Lo stupro percepito

Annalena Benini

Se le spunta il perizoma dai jeans a vita bassissima, è più che altro stupro percepito. Se lui le ha detto: dammi la mano perché solo così riesco a fare l'intervista, e lei non è subito fuggita urlando, è pazza a pensare di denunciarlo dopo otto anni per tentato stupro, con quel faccino da gattamorta, poi. Se lei gli sorride ammiccante, prima, che stupro è? Se lei è una prostituta, non scherziamo. Se lei l'ha seguito in albergo, di notte, e qualcuno li ha visti baciarsi, poi non può lamentarsi che lui l'ha stuprata.

    Se le spunta il perizoma dai jeans a vita bassissima, è più che altro stupro percepito. Se lui le ha detto: dammi la mano perché solo così riesco a fare l'intervista, e lei non è subito fuggita urlando, è pazza a pensare di denunciarlo dopo otto anni per tentato stupro, con quel faccino da gattamorta, poi. Se lei gli sorride ammiccante, prima, che stupro è? Se lei è una prostituta, non scherziamo. Se lei l'ha seguito in albergo, di notte, e qualcuno li ha visti baciarsi, poi non può lamentarsi che lui l'ha stuprata. Se loro due stavano insieme, non esiste stupro, al massimo è minestra riscaldata male. Se lei ha detto no, alla fine comunque intendeva sempre sì. Se lei non se ne sta più chiusa dentro casa, pudica e modesta, consapevole che lo spirito predatorio è maschio e il focolare è femmina, se pensa di godersi la libertà, divertirsi, sedurre, cambiare idea, farsi pagare, diventa complicato chiamarlo stupro. E' complicato dimostrare che, potendo dire sì a qualunque cosa, quella volta si è detto no.

    E' difficile non tanto davanti al giudice (si scaverà nella vita, nell'abbigliamento, nelle parole, nella postura, nel passato sentimentale, nel  tono di voce, nel modo di camminare, nelle telefonate e nelle abitudini di una che sta lì e deve rispondere: perché ha bevuto? perché ha ballato a quel modo? perché non ha urlato? Oggi in Inghilterra, ad esempio, solo il cinque per cento degli stupri denunciati finisce in una condanna), ma è faticoso prima di tutto davanti al mondo, davanti alle chiacchiere oziose, davanti alle altre donne, bisognose di dare una spiegazione a quella bestialità, desiderose di mettersi al riparo e di sentirsi superiori e salve. Una mia amica mi ha detto sottovoce una di quelle cose inconfessabili in una spiaggia politicamente corretta: “La vuoi sapere la verità? In vent'anni che lavoro e giro il mondo, non mi è mai successo che un Dominique Strauss-Kahn qualunque mi saltasse addosso contro la mia volontà: un motivo ci sarà”. Il motivo non è quello che qualche villanzone maschio avrebbe pronto come battuta facile, “Com'è sta tua amica, il solito sorcio?”, la mia amica è bella e sostiene che basti non sbattere le ciglia, non accavallare le gambe, non mordersi le labbra, non cominciare il gioco della seduzione, non dire nemmeno un sì. Non fargli pensare che in fondo perché no, non svegliare l'animale che lui si porta dentro (“Ma l'animale che mi porto dentro / Non mi fa vivere felice mai / Si prende tutto anche il caffè / Mi rende schiavo delle mie passioni / E non si arrende mai e non sa attendere / E l'animale che mi porto dentro vuole te” è una bella canzone di Franco Battiato, non ci sono stupri, anzi è romantico pensare che l'animale che si porta dentro voglia noi, e il desiderio altrui non è sempre pericoloso, a meno di volere sposare la cupissima tesi secondo la quale: “Ogni uomo della società è un potenziale stupratore”). Ma l'animale che lui si porta dentro è comunque culturalmente giustificabile, la civetteria che ci portiamo dentro diventa invece ancora adesso una colpa, un azzardo, una spavalderia eccessiva, una specie di consenso preventivo all'aggressione, e l'aggressione non è già più tale (tranne che per gli attivisti dei movimenti anti stupro: arrivano ad affermare che “ogni scopata è uno stupro anche se è piacevole”, e tutto questo, in effetti, complica ancora di più le cose). Lo psichiatra forense Seymour Halleck scrisse nel 1972 che la vittima di uno stupro “spesso” svolgeva “un ruolo non meno importante dell'aggressore nello scatenare il reato. Molti stupri, soprattutto quando il responsabile conosceva la vittima, forse non sarebbero mai avvenuti se la ‘vittima' non fosse stata civettuola e ambivalente riguardo al suo desiderio di un'esperienza sessuale”. Vittima fra virgolette, quindi, una che inconsciamente desidera essere presa con la forza. Oppure ha dato il consenso a sua insaputa, come la casa al Colosseo comprata da Scajola. Quando Maureen Dowd ha scritto sul New York Times, a proposito del caso DSK, che il messaggio di tutta questa storia (prima che il romanzo finisse in una bolla di bugie e in fiumi di champagne) è che “no significa no”, non era un'ovvietà. Anche nei manualetti d'amore, quelli in cui si insegna a conquistare una donna a eserciti di incapaci brufolosi o calvi imbecilli, viene spiegato che “no” significa “forse”. E che un forse può diventare velocemente sì, se si è bravi a insistere (fingendo di ignorare il vero problema di questo millennio, testimoniato dalle nevrosi di molte e dai “Sex diaries project Italia”, di Arianne Cohen, appena usciti per Rizzoli, che registrano un universo di maschi pantofolai, pigri e semi asessuati: la placidità maschile, cioè uomini a cui non passa nemmeno per l'anticamera del cervello di insistere per qualcosa che non sia un abbonamento Sky).

    Dire no pensando sì (pensando: adesso devi faticare un po' prima di essere miracolato, devi dimostrarmi che preferisci il mio reggiseno al posticipo) è un diritto inalienabile delle schermaglie amorose, la fuga prima dell'inseguimento non è in discussione (sempre contando in modo ottimistico sull'idea che dopo una fuga ci sarà un inseguimento), però poi arriva un momento in cui nessuna parte della parola “no” è complicata da afferrare. Lo dice il corpo, la voce, lo dicono gli occhi. Lo dice la libertà faticosamente conquistata di essere volubili, cambiare idea, ritornare vergini, la libertà anche di prenderli in giro. In quel momento lo spirito predatorio deve andare necessariamente a farsi una doccia gelata e tenere giù le mani e il resto. Ci sarà un'attesa tradita, uno spreco di tempo, un ammiccamento a vuoto, un due di picche, la breve illusione, delusa, di avercela fatta, una scena imbarazzante da non raccontare a nessuno (o invece da raccontare a modo loro, come fanno sempre, lasciando intendere sfrenate evoluzioni e lei soggiogata che implora: ancora), e si potrà imprecare contro quella squilibrata bipolare che al telefono fa la pornostar e al dunque la santarellina. Ma la libertà nei rapporti fra uomini e donne ha un prezzo, e il prezzo è tenersi addosso i pantaloni se non si è certi che il messaggio sia: cosa aspetti a toglierteli. O reinfilarseli velocemente se il messaggio cambia in corsa: fino a un minuto fa era sì, adesso è no, chiama un taxi e buonanotte. Anche se sei nudo, sudato, rosso, arrapato, impazzito, anche se lei è una stronza stellare. Può essere avvilente, ma non così complicato, e nessun galateo post moderno consiglia di finire nel letto o nell'auto del tizio che ha pagato il conto al ristorante. A parti rovesciate, funziona sempre.

    Quando lui le srotola l'elenco delle scuse: siamo troppo amici, meriti di meglio, non voglio legami, ieri ero ubriaco, adesso sono sobrio, è un momento difficile, sono stanco, domani ho la partita, adesso ho una riunione, ho il calo del desiderio, per me sei come una sorella, sto su Internet non ho tempo, con la mia ex era diverso, se non la pianti cambio numero di telefono, torno da mia moglie, sei un po' ingrassata o sbaglio?, si registrano al massimo casi di stalking e di conigli bolliti e macchine rigate, non di uomini in lacrime al commissariato con le mutande strappate. “Sparisci, sgorbio”, dice una bellona in discoteca a Woody Allen, e lui obbediente sparisce (“Sparisci sgorbio” funziona sempre, a volte funziona anche solo  pensarlo, perché il pensiero inevitabilmente si affaccia sullo sguardo e produce l'effetto di un paio di tenaglie agitate davanti alla patta dei pantaloni). Purtroppo ci sono quelli che non spariscono neanche con le tenaglie. Siamo usciti dalle caverne da un sacco di tempo, ma nel saltare addosso alle donne che non lo desiderano e che hanno il diritto assoluto di non volerlo e di non subirlo (anche quando lo fanno per mestiere, anche quando un secondo prima lo volevano), c'è una millenaria animalità, una violenza che non è nemmeno legata al patriarcato, anzi è del tutto inadeguata al patriarcato. Un tizio di cinquantatré anni, colpevole dello stupro di tre ragazze, ha piagnucolato: “E' finita – tornerò a essere quello che ero a diciott'anni – timido, timoroso, niente donne, in più sto invecchiando e sto per andare in prigione”. Timidi, timorosi, niente donne e stupratori. Quando Robert De Niro perde la testa e stupra Jennifer Connely dentro la macchina, dopo che lei ha rifiutato di sposarlo in “C'era una volta in America”, è l'inizio del fallimento supremo, l'assoluta dimostrazione di incapacità e debolezza. Non riuscire ad avere quella donna, stuprarla per prendersi ciò che non si è in grado di ricevere. Stuprarla per punirla, lasciarle un segno, farle vedere chi sei perché non sei nessuno. O stuprarla perché passa di lì, in quel momento, è donna e allora deve sottomettersi. Non ha a che vedere con un'idea di forza e virilità e non c'entra nulla Sylvia Plath e la sua teorizzazione poetica (“Ogni donna ama un fascista / lo scarpone sulla faccia / il bruto cuore brutale di un bruto come te”): quelli sono uomini che odiano le donne (il primo romanzo della trilogia di Stieg Larsson comincia con lo stupro di Lisbeth, e finisce con quella rivelazione terribile che riguarda, appunto, le donne). Le odiano anche quando le desiderano compulsivamente, come DSK: se l'accusa di stupro cade, come sembra, se la presunta vittima diventa la principale accusata, come prevedevano i cinici all'inizio di tutto, forse DSK recupererà perfino l'onore, ma la sensazione sgradevole di un rapporto predatorio con le donne resta. Brinderanno fieri ed eleganti, alla faccia dell'africana bugiarda che ora rischia parecchi guai, e DSK, giustamente libero, potrà mettere scherzando una mano sul culo alla ragazza che serve ai tavoli. Con l'idea arrogante e semplice che la ragazza dovrebbe sentirsi lusingata, contenta. Come quando, secondo il racconto di Tristane Banon, provò a sfilarle i jeans durante l'intervista. O faceva apprezzamenti pesanti sulla scollatura delle giornaliste di Libération, e loro dovevano sorridere per portarsi a casa una notizia. In questi casi, diventa complicato spiegare che il sorriso è un compromesso per cavarsi dall'imbarazzo e non fare casino, non una dimostrazione di felicità e gratitudine, non la speranza che quell'uomo si mostri in tutta la sua rugosa e magari modesta eccitazione. Da gioco sottile può trasformarsi nel diritto dei vecchi sporcaccioni, come scrisse Stephen Clarke sul New York Times quando sembrava che l'America si preparasse a fare la rivoluzione francese dei rapporti fra i sessi, quando la cameriera nera sembrava poter diventare il simbolo della rivolta. Clarke spiegò una cosa interessante e difficile da smontare: la convinzione, in stile Luigi XIV, che siccome si è ricchi potenti chiunque cederà al tuo fascino, e ritenere che chi resiste sia un essere irragionevole. E' la presunzione di seduzione in presenza di privilegio, è il mondo in cui “no” diventa un modo civettuolo per dire “sì”, e la forza fisica fa il resto. Il mondo in cui una bella ragazza con uso di mondo ha come massimo sogno erotico un vecchio riccone con le guance che cascano: se lo fa con sincero entusiasmo è una senza dignità, se lo fa per costrizione e lo confessa è una mitomane, un'isterica, una pazza, una furba, una in cerca di un ruolo e di un'identità. In Francia, scrissero, non si sarebbe nemmeno arrivati alla denuncia. Secondo Erica Jong, che sulle cose senza cerniera e sulla grandiosa libertà sessuale ha costruito una carriera notevole – e non ha avuto problemi nel raccontare di avere “succhiato il flaccido arnese” di un editore che le aveva promesso cinquecentomila dollari d'anticipo mettendole una mano sulla coscia – è una questione  di rapporti di potere: l'evoluzione del caso DSK, con l'accusatrice inchiodata alle bugie e l'opinione pubblica che in dieci secondi si è completamente liberata con sollievo dell'idea di uno stupro (avrebbe funzionato, nei pensieri  da salotto, solo se si fosse davvero dimostrato che “Ophelia” era una specie di Maria Goretti musulmana, infibulata, stuprata da altri, pudica, tremebonda, conventuale), spiega  che “questo tipo di problema esisterà finché le donne continueranno ad allearsi con gli uomini contro altre donne, nella convinzione errata che il potere è sempre e solo maschile e le donne non potranno mai averlo né esercitarlo. Questo caso insegna alle nostre figlie e nipoti che le donne non hanno potere e che se ti lamenti finisci male”. Questo caso dovrebbe invece insegnare alle nostre figlie e nipoti a tenersi cara e stretta la loro libertà, a non permettere mai a un uomo di intimidirle, di convincerle che stanno dicendo sì, anche mentre pensano e urlano no. Non è la guerra fra i sessi. E' la libertà fra i sessi che viene messa in discussione.

    Cinque anni di indagini Istat: nove violenze carnali su dieci non vengono denunciate. Quasi tutte. Come se tutta questa libertà comportasse una libertà privilegiata per gli uomini, la libertà di non aspettare un sì, la libertà di addormentarsi tranquilli, dopo. La libertà di essere crudeli. Come se ci si vergognasse di non aver saputo usare la libertà per scappare lontano, per non essersi trovate lì, per aver creduto che quella libertà era di entrambi e quindi non c'era pericolo. Come se ci si dovesse vergognare, perché si stava ballando, si stava scherzando, bevendo, si aveva accettato un passaggio a casa e non si era esattamente Cappuccetto Rosso che attraversa il bosco per portare il cestino alla nonna. E' una linea talmente sottile che, dicono gli studi seri, “spesso le stesse vittime non sono sicure che sia stato commesso un reato”. Restano lì a chiedersi cosa è andato storto, cosa c'è che non va, e finiscono per dare la colpa a se stesse. Quella gonna, quel piercing, quella frase, quel rifiuto, quella scollatura, quel messaggino. E la libertà diventa una prigione buia, un incubo interiore. Se usarla per dire: “Non voglio” non è semplice, tirare fuori le cesoie, anche immaginarie,  è liberatorio. Christine Lagarde, nuovo direttore del Fondo monetario internazionale, ha detto che nessuno la molesta, “sanno che faccio molti sport e li prenderei a pugni”. Eve Ensler, autrice de “I monologhi della vagina”, scrive alle ragazze: “Vi diranno di tenere chiuse le gambe, di non parlare con gli sconosciuti, di non fidarti di nessuno, di arrenderti se lui ti violenta perché se provi a difenderti ti ammazzerà. Io vi dico: sono tutte balle, ribellati, chiedi, dì che lo vuoi oppure dì che non lo vuoi (e impara a guidare col cambio manuale). La libertà e un paio di cesoie, non abbiamo bisogno di nient'altro”.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.