Se ci crolla l'America
Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, il banchiere centrale americano, lancia l'allarme: “Si va incontro a una colossale calamità finanziaria” se non verrà raggiunto un accordo sul bilancio pubblico. Helicopter Ben ha gettato dal cielo una valanga di denaro liquido per spegnere l'incendio della crisi bancaria; quando parla lui, dunque, c'è da preoccuparsi sul serio. Moody's, una delle parche che tengono in mano i destini finanziari di governi, banche, imprese, insomma del capitalismo mondiale, è pessimista sui titoli americani.
Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, il banchiere centrale americano, lancia l'allarme: “Si va incontro a una colossale calamità finanziaria” se non verrà raggiunto un accordo sul bilancio pubblico. Helicopter Ben ha gettato dal cielo una valanga di denaro liquido per spegnere l'incendio della crisi bancaria; quando parla lui, dunque, c'è da preoccuparsi sul serio. Moody's, una delle parche che tengono in mano i destini finanziari di governi, banche, imprese, insomma del capitalismo mondiale, è pessimista sui titoli americani; l'altra agenzia, Standard & Poor's minaccia fra tre mesi di abbassare il rating, rimasto stabile dal 1989 sui livelli più elevati; Fitch, la più piccola delle tre streghe, seguirà. Intanto, il dollaro scende e i titoli del Tesoro si indeboliscono.
Barack Obama ha interrotto i colloqui con il repubblicano Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, per non dar l'impressione di essere intrappolato in un estenuante braccio di ferro. “Quando è troppo, è troppo”, è sbottato giovedì. Non più tardi di tre giorni prima aveva dichiarato che c'è il rischio di non pagare le pensioni, facendo cadere l'ultimo tabù: il fallimento del governo degli Stati Uniti. Che, nel caso americano, significa non solo sborsare di più per gli interessi sui titoli di stato, ma chiudere i rubinetti. Il 60 per cento delle spese è coperto dalle entrate; il resto è a debito, dalla sicurezza sociale alla paga dei soldati. Allora, niente assegni ai disoccupati, ma anche niente missioni all'estero: la democrazia non si esporta non per ragioni politiche o ideologiche, ma perché gli esportatori non hanno più dollari, quei biglietti verdi che almeno dal 1945 in poi, nell'intero mondo occidentale hanno comprato libertà e benessere. Il tempo stringe, l'appuntamento è fissato per il 2 agosto prossimo. Dunque, siamo a 17 giorni dall'apocalisse. Hollywood ha già pronto il prossimo thriller catastrofico. Se avrà i soldi per produrlo.
Quel che sta accadendo in questi giorni in Minnesota, lo stato degli immigrati svedesi, sembra la prova generale del nuovo kolossal: uffici pubblici chiusi, biblioteche, parchi, infrastrutture, 24 mila statali a casa. A St. Paul, la città natale di Francis Scott Fitzgerald, il governo non ha un centesimo e sono fallite le trattative tra il governatore democratico e i repubblicani che hanno amministrato per quarant'anni. La loro ricetta non ha funzionato, hanno perso le elezioni, e adesso boicottano i democratici facendo cadere su di loro tutta la colpa. Illinois e California sono ormai sulla stessa strada anche se il Golden State, la mecca dei cercatori d'oro e delle star hollywoodiane, ogni anno viene dato sull'orlo del tracollo e poi riesce a tirarsi fuori dal baratro grazie alle sue grandi risorse.
Davvero dobbiamo titolare sulla bancarotta dell'America, e poi a seguire scrivere sulla fine dell'egemonia, un mondo a testa in giù, l'oriente che fagocita l'occidente? Il fallimento delle città è abbastanza frequente; più raro, ma non nuovo, quello degli stati. Tra il 1841 e 1842, quando il debito venne portato dal 40 per cento del pil nel 1790 a zero, nove su ventisei andarono in default. Altri dieci tra il 1873 e il 1884 quando le finanze pubbliche cominciarono il risanamento dopo la guerra civile (o di secessione). Oggi come oggi le cose sono molto più complicate. Il debito pubblico, salito al 120 per cento del prodotto lordo nel 1950 come conseguenza del conflitto mondiale e del Piano Marshall per ricostruire l'Europa, era sceso sotto quota 40 nel 1975. Poi la crisi petrolifera e gli effetti della Great Society che estese il welfare state anche alla classe media, hanno dato una spinta all'insù pressoché continua, salvo una breve pausa nella seconda amministrazione Clinton, in sostanza fino al 2000.
Ciò rimanda alla questione di fondo: si arriva alla bancarotta perché il governo ha esteso a tal punto le sue funzioni, il Leviatano ha allungato talmente i propri tentacoli, che non riesce più a districarsi. Tornare indietro, sarebbe indispensabile, ma diventa ogni giorno che passa più costoso economicamente, pericoloso sul piano del consenso elettorale (perché tutti chiedono che a pagare sia il proprio vicino), quindi difficile, al limite delle possibilità di un sistema liberal-democratico.
Ma stiamo ai fatti. Prima di tutto, cerchiamo di capire cosa succederà il due agosto. Quel giorno, scade il termine per aumentare il tetto imposto al debito che il governo può accendere sul mercato per far fronte alle spese che non hanno copertura. Oggi il limite è fissato a 14,3 triliardi di dollari (20.730 miliardi di euro, dieci volte più del debito italiano), un livello del tutto convenzionale che dà pochi margini di manovra di qui al prossimo anno. Il 3 agosto il governo deve pagare 23 miliardi di dollari a 29 milioni di americani per il Social Security, il giorno successivo occorre rimborsare titoli per 90 miliardi e a Ferragosto scadono 30 miliardi per gli interessi. Il debito odierno è stimato a 10,15 triliardi, il prodotto nazionale lordo supera di poco i 15. Se inforchiamo occhiali europei, vediamo che rappresenta il 66 per cento del pil (con tendenza a crescere verso quota 70 secondo il Fondo monetario internazionale). Insomma, poco sopra i limiti del trattato di Maastricht. Certo, c'è stata un'impennata impressionante dall'inizio della crisi bancaria, grazie al costo dei salvataggi, mentre la successiva recessione ha ridotto le entrate aumentando le spese sociali e assistenziali. Ed è vero che bisogna poi aggiungere il debito locale non consolidato con quello federale. Fuori bilancio vengono messe anche le risorse per Fannie Mae e Freddie Mac, le due agenzie che finanziano i mutui immobiliari salvate con i denari dei contribuenti nel 2008. Inoltre, sono escluse le obbligazioni non garantite dal governo, quelle emesse per coprire la spesa sociale e le cure mediche per i poveri.
Tutto ciò porta l'indebitamento complessivo oltre quota 80 per cento del pil. Insomma, come la Germania che i mercati considerano al di sopra di ogni sospetto (almeno per il momento).
D'altra parte, nonostante le rampogne, le tre parche assegnano ai Treasury bonds americani un punteggio ancora vicino al massimo: AAA per i titoli a lungo termine e A-1+ per quelli a breve, secondo S&P's la cui minaccia di downgrading, in realtà, è solo “una probabilità al 50 per cento”. Dunque, perché preoccuparsi? Forse il dollaro non è ancora la moneta mondiale? E gli States non mantengono quel “diritto di signoraggio” esercitato per 66 anni?
Esiste un problema in più: il debito privato che fa salire il totale, tra governo, imprese e famiglie americane, all'impressionante quota di 3,60 volte il prodotto lordo. Non è conseguenza della crisi, semmai – secondo alcune teorie – ne è la causa: è raddoppiato, infatti, dalla metà degli anni 80 in poi, foraggiando un paese che vive al di sopra dei propri mezzi. La recessione del 2008-2009 ha invertito leggermente la curva, ma non basta. “L'America non ha scelta, se non entrare nell'era dell'austerità”, sostiene Mort Zuckerman, il tycoon della stampa proprietario di U.S. News & World Report. La capacità di servire il debito pubblico e di quello privato dipende dal tasso di crescita. E fino al 2007 gli Stati Uniti correvano a più non posso. Adesso, invece, il Fmi calcola che lo sviluppo rimarrà ancora molto modesto, perché la domanda privata si muove molto lentamente e la politica fiscale non può più dare nessun aiuto. Il sostegno alla congiuntura viene ancora dalla Banca centrale, Bernanke promette che non lo farà mancare, tuttavia anch'esso ha un limite. Detto questo, gli Stati Uniti non sono in recessione (come invece la Grecia) e hanno un tasso di sviluppo reale del 2,5 per cento quest'anno che resterà più che doppio rispetto a quello italiano fino al 2014. Non solo, con un incremento del pil monetario tra quattro e cinque punti l'anno, il governo di Washington è perfettamente in grado di onorare gli interessi sui titoli di stato detenuti da banche e risparmiatori, in America come in Cina. E allora?
Secondo una tesi, per la verità un po' consolatoria, è tutta colpa di quel dannato tetto. Che sarebbe addirittura incostituzionale. Garrett Epps e Bruce Bartlett, legulei e fiscalisti di fama, con un articolo su Atlantic Magazine, hanno suggerito all'Amministrazione di ricorrere se necessario alla Corte suprema contro il Congresso, brandendo il 14esimo emendamento alla Costituzione il quale recita: “La validità del debito pubblico americano, autorizzato per legge, inclusi i debiti per pagamenti di pensioni e servizi pubblici, compresi la soppressione di insurrezione e ribellione, non deve essere messo in discussione”. Bella trovata che ha acceso una luce nella testa brillante di Tim Geithner: il segretario al Tesoro (pro tempore perché ha annunciato la sua volontà di mollare una volta chiuso il sipario sul dramma debitorio), s'è presentato a una colazione organizzata dal giornale on line Politico, con in mano la Carta costituzionale e ha letto con insistenza la frase: “Non deve essere messo in questione”. Solo che l'inganno si nasconde in un piccolo inciso: “Autorizzato dalla legge”. La legge la fa il Parlamento ed è il Congresso degli Stati Uniti ad aver imposto un tetto (mobile ed emendabile attraverso un voto congressuale) alla possibilità del governo di indebitarsi sul mercato. Accadde per la prima volta nel 1917 e venne fissato a 11,5 miliardi di dollari. L'idea di limitare il potere del governo di spendere e tassare, non solo fa parte del paradigma politico liberale, ma è un principio di sana finanza. E tuttavia, la realtà è ben diversa: dal 1962, quando gli Stati Uniti hanno cominciato ad avere un indebitamento consistente nel secondo Dopoguerra, il Congresso ha aumentato il limite 74 volte, ben dieci dal 2001, con una accelerazione negli ultimi tre anni.
Allora, la tragedia americana che si consuma in questi giorni, è soprattutto un conflitto politico. “Dietro la battaglia su debito, c'è lo scontro sul governo”, titola il New York Times. Secondo il Financial Times, “l'America sta flirtando con il suicidio finanziario”. Barack Obama esagera per mettere con le spalle al muro i repubblicani che controllano il Congresso. E il Gop, il Grand Old Party, tira la corda per rosolare sulla griglia un presidente che ha mostrato tutte le sue debolezze all'estero e in patria. Ne è convinto l'Economist il quale se la prende con il gioco troppo rischioso della destra. In realtà, informa il Wall Street Journal, si sta lavorando a un piano B in Senato che è in mano ai centristi: Obama rinuncia a ridurre molti benefici fiscali (ai petrolieri e ai jet aziendali, per esempio), in cambio i tagli risparmieranno i ceti più deboli e consentiranno di estendere gli assegni di disoccupazione. Ma non sarà facile farlo passare innanzitutto tra gli stessi repubblicani, poi tra i democratici e nell'Amministrazione stessa.
Anche i guru dell'economia se ne danno di santa ragione. Il Nobel Paul Krugman non si fascia la testa per il debito, ma per la scarsa capacità di produrre posti di lavoro (la disoccupazione è incollata al nove per cento). “No, we can't” scrive sul New York Times parafrasando lo slogan obamiano. “In realtà non vogliamo”, conclude criticando la fretta eccessiva di tagliare le spese e i sostegni all'economia. Quanto al debito, la sua ricetta, radical più che liberal, è netta: inflazione, una crescita lenta, ma sicura dei prezzi nei prossimi anni. Tesi respinta da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff i due economisti che hanno studiato le crisi finanziarie degli ultimi secoli: l'inflazione, una volta scatenata, non si tiene facilmente per le briglie; ha funzionato nei paesi in via di sviluppo, ma solo a costo di rovinare i risparmi; nei paesi avanzati è stato possibile controllarla solo attraverso misure protezionistiche oggi inapplicabili. Senza contare che un rialzo dei tassi di interesse è in grado di peggiorare il servizio del debito molto prima che questo venga eroso dall'inflazione. La Reinhart e Rogoff autori di un libro di successo (“This time is different”, è il titolo ironico della storia di “otto secoli di follie finanziarie”) sostengono, in base alle loro ricerche empiriche, che quando il debito pubblico supera il 90 per cento del pil, comincia ad avere un effetto negativo sulla crescita pari ad un punto percentuale l'anno. Dunque, s'avvia un circolo vizioso e viene a cadere anche l'altro presupposto della teoria keynesiana secondo la quale il deficit spending è in grado di risollevare lo sviluppo, non solo nel breve periodo.
Alberto Alesina, liberista di sinistra, dà ragione ai repubblicani: “Agire sulla spesa è meno costoso in termini di recessione, piuttosto che operare con aggiustamenti basati su incrementi fiscali. Il costo è sopravvalutato sia sul piano sociale, perché è possibile fare operazioni eque che non colpiscano il welfare dei più deboli, sia sul piano politico, perché i governi che hanno approvato stangate anche pesanti sono stati poi rieletti se la manovra ha avuto successo. Insomma, non c'è nessuna relazione tra politiche di riduzione del deficit e risultati elettorali”. Ciò è vero su entrambe le sponde dell'Atlantico?
Una differenza di fondo tra Stati Uniti ed Europa è che la bancarotta (quella non fraudolenta), anche se appare un condensato di fosche previsioni, non è un tabù per la cultura americana. Ciò ci riporta ai Padri fondatori e alla loro volontà di fondare il Nuovo mondo facendo tesoro degli errori del Vecchio. Tra i quali la prigione del debito. E non in senso figurato. Molti dei coloni che veleggiavano attraverso l'Atlantico sfuggivano (o fuggivano) dalle patrie galere, dove oligarchie aristocratiche o nuove plutocrazie finanziarie li gettavano se non pagavano gli interessi agli usurai e le tasse a esattori con i loro bravacci armati di schioppo, o non restituivano i prestiti nel tempo dovuto, anche a fronte di catastrofi inattese o cattivi scherzi del destino. Insomma, proprio come Shylock e la carne di Antonio in garanzia. I padri nobili a Filadelfia respinsero non solo il sistema monarchico inglese, ma con esso l'intera legislazione che dava allo stato il potere assoluto sul suddito. Nella Costituzione, fallire non è morire, al contrario diventa una via d'uscita, un rimedio legale e previsto nei suoi minimi particolari, per rimediare e ricominciare. Ciò vale per gli individui, ma per gli stati? Il default di un paese come gli Stati Uniti non si è mai verificato e nessuno sa quali effetti avrà. Alan Blinder, ex vicepresidente della Fed, la pensa come Bernanke: sarebbe una nuova catastrofe finanziaria. Ma una politica fiscale coraggiosa si può fare. “Yes, we can” dovrebbe dire di nuovo Obama. Certo, non è un pranzo di gala. I pasti gratis sono finiti. E la questione non è se oggi economie che da sole producono metà della ricchezza mondiale siano in grado di risanare i loro bilanci, bensì chi paga.
Sarebbe un solenne luogo comune finire con liriche citazioni di Oswald Spengler sul declino dell'occidente travolto dai propri debiti. Meglio restare al primo ministro del Tesoro degli Stati Uniti, il newyorchese Alexander Hamilton, il federalista Publius la cui immagine campeggia sulla banconota da dieci dollari. Contro tutti gli estremismi ideologici, lui che aveva rimesso in sesto i conti disastrati dalla guerra d'indipendenza, costringendo il governo di Washington ad assumersi le finanze in rosso dei singoli stati, avvertiva che “un debito nazionale, se non eccessivo, sarebbe per noi una benedizione”. A un patto: che “le necessità di una nazione siano almeno uguali alle sue risorse”. L'America non è mai fallita, raccontano nella loro storia la Reinhart e Rogoff, perché nei momenti peggiori ha saputo mettere nel giusto rapporto risorse e necessità, come volevano i Padri fondatori. La storia, una volta tanto, saprà essere maestra?
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