Mal di privacy

Marina Valensise

Ora che persino in Russia si comincia a studiare la morsa in cui la vita privata venne tenuta all'epoca del totalitarismo sovietico, l'occidente liberale assiste alla perdita della privacy come orizzonte ineluttabile dei tempi. In Inghilterra, patria dell'habeas corpus e della libertà di stampa, si scopre che un quotidiano vecchio di quasi due secoli, News of the World, per alimentare le vendite e soddisfare nei lettori la voracità da gossip, ha per anni violato la privacy di ministri, membri della famiglia reale e tanti altri comuni cittadini.

    Ora che persino in Russia si comincia a studiare la morsa in cui la vita privata venne tenuta all'epoca del totalitarismo sovietico, l'occidente liberale assiste alla perdita della privacy come orizzonte ineluttabile dei tempi. In Inghilterra, patria dell'habeas corpus e della libertà di stampa, si scopre che un quotidiano vecchio di quasi due secoli, News of the World, per alimentare le vendite e soddisfare nei lettori la voracità da gossip, ha per anni violato la privacy di ministri, membri della famiglia reale e tanti altri comuni cittadini, acquistando materiali riservati dalla polizia, commissionando indagini a investigatori privati, intercettando telefonate e addirittura manipolando la memoria sul telefonino di una ragazzina scomparsa e poi ritrovata cadavere e persino, a quanto pare, dei familiari delle vittime del terrorismo.

    Da un giorno all'altro, il gruppo Murdoch ha deciso di chiudere il giornale, per salvarsi dal crollo economico e dall'infamia che d'ora in ora investe pure altre e più autorevoli testate. In Italia, stralci di privatissime conversazioni di cittadini, che ignari di essere intercettati emettono giudizi sulle vicende politiche, si diffondono in apprezzamenti non proprio lusinghieri su ministri in carica, rilasciano considerazioni non sempre esaltanti sul loro operato o su quello di alti funzionari, vengono propalati dai principali quotidiani che trascrivono come nulla fosse i verbali delle inchieste giudiziarie. Ormai è una prassi consolidata e si afferma incontrastata senza che nessuno insorga contro la violazione dell'articolo 15 della Costituzione, che tutela la segretezza delle conversazioni private. Senza che nessuno osi più avanzare distinguo tra la necessaria violazione della riservatezza, in vista del perseguimento di un reato e la palese illegittimità della stessa nel caso in cui il reato sia solo un'ipotesi giudiziaria. E anche in Francia, dove pure la vita privata è protetta dal codice civile e la stampa è sempre attentissima a non tradire l'obbligo di riservatezza quando si tratta di personaggi pubblici, sino a sfiorare l'omertà sulle abitudini di un notorio libertino come Dominique Strauss-Kahn, ex candidato in pectore socialista alle presidenziali, le conversazioni private della miliardaria Liliane Bettencourt, registrate da un maggiordomo infedele, sono materia di un processo penale – da quando Mediapart, l'intraprendente sito dell'ex trotzkista caporedattore del Monde Edwy Plenel, le ha messe in rete col pretesto che riguardavano temi di interesse pubblico.

    Si realizza così nelle democrazie occidentali il tragico allarme lanciato quarant'anni fa dal dissidente ceco Milan Kundera, lo scrittore che vedeva nell'indiscrezione un peccato mortale: “Viviamo in un'epoca in cui la vita privata sta per essere distrutta.

    Nei paesi comunisti la distrugge la polizia; nei paesi democratici la minacciano i giornalisti, e a poco a poco persino la gente perde il gusto per la vita privata sino a smarrirne il senso”. L'unica differenza è che stavolta il colpo di grazia non è legato all'apparato repressivo di uno stato totalitario, ma viene dal sottobosco di un editore spregiudicato paladino della libertà di stampa, ma a quanto pare pronto a calpestare i diritti dei cittadini, a corrompere poliziotti, a intimidire potenti pur di corroborare il suo impero multimediale internazionale, di cui fanno parte autorevoli testate che hanno sempre detto di voler proteggere la privacy. Niente di strano in tutto questo. In fatto di violazione della vita privata, esiste infatti un comune denominatore tra il totalitarismo d'un tempo e la morsa tentacolare dei media contemporanei: e questo principio è la paura, come ha spiegato anche Timothy Garton Ash. Cambiano i metodi, dunque, ma il principio è lo stesso: il vecchio totalitarismo spiava “la vita degli altri” per tenere sotto controllo i cittadini. I giornali di gossip del tycoon australiano intercettavano i cittadini per fomentare il mostro del sensazionalismo, e tenere avvinti i lettori. Nell'un caso e nell'altro però agiva la paura, la molla del dispotismo come insegnava Montesquieu, paura di essere denunciati, di essere sputtanati, di essere perseguitati, di essere ricattati. E la paura è l'esatto opposto della virtù che è il principio ispiratore di un regime libero, visto che la libertà come ha spiegato Montesquieu, non è altro che il sentimento che uno ha della propria sicurezza. Ma quanto siamo consapevoli di questi subdoli meccanismi senza tempo?

    In America il cambiamento è velocissimo. La privacy non costituisce più una norma sociale, avverte il ventiseienne fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg: “I costumi evolvono. La gente ora è contenta non solo di condividere molte informazioni e di vario tipo, ma anche di farlo in modo più aperto e con un numero sempre maggiore di persone”, ha spiegato l'ex studente di Harvard, che con la sua diavoleria ha connesso on line 750 milioni di utenti. Per ora nessuno sa dire se questa spiegazione sia la conseguenza della novità prodotta da Facebook, o non piuttosto la sua premessa. Intanto, le autorità informatiche di quattro paesi nordici, Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, hanno spedito al sito californiano 45 domande chiedendo una risposta entro fine agosto. Vogliono sapere quali dati di un profilo vengono condivisi con altre imprese, quali funzioni permettono a un terzo di identificare l'utente di Facebook, quali possibilità ha di cambiare i criteri di confidenzialità. Del resto, l'esibizionismo dei teenager che vivono 24 ore al giorno su Facebook cresce in modo esponenziale. I ragazzini, e non solo, che si scambiano foto, poke, abbracci e informazioni, si mettono a nudo in modo compulsivo, non hanno alcun pudore. L'intimità per loro non esiste. Non parliamo dell'interiorità. Attenti alle novità, i francesi hanno coniato un neologismo, “extimité”, per dire il bisogno nell'uomo contemporaneo di esternare la propria intimità. “Perché rinunciare a mettere in rete le foto del pigiama party, documentando per filo e per segno l'ultima sbronza del sabato sera?”, si domanda la figlia adolescente di uno dei capi di Google. “Se non lo facessi, perderei la fiducia dei miei amici”. E pazienza se il confine tra amico virtuale e reale è ormai saltato; il fatto è che i giovani d'oggi hanno un'idea della vita privata molto diversa da quella che ha l'adulto.

    L'adulto, per esempio, pensa alla sua casa in termini di spazio privato. I ragazzi invece no, “perché non hanno alcun controllo su chi entra ed esce dalla loro stanza, o dalla loro casa” ha spiegato Danah Boyd, ricercatrice di Microsoft esperta di social network. “Ed è proprio per questo che ai loro occhi il mondo della rete, della comunicazione così detta virtuale, risulta paradossalmente più privato di quello reale, perché hanno l'impressione di poterlo tenere sotto controllo e di decidere da soli chi può entrarci dentro e chi invece deve restare fuori”. E d'altra parte c'è pure chi sostiene, come fa il francese Laurent Chemla, che per uno che entra in rete e mette on line tutti i fatti suoi, il problema non è la vita privata, bensì la vita pubblica: in altri termini non si tratterebbe più di violare la riservatezza o invocare il diritto all'oblio, quanto piuttosto del diritto alla libertà di espressione, facoltà estesa ormai a chiunque e dovunque, su scala planetaria e grazie a un semplice clic. Resta comunque da sapere chi controlla i dati che ogni giorno affidiamo alla rete: il singolo utente, ma con quali contropoteri, o le aziende che li catturano in cambio di offerte e / o servizi allettanti?

    In America il fenomeno preoccupa esperti. “La privacy sta scomparendo, ma chi se ne cura?” si domanda Bob Sullivan, specialista di frodi on line e reati digitali. La privacy è come la salute, come la giustizia, si sente solo quando non c'è, tant'è che secondo un sondaggio del Ponemon Institute solo il 7 per cento della popolazione americana pur di mantenere la sua privacy sarebbe disposta a cambiare atteggiamento e per esempio rifiuterebbe uno sconto per evitare i controlli elettronici che permettono di tracciare tutti gli spostamenti della propria auto. La tecnologia ha una sua forza dissolvente irresistibile: e-mail private che circolano liberamente in rete, allegati spia capaci di intercettare la corrispondenza digitale, cookies in grado di fotografare inclinazioni, preferenze, gusti reperibili attraverso la frequentazione dei siti web; e ovunque occhi indiscreti delle telecamere che ci scrutano, per strada, negli aeroporti, davanti agli sportelli di banca, persino nei camerini dei negozi di intimo e spesso a nostra insaputa.

    Un giorno qualcuno forse potrà spulciare gli estratti conto delle nostre carte di credito e decifrare i numeri chiamati attraverso le bollette del telefono. Chiunque, mariti curiosi, fidanzati inappagati, colleghi ficcanaso, poliziotti ricattatori, criminali estorsori, è libero di farsi gli affari nostri senza chiederci il permesso e senza nemmeno informarcene. Ma le minuzie quotidiane della nostra esistenza digitale ormai sono preziose anche per i sociologi, oltre che per direttori di marketing, sondaggisti, esperti dell'opinione pubblica. A Washington, la Biblioteca del Congresso sta per aprire addirittura un archivio di ricerca dedicato a Twitter. Per la prima volta nella storia dell'umanità, gli studiosi del presente possono sapere cosa passa per la testa dei contemporanei, minuto per minuto: di sicuro, è una svolta epistemologica. Intanto, a Harvard un gruppo di sociologi del Berkman Center for Internet & Society, volendo lanciare un programma ambizioso, “Tastes, Ties and Times”, per capire in che modo le differenze razziali e i gusti culturali influiscono sui rapporti sociali e la loro evoluzione, ha scaricato da Facebook 1.700 profili di una classe di studenti in “un'anonima” università per usarli come fonti. Due anni dopo, ha deciso di rendere pubblica parte di questo archivio dati, ma oggi la condivisione è entrata in crisi. Gli artefici dell'archivio digitale di Harvard sono stati rimproverati per aver scaricato da Facebook i profili degli studenti senza la loro autorizzazione: una cosa è pubblicare un profilo su un social network destinandolo a una ristretta comunità, altra cosa è accettare che quel profilo diventi visibile all'universo mondo. Ma i sociologi di Harvard insistono sull'interesse scientifico dell'operazione, sugli sforzi compiuti per proteggere gli studenti e minimizzare i rischi di identificazione, e soprattutto sulla collaborazione, nel lavoro di raccolta e smistamento dei dati, da parte degli stessi studenti di Harvard, che spesso sono pure “amici su Facebook” dei titolari dei profili in questione. E per tutte queste ragioni hanno accusato i loro critici di agire da “paparazzi accademici”.

    Nel frattempo, infatti, il direttore del Center for Information Policy Research alla Milwaukee's School of Information Studies dell'Università del Wisconsin, Michael Zimmer, era riuscito a rompere l'anonimato degli studenti usati come fonte del Berkman Center, identificando a partire dal solo profilo su Facebook un'intera classe di undergraduates di Harvard. D'altra parte che senso ha insistere tanto sulla protezione dei dati personali – si domandano in molti – quando le stesse fondazioni che in America elargiscono borse di studio reclamano il libero accesso ai dati, mentre tantissime aziende e centri commerciali offrono addirittura sconti e buoni acquisto in cambio della possibilità di utilizzare i dati personali dei loro clienti?

    Al di là di questa controversia che interessa il rapporto tra chi fornisce informazioni personali e chi aspira a utilizzarle come oggetto di studio, c'è chi denuncia da tempo il pericolo che la perdita della privacy comporta e non solo in termini di libertà. Genitori accorti ogni giorno tentano di mettere in guardia i figli adolescenti dall'affidare troppe confidenze alla rete; è un guaio irreversibile, avvertono: tra dieci anni potrebbe risultare la pecca incancellabile nel loro curriculum, la macchia indelebile che preclude un alto incarico. Lo scenario che s'annuncia sarà comico e inquietante se i giovani d'oggi hanno completamente perso il senso della discrezione e non riescono nemmeno a cogliere la portata della fine della privacy, eccitati come sono dall'infinita possibilità di comunicare senza limiti, e di socializzare senza frontiere, che oggi offre la rete. E' per questo che in un mondo incapace di distinguere tra vita privata e sfera pubblica, è sempre più difficile capire perché bisogna proteggere la dimensione dell'intimità, senza esporla in modo compulsivo all'universo mondo, mettendo a repentaglio la propria sicurezza. Intanto, però, l'asimmetria delle coscienze ribalta la geografia della libertà, confonde i confini tra quello che fino a vent'anni fa passava per essere il mondo libero e “l'occident kidnappé”, per riprendere la formula di Kundera, tra il regno della libertà e del mercato e l'impero del male, regno della tirannia, del conformismo e della paura, alias il comunismo realizzato.

    In Russia, dove in fatto di libertà di stampa la situazione oggi non è rosea, cominciano a riflettere sull'era post sovietica e sul significato della sistematica violazione della vita privata durante il comunismo. L'ultimo numero di “Laboratorium”, rivista di sociologia stampata a Pietroburgo, esplora l'evoluzione dei rapporti privati e familiari negli ultimi tempi, con saggi che vanno dalle sistemazioni domestiche degli emigrati a Pietroburgo, alla visione del mondo delle donne nei villaggi tradizionali del Caucaso, sino all'impatto di Internet sui rapporti fra i sessi in Siberia. Dunque anche i russi scoprono che il privato è politico, ché il corpo e la quotidianità domestica e familiare sono “un campo di battaglia”, per usare lo slogan di uno dei saggi di questa rivista, mentre si fa strada anche una teoria femminista dello stato, con l'idea che “la sfera privata” sia il costrutto ideologico che permette di sfruttare le donne, anche se il vero quid della privacy resta ancora avvolto nelle nubi del socialismo e dell'eredità di un sistema che volendo realizzare la giustizia in terra s'introdusse massicciamente nella vita degli altri, per tenerli sotto controllo, screditarli e isolare ogni possibile oppositore del regime. E' per questo che le trasformazioni successive al crollo dell'Urss sono avvenute all'insegna di una “privatizzazione”, anche se il termine, per i sociologi russi, non basta a dare conto del processo che in breve tempo ha trasferito un'enorme quantità di ricchezze nelle mani di un ristretto numero di persone. Resta pur sempre il fatto che molti degli ultimi difensori della privacy, oggi, vivono nei paesi ex comunisti. E per capire la sete di discrezione e l'attenzione al privato che ossessiona gli ex paesi dell'est, proprio mentre l'occidente inizia a trascurarle, bisogna rileggere i romanzi di Kundera sulla morte del pudore, sul dovere di trasparenza e nudità come indice di uniformità coatta.

    Niente è possibile senza discrezione e riservatezza, non l'amore, non l'amicizia, nemmeno la vita, ammoniva Kundera. Riviviamo gli incubi di Tereza, protagonista della “Insostenibile leggerezza dell'essere”, costretta a sfilare nuda a passo militare, o a danzare in cerchio con una ventina di sventurate, intorno a un uomo con un fucile puntato e pronto a sparar loro addosso se rifiutano di inginocchiarsi. Torniamo all'umiliazione inflitta alla giovane Tereza da sua madre, quando lasciava che il patrigno entrasse in bagno mentre c'era sua figlia, rituffiamoci nel suo sgomento, quando la madre diede il diario della figlia in pasto agli amici per indurla a vergognarsi. Solo così riusciremo a ricordare l'inferno che diventa la vita di una persona che non può più sottrarsi agli occhi degli altri, e che privata del diritto al pudore è costretta ad assistere alla distruzione dell'irriducibile unità del suo io, mentre il mondo si trasforma, senza accorgersene, in uno sterminato campo di concentramento per soli corpi, senz'anima.