Occhio, ritorna Romano Prodi
Ogni pezzo che si rispetti che abbia come oggetto il futuro politico di Romano Prodi inizia sempre con una bella, profonda e intensissima metafora ispirata alle imprese sportive dei più grandi maratoneti o, a seconda dei casi, dei più grandi ciclisti della storia d'Italia. E così, di volta in volta, c'è un gagliardissimo “Romano” ora in sella a una bici pronto a preparare la sua ultima fantastica volata, ora ai nastri di partenza della sua ultima decisiva e impossibile maratona.
Ogni pezzo che si rispetti che abbia come oggetto il futuro politico di Romano Prodi inizia sempre con una bella, profonda e intensissima metafora ispirata alle imprese sportive dei più grandi maratoneti o, a seconda dei casi, dei più grandi ciclisti della storia d'Italia. E così, di volta in volta, c'è un gagliardissimo “Romano” ora in sella a una bici pronto a preparare la sua ultima fantastica volata, ora ai nastri di partenza della sua ultima decisiva e impossibile maratona, ora alla fine di una soffertissima gara al termine della quale il professore, dopo aver sfilato le scarpette dai pedali e aver fissato per un attimo il cronista negli occhi, fa sempre la stessa solenne promessa: “Ok, ora basta, ho fatto il mio dovere, ho fatto il mio tempo, ora stop: stavolta mi ritiro”. Ecco, sì, lo ricorderete: era andata così anche tre anni fa, quando al termine della sua ultima maratona politica Romano Prodi concluse la sua non fortunatissima esperienza al governo con quella frase ormai famosa: “Io ho chiuso con la politica e forse con la politica in generale”.
Tre anni dopo quel celebre annuncio, però, capita che nel mondo del Professore, per mille ragioni che andremo a vedere, qualcosa forse è cambiato davvero, e che quello che sembrava un deciso, sincero e meditato addio alla politica si sta trasformando sempre più velocemente in un qualcosa di più simile a un “per ora me ne sto un po' in disparte ma tranquilli, oh, ci rivediamo tra qualche anno”. Bene: il caso vuole che quell'anno ora sia sempre più vicino e che giusto in vista di quella data (2013) in cui si deciderà chi sarà l'inquilino del Colle più famoso d'Italia – avete capito quale – Prodi sembra avere una voglia matta di arrivare a quell'appuntamento con lo spirito non più del ciclista o del maratoneta ma con quello del nuotatore che in pochi secondi si gioca la gara della vita. E in vista di quell'impegnativa nuotata, che si disputerà tra diciannove mesi, da qualche settimana Prodi ha accelerato i suoi durissimi allenamenti. Perché qualcuno ci gira ancora un po' attorno e qualcuno di fronte a quelle lunghe interviste, a quegli improvvisi interventi, a quegli inaspettati comizi si limita semplicemente a scrollare le spalle, a scuotere la testa e a fare più o meno finta di niente. Ma qualcun altro invece, qualcun'altro che per esempio Prodi lo conosce molto bene, di girarci attorno a questa storia tanta voglia non ha: e per questo le cose le dice chiaramente.
“Guardate – dice al Foglio Angelo Rovati, storico braccio destro di Romano Prodi – io credo che in questa fase Romano sia tornato sulla scena per puro senso di responsabilità, visti anche i pasticci che sta attraversando il nostro paese, ma in linea di massima mi chiedo che cosa ci sia di strano ad ammettere che un uomo con un curriculum come il suo possa ambire ad avere un posto importante nel futuro prossimo della Repubblica italiana. Romano è qualcosa in più di una semplice ‘riserva' e non ricordarlo oggi sarebbe un atto di ipocrisia”. Il Colle di cui stiamo parlando – che naturalmente si chiama Quirinale – al momento è occupato da quello che ogni rivelazione demoscopica indica come il politico con il più alto gradimento d'Italia (Giorgio Napolitano). Ma tra due anni, si sa, tutto cambierà: e considerando che nessun presidente della Repubblica è mai stato eletto per due volte consecutive e che, al momento, sembra essere il centrosinistra più che il centrodestra la parte politica che pare avere maggiori chance di esprimere tra due anni la maggioranza che andrà ad eleggere in Parlamento il successore di Napolitano si può dire che il candidato più forte per il Quirinale (non l'unico: c'è anche Giuliano Amato) si chiama Romano Prodi.
Certo: già in questi ultimi mesi sono stati molti gli osservatori che hanno notato l'improvviso attivismo del Professore attorno a un gran numero di temi legati non solo alla strettissima politica italiana (la crisi in Egitto, l'emergenza tunisina, l'esplosione dei Brics, la rivoluzione araba, il destino dell'Africa, insomma, il futuro del mondo…). Ma oltre agli interventi pubblicati ogni domenica sul Messaggero edito da Francesco Gaetano Caltagirone (con il quale il Professore ha stretto un rapporto di grandissima cordialità) Prodi ha intensificato la sua presenza nel dibattito quotidiano non solo sul fronte della carta stampata – sedici interviste negli ultimi sette mesi non sono mica poche – ma anche sul fronte del Partito democratico. “Romano – racconta un parlamentare che conosce il Professore da tempo – è uno che fa così: prima scompare, si eclissa, si occupa di altro, poi torna, inizia con le interviste e chissà poi dove si va a finire”.
Della recente candidatura di Prodi al Quirinale, però, nel Partito democratico si è tornato a discutere in modo tanto vivace quanto sospetto in un momento particolare dell'ultima campagna per il voto delle amministrative: da quel famoso pomeriggio di metà maggio quando a poche ore dall'esito dell'ultima – e fortunata per il centrosinistra – tornata elettorale a un certo punto “Romano” fece un bel balzo sul palco allestito a Roma dal Pd a piazza del Pantheon per raccogliere con Pier Luigi Bersani l'entusiasmo degli elettori democratici euforici per il cappotto rifilato al centrodestra durante le ultime comunali. Ma chiunque conosca un minimo il mondo del Pd sa che in quelle ore ci furono molti democratici che non valutarono positivamente la scelta fatta dal Professore di andare “a rubare la scena” al segretario proprio nel giorno del grande orgoglio democratico. E in quelle ore, si sa, diversi dirigenti bersaniani condannarono sotto voce l'inaspettata e improvvisa e non del tutto gradita “infiltrazione” prodiana sul palco del Pd. “Vedete – dice Rovati – a parole, in questi anni, tutti nel centrosinistra hanno affermato di essere orgogliosamente prodiani. Ma la verità la conosciamo tutti qual è: da quando Prodi ha lasciato Palazzo Chigi nel Pd vi è stato un sottile, lento e progressivo tentativo di fare i prodiani a parole e di affrancarsi però, nei fatti, da tutto ciò che è stato il prodismo. E oggi che Romano è di nuovo lì ovviamente la questione torna a essere di grande attualità: perché bisognerà pure dirlo una volta per tutte che cosa significa per il Pd questo benedetto prodismo!”.
Eh già, il prodismo. Perché, politicamente, il punto anche questo è: che cosa resta nel Partito democratico dell'eredità di quello che viene considerato, “almeno a parole”, il padre nobile del centrosinistra? Qui gli spunti di riflessione attorno ai quali si discute da tempo nel maggior partito d'opposizione – e attorno ai quali si è tornati a discutere in queste settimane proprio in seguito alla nuova discesa in campo del prof. – sono due: il primo è relativo al prodismo inteso come soggetto politico, il secondo è relativo al prodismo inteso come soggetto economico.
Dal punto di vista politico, l'eredità del prodismo è una materia che divide da tempo – e in modo profondo – le principali anime del Partito democratico. E attorno alla valutazione complessiva che viene fatta dell'ultima esperienza governativa del prof. emiliano esistono da anni due fronti che non perdono occasione per dialogare tra loro anche con una certa conflittualità. Il primo fronte (fronte a cui, per capirci, potremmo iscrivere sia Bersani sia D'Alema) tende a utilizzare il nome di Prodi, e ad evocare le miracolosissime qualità taumaturgiche tanto dell'Unione quanto dell'Ulivo, ogni qual volta il dibattito politico ripropone il tema del dover lavorare a una grande, grandissima e gigantesca alleanza per liberarsi una volta per tutte del malefico Caimano. E dunque, sì, il prodismo avrà pure avuto grandi difficoltà di gestione e grandi problemi di coesione ma quel vecchio e compianto spirito unitario resta ancora oggi l'unico vero esempio a cui dobbiamo ispirarci se vogliamo davvero provare a ritrovare l'Unità del centrosinistra: e dunque viva il prodismo e viva l'Ulivo!
Dall'altra parte, invece, il secondo fronte (a cui non è un errore iscrivere anche la componente di minoranza del Pd di rito veltroniano) tende a vedere nel Professore una figura simbolo non tanto di uno strepitoso e forse irripetibile successo – l'aver battuto per ben due volte Berlusconi – ma, piuttosto, di un clamoroso fallimento dal quale il centrosinistra prima dimostrerà di aver imparato a tenersi lontano e prima riuscirà a presentarsi con un profilo vincente di fronte ai propri elettori. La sintesi del ragionamento ce la offre un deputato veltroniano: “Sarebbe bene per noi tutti metterci in testa che se oggi il centrosinistra si ritrova nella condizione di essere nuovamente una formazione competitiva il merito è quello di aver rotto ogni vincolo con l'esperienza prodiana: ed è per questo che quando qualche autorevole leader perde tempo a dire che Prodi è ancora oggi il faro del progetto del Pd noi tutti ci mettiamo le mani nei capelli perché ci piacerebbe che fosse chiaro che se oggi il centrosinistra è tornato a galoppare è soltanto perché è riuscito a far dimenticare ai suoi elettori l'esperienza prodiana. E per questo anche solo pensare di rievocare oggi quegli anni poco gloriosi dell'ultimo Ulivo rischia di essere per noi un errore devastante”. Ecco: si capisce dunque perché ogni volta che nel Pd spunta fuori qualcuno che si dice convinto che per battere Berlusconi sia necessario ritrovare “lo spirito del governo Prodi” (e che si dice sicuro che sia necessario riproporre al più presto lo schema di un nuovo Ulivo) capita che il centrosinistra si ritrovi a doversi districare con una delle questioni irrisolte più significative della sua breve storia politica. “Lo sappiamo: la maschera di Romano – ha scritto Edmondo Berselli in uno dei suoi libri più belli: “Postitaliani” – garantiva a prima vista il buon senso del governo e copriva le insensatezze della memoria e delle emozioni, cioè i peccati originali… Ma finché c'è stato Prodi la sinistra ha rimandato la risoluzione delle contraddizioni insite nella definizione di sinistra e si è affidata a una formula magica per risolvere con un tocco di bacchetta e di polvere di stelle tutti i problemi di identità”.
E poi però, oltre al Prodi politico, c'è anche un altro Prodi di cui oggi bisogna parlare. O meglio: un altro prodismo. Un prodismo, meno legato agli schemi della politica e più legato alle dottrine economiche, che in questi ultimi anni è riuscito a esercitare una forte carica di seduzione anche tra alcuni politici del centrodestra. Uno in particolare: Giulio Tremonti. “Che dire? – ci dice ancora Angelo Rovati – Io credo sia un dato di fatto: Giulio Tremonti parla la stessa lingua di Romano, e il fatto che vi sia un forte feeling intellettuale tra di loro è dimostrato, in modo innegabile, anche da quanto è successo in questi ultimi mesi. Prima con la pubblicazione della ‘Paura e la speranza', libro scritto da Tremonti ma che sinceramente poteva essere stato scritto da Romano, e poi con la trasformazione di Tremonti in una specie di ministro ulivista. Sì, proprio così: ulivista. Conosco bene quello che pensa Romano in ambito di politiche economiche, e posso dire, senza problemi, che il Tremonti più recente – quello della barra ferma e del rigore – non avrebbe sfigurato in un governo prodiano. E in questo senso bene ha fatto Romano a lanciare qua e là segnali utili a mostrare la sua affinità con l'unico ministro forse da salvare di questo governo”.
I segnali, sì. Perché è ormai da quasi due anni che Prodi e Tremonti si cercano, si inseguono, si scrivono e si osservano a volte da lontano e spesso anche molto da vicino. E quando s'incontrano ai convegni (l'ultima volta è capitato lo scorso 5 luglio durante la presentazione del libro “Le fondazioni bancarie fra passato e futuro” scritto da Paolo Messa e da Fabio Corsico) se ne accorgono praticamente tutti, ma quando invece i due si scambiano segnali sui giornali la circostanza è un po' più difficile da notare. Ma se si presta un minimo di attenzione si scoprirà che, proprio sui giornali, la sintonia tremontian-prodiana è diventata quasi un genere letterario a sé. Prendete il 23 maggio di un anno fa, quando l'ex presidente del Consiglio elogiò pubblicamente la manovra di Tremonti sottolineando che il ministro dell'Economia non è “uno di quei politici che cercano a tutti i costi la popolarità”.
Prendete lo scambio avvenuto appena un anno prima sul Messaggero, quando, dopo un articolo del Professore, Tremonti flirtò amichevolmente con Prodi sulla comune visione in ambito di politica economica (“Caro direttore, Romano Prodi pubblica sul suo giornale articoli sempre di grande interesse… e questo è di grandissimo interesse e, se posso aggiungere, è anche un articolo che esprime la cifra della grande politica”). E prendete poi quello che è successo nei mesi successivi tra tremontiani e prodiani dopo la caduta del governo Prodi. Prima con la dichiarazione d'amore del compianto Tommaso Padoa-Schioppa al Sole 24 Ore di un anno e mezzo fa (“Nell'agire di Tremonti vedo una continuità con la politica del governo Prodi. La vedo e la condivido”). Poi con le nuove parole di affetto di Prodi rivolte alla Finanziaria tremontiana del 2010 (“Nella manovra di Tremonti c'è un'idea di continuità con quello che ha fatto il nostro governo. E quindi io la chiamo Visconti”). E infine, appena quattro settimane fa, con le frasi di incoraggiamento offerte dal Professore a Tremonti: quando mezzo Parlamento chiedeva al ministro di fare uno sforzo per offrire al paese una degna riforma fiscale e quando l'unico politico pronto ad alzare il dito in difesa del rigore del ministro fu, udite udite, proprio Romano Prodi. Con queste semplici parole offerte al Mattino nemmeno un mese fa: “Chi propone oggi la riforma fiscale viene dalla luna”. Punto.
Ci dice ancora Angelo Rovati, nostra cortese guida nel mondo del prodismo. “A mio avviso la sintonia tra Tremonti e Prodi è indicativa anche di un certa precisa cultura italiana che sarebbe da pazzi non continuare a valorizzare nel nostro paese. Prodi, così come Tremonti, ha offerto da sempre un buon appoggio ad alcuni ambienti specifici della così detta finanza bianca che, lo sappiamo, hanno un peso non indifferente nella nostra particolarissima società. Penso a persone di spessore come Giuseppe Guzzetti, presidente della Cariplo, o Giovanni Bazoli, numero uno di Intesa Sanpaolo. E penso anche a tutta quella significativa porzione della società ambrosiana che costituisce oggi una delle ultime frontiere del vecchio cristianesimo sociale. Certo, è un paradosso che questo asse sia costruito con un ministro che fa parte di un governo guidato da quello che per anni è stato il grande rivale di Romano. Ma se vogliamo essere sinceri i paradossi qui sono anche altri”. Rovati ne individua uno in particolare: il rapporto del centrosinistra con l'Europa. “Suvvia: è davvero incredibile che nei giorni in cui Prodi ha ritrovato la voglia di rifarsi vivo nel dibattito politico capiti che ad aver indossato i panni dei fedeli sostenitori delle dottrine europee siano più gli esponenti del centrodestra che quelli del centrosinistra. Un po' strano, no?”.
In effetti, se ci si riflette per un attimo, la nuova discesa in campo di Prodi coincide con una situazione che sarebbe stata difficile da immaginare qualche anno fa. Perché in questo strano clima da anni Novanta che si respira in questi giorni – tra rischi di svalutazioni monetarie, tentazioni di governi tecnici, rievocazioni manipulitesche e riapparizioni del Mattarellum (per non parlare del ritorno persino dei “Take That”) – c'è solo un elemento che rispetto alle “notti magiche” di quegli anni sembra non essere più al suo posto. E quell'elemento si chiama senz'altro Europa. Lo nota anche Giorgio Tonini, senatore del Pd, che sul tema del rapporto del centrosinistra con la tecnocrazia europea sta scrivendo un saggio di prossima pubblicazione. “Dagli anni Novanta a oggi, si sa, il centrosinistra ha avuto sempre alcune stelle fisse nella sua galassia politica: la presidenza della Repubblica, come alta autorità morale, e anche luogo di grande regia politica; la tecnocrazia delle grandi istituzioni bancarie, finanziarie e industriali, pubbliche e private; il movimento, intellettuale e civile, prima ancora che politico, per le riforme costituzionali, istituzionali ed elettorali; la magistratura militante, impegnata in prima linea contro la corruzione e l'intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata, e sostenuta da un vasto movimento di opinione pubblica; il mondo della cultura e dei massmedia, a cominciare dalla carta stampata; e infine c'era il faro dell'Europa. Oggi, invece, succede che alcuni autorevoli esponenti del nostro partito si sono fatti portavoce di una feroce critica nei confronti dell'Europa. E' successo poche settimane fa, quando Tremonti ha portato la manovra a Bruxelles e quando i responsabili economici del nostro partito hanno criticato le indicazioni arrivate dall'Europa in materia di rigore dei conti pubblici. In altri tempi criticare le richieste dell'Europa sarebbe stato considerato, tu guarda, ‘un atteggiamento di destra'. Oggi invece sembra essere diventato di destra difendere l'Europa. Sono i tempi che cambiano, certo. Ma in questi tempi che cambiano se c'è qualcuno che ci perde quel qualcuno certamente siamo noi di centrosinistra. Perché regalare l'Europa ai Tremonti, scusate, ma secondo me è un errore politico pazzesco”.
Economia a parte, l'ultimo tema di dibattito all'interno del centrosinistra che ha offerto agli osservatori la possibilità di notare un certo attivismo prodiano riguarda la battaglia apertasi nel Partito democratico sul referendum elettorale. Nel Pd, in queste settimane, si è discusso molto su quale sia il modello giusto su cui puntare per offrire al paese un sistema elettorale capace di valorizzare al massimo le potenzialità del centrosinistra. Si sa le cose come sono andate: si sono creati due gruppi contrapposti che da qualche mese lottano un po' in difesa del sistema proporzionale e un po' in difesa del sistema maggioritario. Romano Prodi, e insieme con lui anche i prodiani rimasti nel Partito democratico (Rosy Bindi e Arturo Parisi in particolare), si è schierato con il gruppo dei maggioritari, e con tutti coloro che considerano vitale per il futuro del Pd la presenza di un chiaro bipolarismo che possa mettere il Partito democratico nella condizione di esprimere al meglio il suo, appunto, spirito maggioritario. Prodi, con i prodiani, lo ha fatto sicuramente per ragioni ideologiche – perché se c'è qualcuno che ha sempre difeso il bipolarismo nel centrosinistra quel qualcuno è certamente Prodi – ma nel Pd gira anche un'altra versione che con un briciolo di malizia ci racconta un dirigente democratico. “Io credo che Prodi si sia detto contrario all'introduzione di un sistema proporzionale, capace di mettere i partiti nella condizione di stringere accordi tra di loro dopo le elezioni, perché sa che con un sistema del genere nulla sarebbe dato per scontato. Con una legge maggioritaria, il Pd che vince le elezioni avrebbe i numeri in Parlamento sia per esprimere il capo del governo sia per esprimere il suo presidente della Repubblica. Con una legge proporzionale, invece, il centrosinistra non avrebbe quella maggioranza necessaria per eleggere il nuovo presidente. E senza maggioranza assoluta parlamentare, ovviamente, il Quirinale potrebbe diventare materia di scambio tra i leader dei partiti che si alleeranno dopo le elezioni, e a quel punto la candidatura di Prodi è probabile che salterebbe. Naturalmente questo Prodi lo sa benissimo ed è facile dunque capire perché Romano quella legge proporzionale – legge che era stata promossa in questi giorni da Stefano Passigli – sia stato tra i primi a volerla boicottare, praticamente a tutti i costi”.
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