Adieu, French Theory
La cultura estremista, avanguardista, rivoluzionaria del Novecento ha riscoperto e celebrato se stessa, per l'ultima volta, negli anni Sessanta. Il fenomeno si è prolungato nel decennio successivo, precipitando politicamente, infine, nei sottosuoli del terrorismo, o creando per alcuni anni il gergo di un nuovo accademismo. Fra riletture di Hegel e Marx, di Nietzsche e Freud, di Bataille, di Sade e Lautrémont; fra surrealismo e strutturalismo, fra economia politica, semiotica e inconscio come linguaggio, fu allora che a Parigi, capitale filosofica e antifilosofica, accademica e anarchica della cultura europea in declino, tutto diventò Teoria.
La cultura estremista, avanguardista, rivoluzionaria del Novecento ha riscoperto e celebrato se stessa, per l'ultima volta, negli anni Sessanta. Il fenomeno si è prolungato nel decennio successivo, precipitando politicamente, infine, nei sottosuoli del terrorismo, o creando per alcuni anni il gergo di un nuovo accademismo. Fra riletture di Hegel e Marx, di Nietzsche e Freud, di Bataille, di Sade e Lautrémont; fra surrealismo e strutturalismo, fra economia politica, semiotica e inconscio come linguaggio, fu allora che a Parigi, capitale filosofica e antifilosofica, accademica e anarchica della cultura europea in declino, tutto diventò Teoria. La Teoria diventò letteratura, o meglio “teatro della scrittura”: finché alla fine la letteratura sparì e dalla Francia, a partire da allora, vennero ben pochi narratori e poeti. La letteratura indicata come “écriture” e “operazione sul linguaggio” si trasformò in applicazione, in proiezione della Teoria.
La Teoria non era semplicemente teoria di qualcosa, era atto teorico, gesto teorico, scrittura teorica: un “apparato”, un insieme di “dispositivi”, uno “spazio testuale” infinitamente dilatabile che fagocitava ogni forma più tradizionale o più specialistica di studi. Il concetto, la razionalità filosofica, la prova fattuale, l'argomentazione convincente, la rappresentazione, il racconto, la differenza fra generi letterari, tutto fu attaccato dalla corrosione di potenti acidi teorici. Tra filosofia e diversi ambiti della filosofia (estetica, gnoseologia, etica, logica, politica ecc.), tra filosofia e letteratura, tra poesia e narrativa, la Teoria azzerava le differenze. Ogni limite e confine sembrò conservatore, umiliante, repressivo, rimozionale, autoritario e in definitiva “fascista”. Si diffidava (almeno in teoria!) della lingua comunicativa, della grammatica, della sintassi e della semantica. I significati dovevano scorrere, scivolare via per dimostrarsi creativamente dinamici e liberi da costrizioni dogmatiche.
Da un lato i tre numi scientifici, da combinare spericolatamente, cioè Marx, Freud, Saussure, fornivano la cornice problematica e le terminologie che conferivano al discorso teorico serietà epistemologica. D'altra parte la scienza non doveva essere triste ma “gaia”, doveva avere un carattere liberatorio e dionisiaco. Niente di stabile e di stabilito andava accettato. Tutto si presentava in perpetua mobilità. Per questo, alla Trimurti scientifica dovevano essere aggiunte tradizioni antiscientifiche e antiletterarie: anarchismo, rivolta, vitalismo, nichilismo, surrealismo. E quindi Marx con l'aggiunta di Nietzsche, la struttura linguistica di Saussure accompagnata dall'“evoluzione creatrice” di Bergson, Freud letto come demolitore dell'umanesimo borghese, in chiave variamente surrealista, secondo Breton, Artaud, Bataille o, risalendo all'indietro, accanto a Sade.
La nozione onnipresente di “écriture” orientava le modalità, i movimenti e i gesti di questa generale produttività teorica. Una delle riviste più note degli anni Sessanta, Tel quel, prendeva il suo nome da Paul Valéry, punto culminante del tardo-simbolismo novecentesco, intelletto poetante, puro poeta della pura poesia, ma soprattutto saggista che esercitò una notevole influenza sulla critica strutturalista e poststrutturalista: da Barthes, a Blanchot, a Genette. Ma già nel 1930, nel suo libro “Axel's Castle”, Edmund Wilson aveva notato che quell'originalità e profondità di pensiero che i suoi ammiratori attribuivano alle prose saggistiche di Valéry, erano piuttosto suggestioni estetiche. “Vi sono molte cose ammirevoli nei suoi saggi” scriveva Wilson, “passi di una sottile concisione, tensione e ironia, ma la prosa spesso tende ad aggrovigliarsi in un viluppo di parole che rende difficile la comprensione e al tempo stesso esaspera il gusto”. Nei suoi saggi troviamo, secondo Wilson, “la rappresentazione di una situazione intellettuale anziché lo sviluppo di una linea di pensiero (…) il ‘rigore' di cui tanto parla è un effetto artistico della sua prosa, ottenuto, come gli effetti artistici delle sue poesie, grazie ad alcuni espedienti stilistici, più che una qualità della sua logica. Si direbbe che con tutta la sua passione per il metodo, Valéry si sia data ben poca pena di classificare le sue idee o di dare loro un ordine: come Monsieur Teste, egli è piuttosto impegnato ad assaporare le sue emozioni intellettuali e a inventare metafore più o meno oscure per esprimerle. E benché sia possibile condividere in qualche misura il divertimento che egli trae da questo gioco, alla lunga lo troviamo tedioso fino alla ripugnanza”.
Sebbene decenni più tardi, intorno al 1980, le università americane abbiano cominciato a dare un certo credito a quella che fu nel suo insieme chiamata “French Theory”, la cultura americana continuò a mantenere riserve nei confronti del più idoleggiato dei teorici e controfilosofi francesi, Jacques Derrida. La sua idea di “decostruzione” ebbe molto successo, piacque agli studenti e alle minoranze d'opposizione; prometteva e praticava un continuo “smontaggio” delle discipline e dell'intera tradizione occidentale, considerata in blocco come una costruzione oppressiva e chiusa, infestata da dogmi e da sclerotizzate contrapposizioni metafisiche. Lungo tutta la sua carriera Derrida lanciò l'accusa di metafisica contro ogni pensiero che proponesse una sistemazione relativamente (o momentaneamente) stabile di conoscenze e affermazioni.
Nel suo “Piccolo pantheon portatile”, uscito un anno fa nelle edizioni del Melangolo, Alain Badiou difende il suo maestro: “C'era, appena sotto la sorprendente fluidità volatile della sua scrittura, un'autentica semplicità di Derrida, un'intuizione ostinata e invariante. E' una delle numerose ragioni per le quali la violenza degli attacchi contro di lui, appena dopo la sua morte, e in particolare sulla stampa americana – attacchi che si appigliavano al ‘pensiero astruso', allo ‘scrittore incomprensibile' – fanno emergere solo la più banale ingiuria-antintellettuale”. Così conclude Badiou: “Definiamo ‘texane' tali ingiurie e non abbiamo più niente da aggiungere”.
Probabilmente, immagino, Badiou lancerebbe l'accusa di “texano” anche contro Edmund Wilson, il più grande critico letterario americano dell'ultimo secolo, per le sue riserve critiche nei confronti di Paul Valéry. Quest'ultimo infatti è rimasto un punto di riferimento stabile nella cultura francese degli anni Sessanta e Settanta: tanto per la sua totale incomprensione della narrativa (non riusciva a leggere neppure un innovatore come il suo coetaneo Proust) che per l'elegante elusività della sua prosa di pensiero. Ma Valéry non aveva certo un'idea anarchica della poesia. Il suo era il funambolismo formalistico di un neoclassico: versi impeccabilmente tradizionali facevano sembrare solide le sfuggenti mitologie di una mente speculativa. In Derrida viceversa tutto il discorso non finisce mai di scorrere, in fuga non solo dai suoi presumibili oggetti, ma anche da se stesso.
Questo “Piccolo pantheon portatile” di Badiou, nonostante le intenzioni celebrative, mette una pietra sopra all'ultimo periodo glorioso della cultura filosofica e letteraria francese. Se si pensa che oggi al posto di Deleuze, Foucault e Derrida abbiamo André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, megalomani giornalisti engagés più che filosofi, che saltano da una parte all'altra del mondo per insegnare all'occidente che cosa fare, allora forse si possono considerare meno severamente le megalomanie filosofiche anni Sessanta, con i loro più o meno volontari esoterismi ed esibizionismi. Del resto non solo negli Stati Uniti qualcuno si spazientì leggendo Derrida o ascoltandone le esasperanti conferenze; in Germania più di vent'anni fa su Kursbuch, la rivista fondata da Enzensberger, comparve un saggio che dice molto fin dal titolo: “Lacancan e Derridada”. La French Theory era un Gran Teatro della cultura, ma anche una farsa mescolata di erudizione e di rivolta, di eccessi esplicativi e di inconcludenze. Da un lato lo “spirito geometrico”, dall'altro un continuo slittamento in avanti del significato e dello scopo di tante acrobazie.
Con gli esempi di questa prosa (che ha contagiato e ipnotizzato a lungo l'Italia e molti paesi latini) si potrebbe mettere insieme una bella antologia. Eviterei di citare il supermarxista Louis Althusser, nel quale la perentorietà degli enunciati spesso è pari alla loro banalità o vacuità imperscrutabile: “La filosofia è questo luogo teorico in cui niente avviene, nient'altro che queste ripetizioni del niente” (è un'autodenuncia?). Oppure: “La filosofia ha come compito precipuo di tracciare una linea di demarcazione tra l'ideologico delle ideologie da un lato e lo scientifico delle scienze dall'altro”. E poi: “La filosofia è tutt'uno con il suo risultato, che costituisce l'effetto-filosofia. L'effetto-filosofia è differente dall'effetto conoscitivo prodotto dalle scienze”.
Ma l'effetto di questi enunciati è anzitutto un effetto-tautologia. L'écriture di Althusser non riserva molte sorprese.
Jean-François Lyotard naturalmente, in quanto teorico del Postmoderno, non può che andare oltre. Dall'irrazionalismo di uno slogan come: “Non vogliamo distruggere il Kapitale perché non è razionale, ma perché lo è” passa al suo contrario: “Il principio di un'alternativa radicale al dominio capitalista deve essere abbandonato”. Come si vede, si tratta di pensatori per i quali tutto va sempre portato (eroicamente ma senza rischio) “fino alle sue estreme conseguenze” (Lyotard). A cui il commentatore Alain Badiou sente il bisogno di aggiungere: “Non ci sono che verità estremiste”.
Con i capitoli centrali del libro Badiou ci accompagna nel cuore di quell'indimenticabile “momento filosofico degli anni Sessanta”: “Si tratta, probabilmente, di non più di cinque intensi anni, tra il 1962 e il 1968, tra la fine della guerra d'Algeria e la tempesta rivoluzionaria degli anni 1968-1976. Un semplice momento, sì, ma che fu una vera e propria folgorazione”.
Qui si incontrano, nell'ordine, Gilles Deleuze (1925-1995), Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004). Deleuze, il più appartato e forse il più originale, dice Badiou, in quegli anni andava piuttosto controcorrente, anche perché, pur mettendo Nietzsche “all'inizio del nostro tempo”, apprezzava insolitamente pensatori americani come Emerson, Thoreau, William James. Disse perfino che bisognava “farla finita con l'ossessione del linguaggio” e che, invece di negare, criticare e decostruire, valeva piuttosto affermare e non giudicare, evitando ogni “morale della sconfitta” e della rassegnazione. Perché bisogna “tentare a ogni costo di vivere” (con il che si torna sia alla famosa esclamazione che chiude il “Cimitero marino” di Valéry: “Il faut tenter de vivre!” sia alla “misura animale” a cui dovremmo tornare secondo Paul Éluard).
Con Foucault abbiamo un filosofo “alle frontiere di una mutazione del pensiero, dei suoi oggetti e dei suoi fini”. Ancora una volta, però, precisa Badiou, niente verità, quanto invece “un certo gesto di verità”. La verità dunque non è affermabile né afferrabile, è qualcosa che si provoca con certi “gesti” del nostro pensiero. Foucault avrebbe puntato in questo modo a definire “che cos'è un intellettuale moderno”. Al posto delle diverse correnti (fenomenologia, esistenzialismo ecc.) e delle tradizionali ramificazioni della filosofia (teoria della conoscenza, logica ecc.) in Foucault troviamo nuove direzioni di indagine, per lo più storica: la clinica, la follia, la linguistica, l'economia, la botanica, il sistema penitenziario, la sessualità, la cura di sé. Di che cosa si tratta? Di nuovo Badiou sfodera la parola magica che colloca subito il pensiero sul piano dell'azione e del comportamento: in Foucault ciò che conta è il “gesto” con cui la filosofia, in quanto pensiero puro, si annette altri territori. Il razionalista critico, secondo la tradizione illuministica francese, è anche testimone politico e scrittore: un completo autore engagé.
Ma nel pantheon di Badiou il posto centrale sembra proprio occupato da Derrida. Che cosa cercasse Derrida nella sua indefessa, fluente arte della decostruzione non risulta però chiaro. La cosa certa è che decostruire è sinonimo di demolire, smontare, fare a pezzi le architetture del pensiero e del linguaggio. E l'organo, lo strumento, il luogo di questa attività del pensiero è la “scrittura”, che con il suo movimento incessante rende fluido e instabile ciò che prima appariva solido e acquisito. A questo punto fra Badiou e Derrida entriamo nella vertigine. Si ha l'impressione che Derrida usasse una specie di metodo mistico, quello che abbatte, cancella, rende inutilizzabili gli strumenti e le costruzioni e tutte le opposizioni e simmetrie della razionalità, per fare posto al vuoto, per farlo emergere e liberarlo come “punto di fuga”. Quella Supercritica che è la Decostruzione abbatte nel suo “gesto di scrittura” la casa razionale in cui abitiamo per indicarci il suo “fuori”. Si tratterebbe di individuare “ciò che non ha luogo” nei luoghi logici e linguistici dentro cui ci muoviamo e da cui siamo imprigionati. Compito paradossale o impossibile, che per questo attira Derrida. Il “desiderio filosofico” di Derrida, spiega Badiou, era un “desiderio dell'inesistente”. E qui la cosa si fa interessante perché si arriva all'erotizzazione del filosofare che è un “toccare” ma è anche uno slittamento. Un grammo di sincerità a questo punto esce dalla bocca di Badiou e ci rassicura: “Irritava a volte anche me, per le sue straordinarie acrobazie verbali, per le sue derive, per lo slittare infinito della sua prosa”. Ma… Badiou aggiunge un “ma” di cui si può felicemente fare a meno. “Dovete avere una lingua in fuga”: se Derrida ci chiedeva o ci ordinava questo, direi che un'opzione vale l'altra. Perché non c'è fuga se non da qualcosa. La fuga assolutizzata e perpetua non si capisce più neppure che cosa sia, da cosa fugga e perché.
Con questo carnevale filosofico e antifilosofico, verbalistico e nichilistico, si è chiuso in Francia, al di là dei suoi limiti cronologici più naturali, il ciclo novecentesco della cultura estremistica e rivoluzionaria europea. Ciò che resta al di là di quella ebbrezza non è molto. Il riuso smodato e lo smantellamento accelerato di una tradizione millenaria di cultura fa pensare a quelle rivoluzioni politiche novecentesche che per favorire l'emergere del Nuovo hanno desertificato la società. Dopo aver messo in questione, dopo aver decostruito la letteratura e la filosofia, il romanzo e la poesia, le arti e le scienze, il soggetto e l'oggetto, le istituzioni e le abitudini di vita, non entra in scena né l'essere, né il puro esistere, né l'umanità liberata. Cala il sipario e noi siamo afferrati da una nausea spossante.
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