Nel Dna degli italiani, vizi virtuosi o viziose virtù utili in tempi difficili
Fra i possibili esercizi spirituali di contenuto civile, nazionale e patriottico che ognuno potrebbe compiere nell'anniversario dell'Unità d'Italia, c'è quello di leggere ogni tanto qualcosa sull'argomento. Questa settimana ho scelto un libro di Sandro Fontana, “Il Dna degli Italiani, ovvero la salvezza nelle virtù del passato” (Marsilio, 139 pagine, 14 euro). L'ipotesi, la proposta dell'autore è interessante. Va in direzione opposta rispetto alle idee prevalenti, soprattutto all'idea fissa, certamente non sbagliata, ma divenuta noiosa e sterile, secondo cui i nostri guai si spiegano sempre e comunque con i nostri “ritardi”.
Fra i possibili esercizi spirituali di contenuto civile, nazionale e patriottico che ognuno potrebbe compiere nell'anniversario dell'Unità d'Italia, c'è quello di leggere ogni tanto qualcosa sull'argomento. Questa settimana ho scelto un libro di Sandro Fontana, “Il Dna degli Italiani, ovvero la salvezza nelle virtù del passato” (Marsilio, 139 pagine, 14 euro).
L'ipotesi, la proposta dell'autore è interessante. Va in direzione opposta rispetto alle idee prevalenti, soprattutto all'idea fissa, certamente non sbagliata, ma divenuta noiosa e sterile, secondo cui i nostri guai si spiegano sempre e comunque con i nostri “ritardi”. Siamo rimasti indietro, si dice. Non siamo abbastanza moderni e abbiamo bisogno di modernizzazione. Non c'è dubbio che sia così. La modernità è arrivata tardi in Italia, culturalmente l'abbiamo importata e assimilata male. Spesso la recitiamo. Siamo ancora uno dei paesi più ricchi e industrialmente sviluppati del pianeta, ma ci mancano le virtù intellettuali, politiche e civili all'altezza del nostro sviluppo economico.
Che fare? Stando ai tic dominanti della nostra pubblicistica, la cosa sembrerebbe risolvibile smettendo di essere italiani… No, mi scuso per questo lapsus imperdonabile. Non smettendo di essere italiani, ma (il che è quasi lo stesso) svuotandoci del nostro passato e della nostra identità balorda, diventando più inglesi, più francesi, più americani, più tedeschi. Facile a dirsi. Ma con ogni evidenza la cosa non riesce.
Metto subito da parte il tema dell'identità. Non se ne viene a capo. Potrei solo suggerire che alla fine “ognuno è come è” (per usare una frase di Montgomery Clift in “Da qui all'eternità”): ognuno ha la sua identità e la sua storia, il passato non si modifica, non si può correggere, è duro a morire e soprattutto non va buttato via in blocco senza averne fatto attentamente l'inventario.
E' quello che propone Sandro Fontana: un piccolo, veloce inventario di quella serie di virtù viziose o di vizi virtuosi che potrebbero tornare utili in tempi di crisi e di autocoscienza nazionale. In sintesi (usando l'indice del libro) noi italiani abbiamo sofferto sempre la fame: solo tra il 1971 e il 1975 abbiamo superato la soglia delle 3000 calorie medie pro capite, quella che distingue i paesi ricchi dai paesi poveri. Ma anche se la fame è superata, è rimasta nel nostro inconscio collettivo l'idea del Carnevale e del Paese della Cuccagna, dove non c'è più penuria ma l'abbondanza è perpetua. L'aver avuto fame non è né un vizio né una virtù: se aveva un pregio era quello di creare un ossessivo attaccamento al lavoro, che permetteva di mangiare ogni giorno. Ora però il senso e il bisogno di lavoro stanno sparendo, né sono mai stati una caratteristica esclusiva degli italiani.
C'è poi il risparmio. Questo sembra che ci caratterizzi. E' una buona eredità del passato, utile per il futuro: “All'origine di ogni distretto industriale, e quindi della grande trasformazione italiana avviata nel secondo Dopoguerra, troviamo tutta una serie di spinte convergenti basate sulla capacità di risparmio delle popolazioni contadine”. E' questa forse la virtù centrale, perché ci ha permesso (e si spera che ci permetterà in futuro) di resistere alle sirene della speculazione finanziaria e di restare ancorati all'economia reale e alle attività manifatturiere.
Anche la religiosità, secondo Fontana, è una virtù, perché ha tenuto insieme la famiglia e quindi la società italiana. Si può obiettare che secolarizzazione, urbanizzazione e declino del mondo contadino hanno minato i fondamenti della cultura religiosa. Fontana esprime un'opinione diversa: gli ex contadini, oggi piccoli e medi imprenditori, sono riusciti “a consolidare e ad aggiornare sotto ogni aspetto la loro fede religiosa”. Ammettiamolo. Resta da vedere di che fede si tratta, che idee contiene, quali comportamenti pubblici produce. Il problema in realtà è innanzitutto culturale, più che religioso, e anche Fontana, citando un articolo di Gian Arturo Ferrari, finisce per riconoscerlo: “Solo il 7 per cento dei nostri concittadini partecipa al consumo librario che è in crescita in tutti i paesi europei, mentre negli Usa la produzione libraria raggiunge una crescita annua che tocca un astronomico 4,5 per cento”.
Altre virtù? L'amore, la famiglia, il dialetto, il paese. Fontana in tutto il libro non si limita ai dati storici e statistici, fa un uso gustoso dei suoi ricordi autobiografici, raccontandoci l'Italia e la Lombardia come erano. Ciò che emerge è una antica saggezza e prudenza italica di origine contadina, cattolica e provinciale. Localismo, familismo, comunicazione schietta, ostilità allo stato, alle burocrazie, bisogno di appartenenza. E' tutto ciò che eravamo ed è anche ciò che spiega la Lega, la sua nascita, il suo radicamento, nonché i suoi modi. Se ho ben capito, l'ipotesi di Fontana è che una vera e sana realizzazione del federalismo fiscale non favorirà l'esistenza della Lega, ma forse la renderà superflua.
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