Viva lo pseudonimo! Un libro svela i casi più celebri di mimetismo letterario

Mariarosa Mancuso

Joyce Carol Oates ha scritto più di quanto sembri umanamente possibile, gareggiando in generosità e bravura soltanto con Georges Simenon. Con il suo nome ha pubblicato una cinquantina di romanzi, senza contare le raccolte di racconti, le poesie, la saggistica, il memoir sulla fresca vedovanza, “A Widow's Story” (neanche un anno dopo era già felicemente riaccasata, attirandosi qualche commento non proprio benevolo di Joan Didion, che la propria vedovanza l'aveva raccontata in “L'anno del pensiero magico”).

    Joyce Carol Oates ha scritto più di quanto sembri umanamente possibile, gareggiando in generosità e bravura soltanto con Georges Simenon. Con il suo nome ha pubblicato una cinquantina di romanzi, senza contare le raccolte di racconti, le poesie, la saggistica, il memoir sulla fresca vedovanza, “A Widow's Story” (neanche un anno dopo era già felicemente riaccasata, attirandosi qualche commento non proprio benevolo di Joan Didion, che la propria vedovanza l'aveva raccontata in “L'anno del pensiero magico”). Trova anche il tempo di scrivere romanzi gialli con lo pseudonimo di Rosamond Smith: uno è appena uscito da Bompiani. Ma siccome da noi è più difficile imporre un nuovo autore che sfruttarne uno conosciuto, sulla copertina di “Doppio nodo” (il primo di una serie di otto) compaiono sia il nome vero sia il nome di penna. Altri tre romanzi l'infaticabile li ha firmati con il nome di Lauren Kelly. Per la gioia dei biografi conserva nel cassetto 4.000 pagine di diario, dal 1973 al 2008, poi sostituito dalla copia di tutte le email.

    Nel caso di Joyce Carol Oates lo pseudonimo è un gioco letterario. Romanzo più, romanzo meno non cambia poi molto: i recensori ormai sono rassegnati a non starle dietro. Nel caso di Stephen King, lo pseudonimo di Richard Bachman fu imposto dal marketing: i lettori, per quanto affezionati, non riuscivano a smaltire più di un malloppo all'anno. Quindi bisognava mantenere il segreto, finché un libraio non scoprì il trucco, e King diede addio al suo doppio letterario annunciandone la morte per “cancro allo pseudonimo” (per commemorarlo a dovere gli dedicò “La metà oscura”). Ruth Rendell ha firmato i suoi romanzi migliori con il nome di Barbara Vine, dividendo la sua ricca produzione tra gialli da stazione con l'ispettore Wexford e thriller da boutique.
    La casistica offre pseudonimi adottati per non macchiare il nome di famiglia, pseudonimi scelti per dispetto, pseudonimi utili per farsi prendere sul serio, pseudonimi dettati dalla poetica. A Walt Whitman bastò dire “sono grande, contengo moltitudini” per convincere. Fernando Pessoa ebbe bisogno di inventarsi nomi su nomi, e stili su stili. Karen Blixen esordì con il nome maschile di Isak Dinesen, per chiarire subito che faceva sul serio. La imitano, nel loro piccolo, P. D. James e A. S. Byatt, decise a celare un Phyllis Dorothy e un Antonia Susan (anche Byatt non risulta all'anagrafe: si doveva distinguere dalla sorella, anche lei romanziera, Margaret Drabble). Quando era già famosa, Doris Lessing mandò un suo manoscritto a un editore con un falso nome: quando glielo respinsero, scatenò una polemica sui pregiudizi letterari. Roman Lacew era già famoso come Romain Gary quando adottò lo pseudonimo di Émile Ajar (l'anagramma del primo nom de plume) e riuscì nell'impresa di vincere due volte il premio Goncourt. Contro ogni regolamento, ma lo scoprirono soltanto dopo la sua morte. Noi abbiamo Elena Ferrante, con i suoi romanzi all'insegna del masochismo femmineo: tanto eccessivi che i sospetti sono caduti, a turno, su vari scrittori maschi.

    Un bellissimo booktrailer annuncia, sul sito di HarperCollins, “Nom de plume – A (Secret) History of Pseudonyms” di Carmela Ciuraru (non è uno pseudonimo, garantisce il rivolto di copertina). I casi più celebri di mimetismo letterario, o di ricerca dell'anonimato, da George Eliot a George Orwell, da Lewis Carroll a Mark Twain. Una pratica d'altri tempi, sostiene Carmela Ciuraru nell'introduzione. Per i letterati, forse, obbligati a farsi vedere in libreria. I blogger quarantenni ancora riescono a diventare famosi fingendosi lesbiche di Damasco.