Storia di una megamulta
Arriverà probabilmente sabato la sentenza di Appello sul Lodo Mondadori: una vicenda che a distanza di vent'anni continua ad agitare la politica italiana. Da ultimo, con la polemica sulle modifiche.
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Arriverà probabilmente sabato la sentenza di Appello sul Lodo Mondadori: una vicenda che a distanza di vent'anni continua ad agitare la politica italiana. Da ultimo, con la polemica sulle modifiche (ritirate giusto ieri) del Codice di procedura civile contenute nella manovra, che avrebbero consentito di rinviare fino alla sentenza definitiva in Cassazione il pagamento dei 750 milioni di euro a Carlo De Benedetti. Ma come si è arrivati a questo punto?
All'alba di tutte le cose ci sono 150 milioni: di lire, ma degli anni 50. Sono i soldi che nel 1955 Adriano Olivetti mette a disposizione dell'Espresso: il cui progetto Arrigo Benedetti e Eugenio Scalfari gli hanno presentato dopo essersene andati sbattendo la porta dall'Europeo comprato da Angelo Rizzoli. Quando Manlio Cancogni fa un'inchiesta clamorosa sulla speculazione edilizia a Roma, “Capitale corrotta, nazione infetta”, la minaccia di rappresaglie pubbliche sulle forniture di macchine da scrivere induce l'atterrito Olivetti a tirarsi indietro. Con gesto da gran signore, regala però i 150 milioni della sua quota: il 70 per cento della proprietà. Il pacchetto maggiore va a Carlo Caracciolo: aristocratico napoletano, cognato di Gianni Agnelli, chiamato a fare il manager dell'Espresso. Il resto è diviso tra Benedetti e Scalfari.
Seconda puntata il 10 aprile 1963: quando Benedetti si ritira nella sua villa di campagna per fare il romanziere a tempo pieno, cedendo a Scalfari anche la sua quota di proprietà: in cambio di 20 milioni, che Scalfari si fa prestare da Renato Cantoni, l'agente di Borsa che ha frequentato a Milano e che gli ha insegnato i segreti della finanza. E' il 10 per cento, contro il 90 per cento di Caracciolo, anche se negli anni immediatamente successivi lo raddoppia. L'Espresso tirerà poi fuori lo scoop del golpe De Lorenzo, in seguito al quale il direttore-editore Scalfari e il genio del giornalismo abilmente romanzato Lino Jannuzzi finiscono sotto processo. Nel 1968 i due sono eletti alle Camere dai socialisti di Pietro Nenni, anche per avere l'immunità parlamentare. Ma Scalfari con la leadership socialista non si prende. Non rieletto, inizia a pensare al progetto del quotidiano Repubblica. La ricerca frustrante di finanziatori ha una svolta quando Andrea Rizzoli, da poco diventato proprietario del Corriere della Sera, decide di rilanciare il Mondo, facendone una testata sul modello di Espresso e Panorama, per far loro concorrenza. Espresso e Panorama rispondono alla sfida promuovendo a loro volta assieme un quotidiano che sfidi il Corriere. “Resteremo rivali a monte e saremo consoci a valle”, spiega Scalfari al consigliere delegato della Mondadori Mario Formenton, convincendolo. E' venerdì, 11 luglio 1975. La nuova società che nasce, Editoriale La Repubblica, è dunque per metà di Mondadori e per metà dell'Editoriale L'Espresso, con 5 miliardi di capitale a testa. Il giornale esce il 14 gennaio 1976.
All'inizio, con poco successo. Scalfari si sta già apprestando a chiudere, quando il sequestro Moro porta a un aumento brusco delle vendite dei quotidiani di cui Repubblica riesce ad approfittare meglio di altri. E un nuovo boom lo conosce quando lo scandalo P2 azzoppa il Corriere della Sera. “Quando avremo battuto il Corrierone vi sarà riconosciuto il diritto allo stupro e al saccheggio!”, avrebbe promesso scherzosamente Scalfari ai suoi giornalisti, secondo Giampaolo Pansa. Nel dicembre del 1986 il sorpasso avviene sul serio, e per la prima volta dal 1904 il Corriere non è più il primo quotidiano d'Italia. Il risultato è stato ottenuto anche grazie a una politica di gadget e promozioni che verrà poi copiata dal resto della stampa italiana, e che trova nel 1987 il proprio culmine in Portfolio: una lotteria che si basa sulla Borsa, e distribuisce ai lettori premi in denaro. Ma il 14 gennaio 1989 il Corriere risponde con Replay: un nuovo gioco che premia ogni giorno quattro biglietti giocati nelle lotterie nazionali e che non hanno vinto. In un paese dove la mania del lotto ha radici antiche, le vendite del giornale in alcune città raddoppiano, e addirittura triplicano. “Mi sento come dopo lo scoppio della prima bomba atomica”, confessa Scalfari il 3 febbraio del 1989 in un'intervista all'Europeo. “Con Replay hanno ucciso un grande progetto ideale”. E ancora: “Il successo di un giornale deve dipendere dalla bravura dell'editore e dei giornalisti, non dai premi in palio”. Gli avvocati di Repubblica arrivano a fare ricorso alla Magistratura: “Rimettendo in gara i biglietti come succede con Replay si fa una lotteria, mentre le lotterie sono riservate allo stato”. E' la stessa tesi che Scalfaro e Caracciolo assieme vanno a spiegare al ministro delle Finanze Emilio Colombo, ospite abituale della villa di Velletri di Scalfari. “Replay è illegale perché le lotterie sono monopolio di stato. O blocchi il Corriere o mi avrai contro”. “Ho settant'anni”, risponde Colombo. “Sono stato presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e del Tesoro. La mia carriera l'ho fatta. Con l'estrazione, finisce la lotteria e cade il monopolio. Replay arricchisce l'erario: la doppia possibilità di vittoria fa vendere più biglietti. Spiacente, lascio le cose come stanno”. Secondo i ricordi di Pansa, sarebbe stata questa “bomba atomica” a indurre Scalfari a vendere la sua quota di proprietà del giornale.
Proprio nel maggio del 1987, due firme della stessa Repubblica come i coniugi Corrado Augias e Daniela Pasti hanno pubblicato con Mondadori un giallo ambientato nel mondo del giornalismo: “Tre colonne in cronaca”, poi diventato anche un film. E' la storia appunto di un giornale spiccicato a Repubblica che un finanziere d'assalto ha deciso di scalare e che l'equivalente di Scalfari, per il bene della “società civile”, fa fuori tirandogli dal terrazzo nel suo attico due aghi avvelenati. L'anno prima Scalfari ha pubblicato “La sera andavamo in Via Veneto”: autocelebrazione con lo scopo di spiegare il fenomeno Repubblica al suo culmine, e di ricostruirne un albero genealogico fino al Mondo di Pannunzio. Varie testimonianze concordano su una serie di comportamenti e frasi di Scalfari, da cui è chiara la tentazione di approfittare di questo climax per liberarsi della fatica imprenditoriale.
Retrospettivamente, sarebbe anche facile leggere in “La sera andavamo in Via Veneto” la pubblicità per il prodotto prima di rivenderlo, e in “Tre colonne in cronaca” un accorato appello a ripensarci.
Ultimo retroscena: la grande guerra della tv iniziata quando Italia 1 di Edilio Rusconi e Rete 4 del gruppo Mondadori provano a sfidare Canale 5 di Berlusconi. Ma già a fine '82 Rusconi, oberato dai costi eccessivi, è costretto a cedere Italia 1 a Berlusconi, che può attaccare Rete 4 su due fronti. Nel 1983 il grande scontro tra soap opera, “Uccelli di rovo” di Canale 5 contro “Venti di guerra” di Rete 4: disfatta della rete mondadoriana. Infine, il 27 agosto del 1984 anche Rete 4 passa a Berlusconi. Oberato dai debiti, Formenton è costretto a chiedere aiuto sia a De Benedetti, allora padrone dell'Olivetti, sia allo stesso Berlusconi, in misura minore. Così, tutti e due entrano in Mondadori.
Nel 1986 Carlo De Benedetti propone a Mario Formenton un passo ulteriore: incorporare nella Mondadori l'Editoriale l'Espresso, con Repubblica e i quotidiani locali della Finegil-Gruppo l'Espresso che si stanno espandendo nel centro-nord. Formenton giudica il passo prematuro, ma la mattina del 29 marzo 1987 muore per un tumore al fegato, all'età di 59 anni. Presto gli eredi litigano tra di loro, e si creano due blocchi. Nell'aprile 1988 la vedova Cristina Mondadori e il figlio Luca si alleano infatti con De Benedetti e entrano nel consiglio di amministrazione, da cui sono espulsi la sorella di Cristina, Mimma Mondadori, e il di lei figlio, Leonardo Forneron Mondadori. A quest'ultimo il resto della famiglia contesta da tempo la scelta del nonno di affiliarselo, dandogli anche il cognome della Casa Editrice. I due finiscono dunque in minoranza, assieme a Berlusconi.
A questo punto il progetto di incorporazione può andare avanti. A maggio Scalfari viene designato al consiglio d'amministrazione dell'Editoriale la Repubblica: undicesimo consigliere tra i cinque della Mondadori e i cinque dell'Espresso. Ai giornalisti allarmati lui spiega che non c'è da preoccuparsi. “La libera stampa esiste solo se non è controllata dal potere”, dice nell'ottobre del 1988 durante un convegno dell'Espresso a Venezia. “Se banche o imprese si annettono un giornale, questo cessa di esercitare il controllo dei cittadini e diventa controllo del potere per conto della proprietà”. In sala è presente Carlo De Benedetti, che applaude freneticamente. Infatti, il 10 aprile del 1989 arriva la notizia che Caracciolo e Scalfari hanno venduto proprio a lui il loro pacchetto azionario. Caracciolo incassa 300 miliardi; Scalfari, 90 miliardi. Quasi subito De Mita, ultimo cavallo su cui Scalfari ha puntato, perde la segreteria della Dc, pur restando presidente del Consiglio. E' una vera e propria giocata al ribasso, che si completa quando a giugno De Mita esce pure da Palazzo Chigi e il prezzo delle azioni di Repubblica crolla. Ma alle domande di un gruppo di giovani cronisti ospiti della figlia Enrica per una festa di compleanno Scalfari dice: “Ho venduto perché non ho eredi” (come ai tempi della Legge Salica, le due figlie femmine sono evidentemente considerate non adatte), e poi scrive di aver venduto per costituire la dote alle ragazze. Angelo Agostini in una storia di Repubblica molto simpatetica con Scalfari si attiene appunto a questa confessione. “La motivazione addotta per calmare gli animi della redazione, che era scesa in sciopero, era stata la necessità di avere dimensioni finanziarie e imprenditoriali più ampie per affrontare le sfide che al tempo si credeva dovessero essere internazionali… A questo s'aggiunga che Caracciolo e Scalfari erano a quell'epoca sessantacinquenni, privi di eredi destinati all'impresa. E annotiamo un'altra, umanissima, considerazione. Se, partendo più o meno dal nulla, se non dalle proprie personali capacità, arriva un giorno il momento in cui capitalizzare l'impresa costruita con le proprie mani, risulta certamente comprensibile il desiderio di misurare sul banco del denaro il valore del lavoro prodotto”.
Anche Agostini ammette però che questa “mossa azzardata, giustificata dalla necessità di maggiori dimensioni aziendali”, sarà “l'atto che nei fatti dà il via alla scalata di Berlusconi alla Grande Mondadori”. Causa scatenante il vicepresidente Luca Formenton, futuro editore di sinistra, che De Benedetti tratta come “un emarginato, addetto a compiti superficiali o di rappresentanza”. Decide dunque di fare la pace col cugino Leonardo e con la zia Mimma e di mettersi assieme a loro con Berlusconi, uscendo unilateralmente dall'accordo stipulato con De Benedetti e la sua Cir. La motivazione: De Benedetti avrebbe violato gli accordi, comprando azioni privilegiate della Mondadori a insaputa dei Formenton. Nei mesi precedenti Scalfari ha sparlato abbondantemente di De Benedetti in privato, ma di fronte alla prospettiva di ritrovarsi come padrone Berlusconi lancia il suo esorcismo. “Sarebbe una concentrazione editoriale e pubblicitaria di proporzioni che definire allarmanti è dir poco, con rischi estremamente seri per l'assetto della democrazia, per i rapporti tra democrazia e capitalismo e per i poteri di controllo sulla gestione dei pubblici affari. Ci avvieremmo verso un regime di tipo pubblicitario e verso forme di manipolazione del consenso quali in Italia non si sono più conosciute dalla caduta del fascismo in poi”.
La rissa finisce nei teatri di avanspettacolo, e il Bagaglino fa impersonare Scalfari da un somigliantissimo tenore che intona arie d'opera libertarie: “Sempre libero degg'io”; “Suoni la tromba e intrepido / io pugnerò da forte: / bello è affrontar la morte / gridando libertà”. Pippo Franco gli fa battute sui soldi che ha guadagnato vendendo le azioni di Repubblica, lui risponde “non raccolgo”, e lo stesso Pippo Franco commenta: “Ti credo, con tutti i soldi che ti schizzano fuori dalle tasche, perdi tempo a raccogliere un po' di banconote cadute?”. Ma più ancora dei comici colpiscono i giudici. Il 22 dicembre 1989 uno milanese dà ragione ai Formenton e dichiara decaduto il consiglio di amministrazione presieduto da Caracciolo. Il 25 gennaio 1990 la nuova maggioranza elegge Berlusconi presidente della Mondadori. Il 28 gennaio la direzione di Repubblica emette un comunicato in cui dichiara “irricevibile” il nuovo editore. Motivo: le diverse vedute “sul modo di intendere la professione giornalistica, le regole della libera concorrenza, il rapporto tra affari e politica, e tra politica ed editoria”. Referente della direzione, da questo momento, sarà il consiglio dell'Editoriale la Repubblica, con Piero Ottone presidente e Marco Benedetto amministratore delegato. In molti vedono da parte di Scalfari un invito a licenziarlo, che però non arriva. Dieci giorni dopo è invece il direttore di Panorama Claudio Rinaldi che dà la dimissioni.
Intanto si susseguono incontri e trattative. Nel gennaio del 1990 Berlusconi e Scalfari si vedono a casa di Letta, e si mettono a cantare e suonare il piano assieme. “Lei è eccezionale. Me lo avevano detto. Ma non credevo fino a questo punto”, confessa il giornalista all'imprenditore. Ma sul giornale continua a usare un ben altro linguaggio. “È una turpe vicenda” (7 gennaio 1990). “Se l'operazione berlusconiana andrà in porto, noi vedremo a capo del più grande gruppo editoriale un membro della loggia P2” (7 gennaio 1990). “È l'assalto di un gruppo senza scrupoli” (12 gennaio 1990). Anche Berlusconi il 10 febbraio fa un duro attacco a chi vuole “tagliare le ali ai gruppi guardando soltanto a problemi di cortile, anzi di pollaio!”. L'arco politico ha iniziato a schierarsi: con Berlusconi il Caf; con De Benedetti il Pri, la sinistra Dc e il Pci. È in discussione alla Camera la legge proposta dal ministro delle Poste Oscar Mammì, del Pri, sulla regolamentazione del sistema radiotv. Il 20 marzo col concorso del Pci è approvata una norma chiaramente anti Berlusconi che vieta di interrompere i film in tv con spot. Il 22 marzo la Camera approva una legge che impone a Berlusconi di disfarsi della maggioranza azionaria del Giornale entro due anni. Il 4 aprile il tribunale di Milano dà torto a Berlusconi a proposito del consiglio di amministrazione dell'Amef, la finanziaria di controllo della Mondadori.
Ormai sotto un'offensiva politica, mediatica e giudiziaria concentrica, Berlusconi si sente obbligato a fare un passo indietro, e si dice disposto a cedere Repubblica. Il 21 giugno gli arbitri chiamati a giudicare sul contratto stipulato tra i Formenton e De Benedetti nel 1988 danno in effetti ragione alla Cir, e di conseguenza il 29 Berlusconi decade dalla presidenza della Mondadori. Il 10 luglio la delega del consiglio della Mondadori è affidata a Carlo Caracciolo e Antonio Coppi, mentre la direzione generale va a Corrado Passera della Cir. Anche Montanelli intanto critica Berlusconi, ma Craxi chiede ad Andreotti di porre al Senato voti di fiducia in continuazione, per evitare nuove imboscate e togliere così il divieto di spot nei film. Cinque ministri della sinistra democristiana si dimettono per protesta, ma Andreotti li sostituisce, e il 27 luglio si ripresenta alle Camere per ottenere la fiducia. Il 5 agosto la legge Mammì è infine approvata: tolto il divieto di spot, Berlusconi deve comunque cedere il Giornale, che passa al fratello Paolo; ma ha il permesso di aprire tre reti televisive a pagamento.
Conclusa la battaglia in Parlamento, la parola torna ai tribunali. E il 24 gennaio 1991, dopo dieci giorni di camera di consiglio, la Corte d'Appello di Roma stabilisce che gli accordi tra i Formenton e la Cir erano in contrasto con la disciplina delle società per azioni. Una sentenza emessa da tre giudici uno dei quali, secondo un giudizio definitivo, ricevette dalla Fininvest di Berlusconi utilità e denaro in cambio della sua operosità corrotta. Dunque, il tutto torna in mano a Berlusconi. Ma la fronda di direttori e giornalisti continua. Infine, incaricato da Andreotti di trovare un compromesso, l'imprenditore Giuseppe Ciarrapico arriva il 25 aprile 1991 al famoso Lodo Mondadori. Soluzione di esproprio mascherato, che riporta la situazione a prima che Scalfari decidesse di vendere, e Berlusconi di acquistare. A Berlusconi, il settore libri e periodici della Mondadori, compreso Panorama; a De Benedetti Repubblica e l'Espresso. Una pace armata durata fino alle ultime sentenze, che hanno riaperto il caso.
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