Lobbisti & moralisti

Marco Valerio Lo Prete

Dagli “immobiliaristi senza remore” alla “finanza spregiudicata”, passando per le “relazioni pericolose” rese note dall'inchiesta sulla cosiddetta P4: se parlare di lobby nel nostro paese equivale automaticamente a evocare una sorta di Spectre, la colpa è innanzitutto di un certo “moralismo” che pervade la dottrina giuridica. E che influenza il legislatore italiano, in ritardo rispetto ad altri paesi industrializzati quando si tratta di regolare i rapporti tra gruppi di interesse e decisori pubblici.

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    Dagli “immobiliaristi senza remore” alla “finanza spregiudicata”, passando per le “relazioni pericolose” rese note dall'inchiesta sulla cosiddetta P4: se parlare di lobby nel nostro paese equivale automaticamente a evocare una sorta di Spectre, la colpa è innanzitutto di un certo “moralismo” che pervade la dottrina giuridica. E che influenza il legislatore italiano, in ritardo rispetto ad altri paesi industrializzati quando si tratta di regolare i rapporti tra gruppi di interesse e decisori pubblici. Sono queste le conclusioni del volume “Democrazie sotto pressione”, di prossima uscita per Giuffrè editore e scritto dal giurista Pier Luigi Petrillo: “Sembra mancare il coraggio, in Italia, di guardare alla realtà – scrive il professore di Diritto comparato alla Unitelma Sapienza Università e di Tecniche di lobbying alla Luiss – ovvero al fatto che i gruppi di pressione partecipano già ai processi decisionali, e che il problema non è dato da questo fenomeno, ma dalla condizione di oscurità che li avvolge”.

    In Italia anche “la dottrina più autorevole” ha scelto di chiudere gli occhi: tra un Gustavo Zagrebelsky (costituzionalista ed editorialista di Repubblica) che predica la “purezza” delle aule parlamentari e un Carlo Esposito (già costituzionalista fascista e poi tra i padri nobili del costituzionalismo repubblicano) che paragonava le lobby a una “malattia dell'ordinamento rappresentativo, male da combattere e eliminare”, oggi ci troviamo costretti a guardare alle legislazioni straniere per regolare un fenomeno che comunque esiste.

    Non a caso Petrillo,
    nella sua analisi comparata, si sofferma sui casi inglese, canadese, statunitense e comunitario. Il paradosso è che proprio gli States – che sin dal Primo emendamento del 1791 alla Costituzione difendono il “right to petition”, ovvero “il potere dei gruppi di pressione di esercitare la propria influenza sui decisori pubblici” e non la semplice possibilità di presentare petizioni – si sono dotati di un Federal Regulation of Lobbying Act già nel 1946. La legge prevedeva “per chiunque volesse influire sul processo legislativo, l'obbligo di registrarsi presso un apposito albo” presso le Camere, di indicare “gli interessi tutelati” e soprattutto “le somme di denaro ricevute o consegnate”, di rendicontare ufficialmente la propria attività. Il tutto con annesse sanzioni in caso di violazione delle regole. Nel 1995 la legge è abrogata e sostituita da una norma con lo stesso spirito (Lobbying Disclosure Act), che amplia e dettaglia per esempio la definizione di “lobbista” e di “pubblico ufficiale dell'esecutivo”. E' dagli anni 70, inoltre, che Washington (Obama incluso) legifera sul fenomeno delle “revolving doors”, “vietando agli ex funzionari pubblici di ‘ritornare' nelle amministrazioni da loro in precedenza dirette, in veste di lobbisti”.

    Stessa attenzione anche nel Regno Unito, dove sin dall'800 i parlamentari devono tra l'altro rendere conto dei loro interessi, anche non economici, in un apposito registro; una consuetudine secolare che il premier Tony Blair, negli anni 90, ha voluto fosse resa obbligatoria. Non solo: a Westminster, come in Italia, esistono da tempo i cosiddetti “intergruppi parlamentari” (“all party groups” in inglese), ovvero gruppi interpartitici composti da deputati di partiti differenti ma uniti da un comune interesse da sostenere. A Londra però, a differenza che nel nostro Parlamento, vige anche l'obbligo di rendere pubbliche queste affiliazioni volontarie, in modo da rendere note agli elettori le finalità perseguite dai propri rappresentanti e, pure in questo caso, pubblicizzare l'identikit di eventuali finanziatori di questi stessi intergruppi.

    E in Italia? Il problema, secondo Petrillo, non è soltanto che dal 1948 al 2010 “sono stati presentati quasi quaranta disegni di legge in materia di gruppi di pressione” e “nessuno è stato mai approvato”. Piuttosto anche la (poca) regolamentazione in vigore e afferente al tema è “strisciante” e “ad andamento schizofrenico”. Dal sostanziale fallimento del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel) ai controlli previsti ma largamente disattesi sul finanziamento ai partiti, fino alle Analisi di impatto della regolazione (Air), obbligatorie per legge dal 2000 ma che non garantiscono agli “interessi” di essere ascoltati: è come se giuristi e politici non volessero ancora ammettere che “regolamentare l'accesso dei gruppi di pressione alle istituzioni non significa ‘legittimarli', perché essi sono già legittima espressione di un ordinamento democratico e pluralista”.

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