Roma di bulli e coltelli

Morti e feriti, la cronaca nera impazza, la questura (come sempre) rassicura

Stefano Di Michele

Certe cose, statisticamente parlando, hanno pure un senso. Ma le statistiche, nella città di Trilussa – là dove un pollo intero a te e niente a me fa mezzo pollo a testa – lasciano sempre con un filo di perplessità: mah, sarà, signora mia, co' li tempi che corrono… E così Vittorio Rizzi, capo della Mobile della locale questura srotola dalle pagine dei giornali cifre e cifre che dicono che gli ammazzamenti a Roma mica tanti sono, e certo meno di prima sono, perciò animo gente!

    “Come volemo fà / Li poliziotti arrosto!  / Li possino ammazzà! (…) Fiore di lino / Nun me fà caccia fori er temperino / Sinnò te metto le budelle in mano”
    (Canto della malavita romana dell'Ottocento).

    Certe cose, statisticamente parlando,
    hanno pure un senso. Ma le statistiche, nella città di Trilussa – là dove un pollo intero a te e niente a me fa mezzo pollo a testa – lasciano sempre con un filo di perplessità: mah, sarà, signora mia, co' li tempi che corrono… E così Vittorio Rizzi, capo della Mobile della locale questura – sbirro dall'occhio intelligente, di calmo eloquio e di bello vestire: e sbirro de sbirreria affidabile, a sentir dire in giro – srotola dalle pagine dei giornali cifre e cifre che dicono che gli ammazzamenti a Roma mica tanti sono, e certo meno di prima sono, perciò animo gente!: er fattaccio può sempre succedere, ma er delinquente trova adesso pane per i suoi denti. Perché, nelle settimane addietro, molto sangue è corso per le case e per le strade de Roma – scivolando sull'asfalto bucherellato come formaggio de Svizzera, infilandosi tra i sanpietrini come all'epoca der Papa Re. “Cinque omicidi in pochi giorni danno la percezione di un bagno di sangue – ha detto il dottor Rizzi – ma se si ragiona in termini di statistica le cose cambiano: negli ultimi dieci anni a Roma ci sono stati, in media, quaranta delitti, con una caduta verticale nel 2010 quando i morti sono stati 23” (Repubblica, 19 giugno). Appunto: a voler statisticamente ragionare, l'ammazzamento calò. Ma nel crimine il ragionare statistico è roba ministeriale, magari de questura – ma per le strade e per le case (là dove l'ammazzamento sempre per possibile si conta), la statistica fa meno impressione dei (pochi) morti ammazzati residui. Ingiustamente, si capisce. Ma umanamente lo stesso si capisce, se er core trema e pure la matematica vibra. Così che sempre il dottor Rizzi, e sempre a Repubblica, ma quattro giorni prima, il 15 giugno, diceva (e il ferale conteggio in quel momento era fermo a tre omicidi in ventiquattr'ore): “Fino a 15 anni fa si viaggiava sugli 80-90; il calo è quindi fortissimo considerando che nel 2010 abbiamo avuto 21 omicidi” – che erano, comunque, due in meno di quelli della settimana appresso, ma sempre dell'anno passato, a riprova che la statistica è scienza, ma lo stesso scientificamente oscillante.

    Non che l'assassino riesca a scamparla, e anzi quasi sempre per fortuna, e per sbirresca capacità, finisce ammanettato e alle patrie galere assegnato. “La percentuale dei casi risolti, sempre negli ultimi dieci anni, è del 78 per cento, ma l'anno passato è stato del 90 per cento, come nel 2009”: questo non poco consola (dopo, però), ma lo stesso all'erta si sta. Perché uno, in questi caldi giorni a cavallo tra la primavera e l'estate, e il sole infuoca le già calde capocce, sfoglia le pagine di cronaca e trova titoli che rosicchiano lo stomaco – gastrite de paura, sarà. E perciò: “Il cadavere di un cittadino italiano è stato trovato a Roma all'interno di un fondo agricolo in via Appia Nuova, in zona Quarto Miglio. A quanto si è appreso, l'uomo è stato ucciso a bastonate”. “Lite in strada, ucciso a colpi di cric, fermati dai carabinieri due uomini”. “Travolto e ucciso da pirata della strada”. “Commerciante ebreo accoltellato a morte. Omicidio per vendetta o motivi personali”. “Un russo di 21 anni è stato accoltellato la notte scorsa da quattro persone per motivi ancora da chiarire a via Orazio dello Sbirro (ma che fa la toponomastica, sfotte?, ndr), a Ostia”. Poi, uno apre la cronaca del Corriere della Sera del 21 giugno e quasi ti si chiude la bocca dello stomaco – pur se appunto, a conferma della consolante statistica del capo della Mobile, alcune sono nuove su delitti di cui si è sveltamente venuti a capo. Cinque titoli. 1): “La stuprano in cinque, presi dopo due mesi”. 2): “Fucilate contro i carabinieri, tre in cella”. 3): “Pastore assassinato, un fermo”. 4): “Il killer della nonna tenta di uccidersi”. 5): “Picchiato a sangue in strada, muore dopo un mese di coma”. E se uno va addietro di qualche giorno, e se poi di due o tre giorni va avanti, ecc. ecc…
    Forse c'è che a Roma, pur se non paga, il delitto chiama. Mica per niente, all'ombra dei sette colli si cominciò con un fondatore che accoppava l'altro fondatore – Romolo e Remolo, avrebbe detto un dì Berlusconi, ma tanto ci siamo capiti lo stesso – e scannamenti e mazzolate, in un luccichìo di lame e in un'epica di delinquenza elevata a volte a fenomeno sociale. Persino ammirato, copiato, cantato – quasi come i gauchos del “barrio Palermo” di Buenos Aires di Borges, “del coltello e della chitarra”.

    E perciò, “fora er cortello!”, risuonava l'urlo nella Roma che fu, mentre l'urlatore la sua lama innalzava – come da canti e sonetti e leggende premetropolitane, si schitarrava all'ombra dei vicoli e si stornellava: “Fior del mughetto / pe' chi la mi' regazza m'ha levato / tengo un coltello da piantaje in petto!”. E solo a Roma un'epopea sciamannata e criminale come quella della banda della Magliana – filologicamente e figurativamente resa dal “Romanzo criminale” di Giancarlo De Cataldo, come dal film successivo, come dalla serie televisiva ancor più successiva – poteva farsi fenomeno di costume (con contentezza di identificazione tra il buon cittadino e il killer prezzolato, il pacifico studente e il fascistoide assassino, magari persino la brava massaia e la mignotta extra luxe con bordello della banda ai Parioli), persino sollazzo sociale. E così, ci sono in vendita, e irresistibilmente vendono, gli accendini con le facce del Freddo e del Libanese e del Dandi, magliette e felpe con identiche icone delinquenziali – o volendo con la banda per intero attruppata, “tributo a Roma criminale”: perché a Roma – Capoccia e Lupa – persino nel crimine l'irreale può prevalere sul reale, e le belle facce degli attori che interpretano i criminali prendere il posto di quelle ordinarie dei criminali veri. Buona grazia se finora, come nei giorni bui delle peggio soap, a qualcuno non sia venuto in mente di chiamare così la creatura da portare a battesimo: Freddo o Libanese o Dandi – come se fossero Jessicah con l'acca, Sue Ellen o J. R., e forse solo la saggezza delle norme anagrafiche ancora ci protegge. Città de preti (sempre) e di politica (sempre) e di affaracci (sempre), la capitale ha mostrato nella sua storia quasi una sorta di materna accoglienza (come un ventre caldo di sacrestia, come un invalicabile portone conventuale, come per una prelatizia comprensione: dei secoli andati, si capisce, di vecchia santità sacrilega, pur se un delinquente di quelli romanzati ancora adesso in una cripta benedetta riposa: mejo der Beato, er peccatore), perlomeno una blanda sopportazione, una sottile fascinazione. Del sangue, del bullo, del fuggitivo. Dell'assassino, persino e più ancora. E del boja, nel caso: fu popolare, a Roma, il delinquente; ma popolare fu pure Mastro Titta – che al delinquente, sul patibolo, il collo gli segava. E perciò: “Te possino dà tante cortellate / pe' quante messe ha detto l'arciprete / pe' quante messe ha detto l'arciprete / pe' quante vorte ha detto: orate frate”, che “nun serve bello mio che ce rugate / so' cortellate quante ne volete”.

    E ora certo per strada si spara, in certe zone tra semicentro e periferia, “aho, e che ce stà, Ar Capone?”, a regolare conti che si faranno sempre più sregolati, e nelle famiglie – soprattutto nelle famiglie, tana d'ogni intenso amore e anfratto di maligne toccate e botte tante e a volte coltellate, e s'accoppa. Prima che il crimine a Roma diventasse moderno – crimine de revorverate, prima che dar cerino o dar taglino o dal martino (parole diverse, per indicare un solo strumento: il coltello) si passasse, in massa, ar cacafoco, che la pallottola ti piazza in petto senza manco che faccio un passo – crimine di lama, era. E come il nostalgico canto borgesiano del vecchio quartiere – lame e chitarre. Er bullo – e forse la mistica degli maglianesi d'oggidì lì ha origine e lì ha natura – fu figura eminentemente popolare, nella Roma che fu eminentemente romana. E avevano nomi che correvano da quartiere in quartiere, che come le bande di oggi ognuno il suo ridotto aveva e ognuno il suo vicolo difendeva: e così s'aggiravano er Porpo, er Zeppa, er Grinta, er Porchetta, er Pomata, er Fagocchio, er Cicoriaro, er Cecchetta, er Manciola, er Malandrione de Trastevere, professione pappone – e Brugnoletto, Pallone, Arfredone… Si chiamava er Tinea, er bullo più famoso di tutti, era de Trastevere, e acquistò fama de defensore de poveracci quando con un par de sganassoni atterrò quel puttaniere der Malandrione che aveva messo le mano addosso a una povera ragazza indifesa. “Che je stai a fa' a 'sta poveretta? Lassela perde…”. “Je faccio quello che me pare e piace e tu impiccete pe' l'affaracci tui sinnò co' questo te caccio fora le budella” (resoconto verbale tratto da “Roma criminale” di Cristiano Armati e Yari Selvetella, Newton Compton editori: preziosa raccolta de gesta e de vite de malavitosi). Finì nel sangue, e come altro, senno?, pure la gloria effimera del Robin Hood de noantri, e il 4 aprile del 1910 er Tinea fu accoltellato, a vile accoltellamento, qui a piazza Trilussa da Bastiano er Sartoretto. Persino il Messaggero, nella sua cronaca, aveva quasi il ciglio umido: “Dove era lui, non ammetteva che ci fosse se non un solo prepotente, er Tinea: e guai a chi osava metterglisi di fronte, costui correva il rischio di morire ammazzato o, per lo meno, era sicuro di rimanere parecchio tempo all'ospedale, per farsi curare le ferite ricevute”. E tutti, bulli e ganzi e semplici fiji de mignotta, al mito di Meo Patacca, “che sfida col ferro in mano chi dice male di Roma” si rifacevano. Che de cortello (oltre che de ferro) parecchio se lavorava – nella Roma che fu, miserabile e papalina prima, miserabile e sabauda dopo, come nella Roma che è – mai stata “Roma nostra piena de bontà”, questa città santificata sempre e parecchio immignottita, vuoi prima per il prevalere dei preti, vuoi dopo per il calare in massa del piccolo borghese piemontese – ministeriale di poco conto e molte voglie.

    E siccome statistiche abbiamo adesso, e statistiche avevano allora, ecco cosa si legge in “Roma criminale”: “La statistica sanitaria del Regio Commissariato Ospedali riuniti di Roma, curata da Achille Ballori, riporta il numero di feriti da armi da taglio che passarono per i maggiori ospedali dell'epoca: il Santo Spirito, il San Giacomo, la Consolazione e il Sant'Antonio. Per il 1892 si contano 267 feriti e 17 morti da punta e taglio, tra colpi ‘penetranti' e ‘non penetranti'. Per il 1893, 243 feriti e 5 morti. 44 morti e 239 feriti nel 1894”. Scrivono ancora, Armati e Selvetella: “Il bullo romanesco entra nella storia della letteratura con la Commedia dell'Arte: personaggi come Jaccaccio, Squarcio, Favetta, Ciumaca, Grilletto, maschere cupe, farsesche, smargiasse, ispirate al ‘Miles gloriosus' di Plauto e ben inserite in un contesto che già le aveva elette rappresentanti della mentalità popolare”. Così che alla fine, a forza di ravanare tutti attorno a codesta mentalità popolare (un secolo addietro al ceto medio, più o meno riflessivo), tanto gli sbirri quanto i malvissuti quasi si confondevano: nella parlata, nella gestualità, nei soprannomi, persino e soprattutto. E perciò una delle canzoni più popolari della malavita de zona fa così: “E gira e fai la rota / la rota del carretto / allegri giovenotti / hanno ammazzato er Macellaretto” – ed era, questo Macellaretto un poliziotto grosso come un armadio, che morì pigliato a cortellate da un bullo. Canzone di giubilo per il festevole (criminalmente parlando) evento, che appunto fu proibito, “giovanottini de la malavita / nun lo cantate più gira la rota / nun lo cantate più gira la rota / perché er governo ve l'ha proibita”, ritenendo appunto la questura che fosse da ingabbiare nella stessa il primo trovato con l'ugola in attività.

    E quindi, ha lo sbirro un soprannome da malavitoso – poliziotto un po' macellaro de brutti modi, probabilmente, ma Macellaretto è nome perfetto pure per un criminale de borgo. Che sempre poi hanno, sotto il Cupolone, 'sti nomi che da invenzione popolare si sono mutati in invenzione giornalistica, ma che sempre fanno sagra metropolitana al loro primo accenno: zompicchiando così dar Canaro della Magliana ar Gobbo der Quarticciolo, dar Mostro de Nerola al Nano de Termini, da Johnny lo Zingaro a Jack Lametta a Jo Codino – e qui vien facile da notare come l'evoluzione della specie segue quella del costume linguistico nazionale. Perché ancora nei giorni del delitto Pasolini, a metà degli anni Settanta, i soprannomi sembravano con un piede nell'Ottocento – e così era detto “la Rana” il ragazzotto che il poeta ammazzò, e un suo amico “detto ‘lo Sburracchione' perché ha il viso pieno di foruncoli”, e fa quasi tenerezza er Roscetto che con la sua banda, nel Dopoguerra, riuscì a mettere a segno un colpo da far ammattire i giornali tutti, “il furto subito dal commendatore Agnelli (proprio lui, il ‘signor Fiat') derubato di gioielli e altri preziosi che il ricco industriale aveva lasciato incustoditi in una valigia nel bagagliaio della sua macchina” – ché il Roscetto sarà stato pure abile, ma l'Avvocato mica tanto furbo.

    Ogni tanto viene fuori qualche “mappa della criminalità a Roma” – e come sorci che rosicano i bordi di un tappeto di suo già un po' tarlato, se ne stanno attruppati, un po' di nomi qua, un po' di nomi là, ai bordi della carta metropolitana. Perché, come la storia dei bulli insegna, e come l'epica della banda della Magliana ha stabilito per sempre, la malavita romana vive pure, pezzo per pezzo, acquartierata zona per zona, borgata per borgata, feudo per feudo. E appunto, così senti dire – e così poi ti capita di leggere: “Hanno ammazzato er Bavoso de Tormarancia!”. C'è un curioso libretto, scritto da due arditi lombrosiani nel 1898. S'intitola “La mala vita a Roma”, di Alfredo Niceforo e Scipione Sighele (ripubblicato qualche anno fa dalla Arnaldo Forni editore). E i due – che esaminano crimine locale e locali criminali come fanno gli scienziati con gli insetti al microscopio – prendono d'assedio il quartiere allora nuovo di San Lorenzo, “teatro notturno di orribili fatti di sangue, è l'ambiente dove brulicano le classi pericolose della società, dove si commettono quei fatti criminosi che terminano quasi tutti nella stessa maniera: l'impunità dei rei”. L'analisi è quella che è, lombrosiana appunto, ma il volumetto è una miniera d'informazioni sul gergo della mala romana postunitaria, tra aristocratici alluttati, per via der Papa imprigionato, e vincitori rapaci, per via der Savoia intronato. Così, il carabiniere era “il bello” (e pure “l'asso di denari” e il “Giano”), la pattuglia “la trotta”, il “gatto” la guardia carceraria, “zio” la guardia di Ps, “doppio” il maresciallo della stessa Ps. E “sfogliosa” il soldo di carta, e “pappio” il portafoglio, e “moscheggiare” il far silenzio… E' una sorta di infernale girone dantesco, quello che mettono in scena – con un linguaggio che era dato per scientifico e che adesso più saggiamente appare comico – pur tra felici annotazioni genere:  “Supplì finissimi a un sordo l'uno”.

    E lo spasso massimo nel leggere di quello che neanche può essere raccontato, peggio di un assassinio, dire e non dire. Così di certi posti (sempre nel settore crimini), dove “trovate qualche sott'ufficiale di cavalleria e parecchi giovinastri che si chiamano – per soprannome – Teresina, Giulietta, Mariuccia. Tra costoro che sono ancora più in basso – nella scala sociale – dei parassiti loro amici, filtra spesso l'elemento soldatesco dei quartieri militari del Macao…”. E, come in certe commedie di Scarpetta, ecco in scena il marchesino napoletano, che a Roma, diciamo, se la spassava a modo suo – morto ammazzato, “ma qualche cosa di più mostruoso si nascondeva sotto il sanguigno velo di sì tragico delitto”. E tutto – precisa commedia dalla strepitosa sceneggiatura, il “vade retro!” come il principio di arrapamento che sempre il losco fornicare procura al benpensante, ecco resocontato che neanche Almodóvar meglio potrebbe: “Si seppe subito – dalle ricerche della polizia – che l'assassinato frequentava una compagnia di giovinastri appartenenti ai bassifondi della capitale; basti dire che essi si chiamavano l'un l'altro con i nomi di Fifì, Marchesina, Toscanina, Mimì; uno di loro, forse per le sue qualità dominatrici, era soprannominato Giulio Cesare. (…) Si trovarono anche, in casa del morto, fotografie di giovani soldati con dediche sentimentali” – però, che esuberante attività, la cavalleria di Sua Maestà! E allora, “in quel lugubre delitto non entrava dunque la donna, non il bottino, ma un movente di cui qui è troppo orribile parlare e che noi potremmo ritrovare soltanto nelle pagine più vergognose della degenerazione umana” – esagerati… Infine, i due lombrosiani in avanscoperta, così rappresentavano la novella capitale che, bassifondo per bassifondo, andavano scoprendo: “Roma presenta infatti – con alterna vicenda che non turba la contemporaneità cronologica – tanto lo spettacolo di delitti individuali eminentemente moderni, che scoppiano quasi scintille dal fuoco latente della mala vita delle alte e bassi classi sociali – quanto lo spettacolo di delitti individuali ancora medioevali e selvaggi”. Avessero avuto sotto mano invece del marchesino Fifì che si passava caserma e accasermati, una banda delinquenziale come si deve, il mito del Freddo e del Libanese avrebbe goduto di qualche precedente – e in fondo, a rileggere le storie dei bulli, qualche precedente malandrino c'è stato.

    E qui stiamo – sbirrescamente e statisticamente. Sostiene l'impagabile duo Niceforo & Sighele: “Il male sta dunque – secondo noi – nella radice; non la polizia – ma la legge penale – anemica quale essa è attualmente – deve rispondere della colpa”. Almeno, con una simile motivazione, il predecessore del dottor Rizzi alla Regia Questura aveva vita più facile: poteva sempre dire che era solo una sua opinione – quella tale statistica.