
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