Non c'è un solo deficit a cui badare. Più che i conti, può la bilancia
Okay, ci hanno provato. La Borsa in altalena, un venerdì grigio, un lunedì nero e un martedì rosa. Il gioco funziona così. Ma c'è una logica in questa follia? A dispetto delle aspettative razionali, il Financial Times nella Lex column di ieri, dice che non c'è e rampogna i mercati: ma perché vi accanite contro l'Italia e non contro gli Stati Uniti che stanno peggio?
Okay, ci hanno provato. La Borsa in altalena, un venerdì grigio, un lunedì nero e un martedì rosa. Il gioco funziona così. Ma c'è una logica in questa follia? A dispetto delle aspettative razionali, il Financial Times nella Lex column di ieri, dice che non c'è e rampogna i mercati: ma perché vi accanite contro l'Italia e non contro gli Stati Uniti che stanno peggio? Perché ve la prendete con le banche tricolore le quali, certo, hanno bisogno di rafforzare i loro patrimoni, ma camminano con le proprie gambe e non sono state salvate dai soldi dei contribuenti, a differenza di quelle a stelle e strisce? Risposta: chi vende e compra titoli agisce come il cane di Pavlov, cioè guidato da riflessi condizionati. Tutti ricordano bene quando non c'era l'euro e ogni fine settimana si ballava sulla cassa di una moneta (la lira innanzitutto, ma anche la sterlina e le corone scandinave nel 1992 hanno preso una sventola che ancora se la ricordano). Ma nessuno ricorda un tempo in cui la finanza internazionale non abbia suonato e cantato a suon di debito americano. Bisogna risalire indietro, a prima del 1971 quando Richard Nixon mise fine al rapporto fisso tra dollaro e oro sul quale si regolava il sistema monetario mondiale dal secondo Dopoguerra. Allora, se una nazione aveva una bilancia dei pagamenti in disavanzo, doveva aggiustarla o svalutare la propria moneta, riportando così l'equilibrio.
Oggi il sistema non funziona più così. Le monete fluttuano liberamente, ma esistono paesi in deficit strutturale, come gli Stati Uniti, e paesi sempre in avanzo come la Cina, la quale assorbe i dollari stampati dagli americani senza vincoli esterni, e li mette in cassaforte. In mezzo a questa tenaglia, anche gli europei si dividono tra chi è in attivo stabile come la Germania e l'Olanda, e chi è in rosso come la Spagna e l'Italia. Anche se la natura del passivo è diversa: gli spagnoli hanno attirato capitali stranieri per finanziare la speculazione edilizia, gli italiani soprattutto per sostenere i redditi interni colpiti dalla crisi e pagare la salatissima bolletta energetica. Allo stato attuale, nessuno dei due esporta abbastanza beni e servizi. Lo squilibrio diventa più difficile da colmare quando i paesi fanno parte di un'unica area monetaria, quindi non possono svalutare.
Tra Italia e Stati Uniti, ci sono molte somiglianze, ha ragione il Ft. Entrambi hanno deficit gemelli, pubblico e con l'estero. Il disavanzo commerciale americano è balzato a maggio a 50 miliardi di dollari. A febbraio il buco italiano è arrivato a 27 miliardi di euro che ci riporta agli anni 90. Entrambi i paesi crescono troppo poco, non abbastanza per pagare gli interessi sui titoli di stato e creare posti di lavoro. Il servizio del debito italiano s'aggira attorno al 5 per cento del prodotto lordo, mentre il tasso di sviluppo non supera i quattro punti (il calcolo va fatto in termini monetari), quindi il debito aumenta in una spirale perversa. La variabile chiave, dunque, si chiama crescita. Lo ha sottolineato ieri anche il Corriere della Sera con un intervento di Maurizio Ferrera e un editoriale del direttore Ferruccio de Bortoli che chiede “più coraggio”. Fino ad anticipare la manovra, come proposto dagli economisti Luigi Zingales e Roberto Perotti sul Sole 24 Ore. Il quotidiano di via Solferino da un po' ha imboccato un sentiero sviluppista (sia pur prudente) anche sotto l'influenza dei suoi migliori cervelli economici: Mario Monti (da sempre in stand by come riserva della Repubblica) e Francesco Giavazzi. Proprio quest'ultimo ha riaperto il dibattito accademico negli ultimi mesi sul legame tra debito e crescita, un nesso che passa attraverso la bilancia dei pagamenti.
Lo studio è stato scritto insieme a Luigi Spaventa, pubblicato nell'ottobre dello scorso anno in occasione di una conferenza sull'euro a Bratislava e ora lo si può trovare anche nel sito della Banca d'Italia. Lo ha ripreso Prometeia in gennaio e l'istituto tedesco di previsioni economiche. Ne ha parlato Barry Eichengreen riconducendo la discussione al primo lavoro di Giavazzi con Olivier Blanchard (oggi capo economista al Fmi) che risale al 2002 e ha cambiato il dibattito economico sul tema, come sottolinea l'economista americano. Anche in sede Ocse sono state avviate ricerche sull'area euro con la stessa impostazione.
Per Giavazzi e Spaventa l'attacco all'Eurolandia non si spiega solo con la scoperta che la Grecia ha raccontato un pacco di bugie sui suoi conti pubblici. Perché allora il Portogallo, la Spagna o l'Italia? E perché il debito tedesco, che è il numero uno in Europa in quantità, o quello francese, ormai quasi pari all'italiano, non pongono gli stessi problemi? Il vero punto debole è lo squilibrio nella bilancia dei conti correnti con l'estero, a sua volta specchio del rapporto tra risparmi e investimenti. “Gli investitori hanno realizzato che il modello seguito da alcuni paesi nell'ultimo decennio, cioè la crescita tirata dalla domanda interna e finanziata con prestiti esteri, era insostenibile: i pesanti squilibri segnalano l'esistenza di problemi di solvibilità”.
Ciò mette in luce anche le debolezze nella costruzione dell'euro, non solo per i limiti imposti alla funzione della Banca centrale europea (anche se la crisi li sta via via estendendo), ma perché sono state trascurate variabili decisive oltre il deficit e il debito: la produttività, i costi interni, il sistema creditizio e soprattutto il rapporto risparmi-investimenti. Insomma, non solo bilancio, ma bilancia. Non solo stabilità fiscale, ma crescita sana e robusta basata sui settori produttivi. Secondo il modello Giavazzi-Spaventa, l'Italia ha seguito un sentiero più virtuoso rispetto a Spagna, Portogallo e Grecia. Tuttavia, sconta una bassa produttività e un decennio di semi stagnazione compensato da un aumento della spesa pubblica (lo dimostra l'erosione continua del surplus al netto degli interessi prima che scoppiasse la crisi finanziaria). Ciò ha indebolito l'intera economia e l'ha resa vulnerabile. Il punto d'attacco, dunque, è doppio: fermare il debito riportando in pareggio il bilancio pubblico e aumentare la competitività dei prodotti, così da rimettere in equilibrio anche la bilancia con l'estero. Insomma, una politica economica con due gambe: rigore e sviluppo, potremmo dire passando dalla teoria allo slogan.
Il rilancio della crescita non può avvenire dilatando la spesa sociale e assistenziale, è un corollario inevitabile dello stesso schema di Giavazzi, Spaventa, Blanchard. Quindi, ha a che fare con la rimessa in moto dell'intero meccanismo economico. Coinvolge gli imprenditori che hanno chiesto e ottenuto tanti incentivi statali, ma non hanno investito a sufficienza. Riguarda i sindacati con le loro arcaiche rigidità. Se entro la settimana verrà approvata la manovra triennale con un atteggiamento “responsabile” dell'opposizione, la febbre sui mercati calerà. Ma per la cura ci vuole tempo, pazienza e tenuta.
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