I tanti nemici di don Luigi Verzé e del suo “carisma del denaro”

Paolo Rodari

Ancora oggi, a un certo punto della giornata, come richiamato da una voce interiore, don Luigi Verzé si dirige verso la cappella, s'inginocchia, e d'incanto ritrova il cardinale Ildefonso Schuster, il monaco benedettino divenuto arcivescovo di Milano, e don Giovanni Calabria, il prete dei poveri. E niente più. Niente oltre i suoi due primi maestri. Perché dopo Schuster e don Calabria è difficile per lui trovare qualcuno che all'interno della chiesa riesca a comprenderlo, sappia accettarlo in tutta la sua atipicità, prete sì ma in giacca e cravatta, guaritore e manager insieme.

Leggi Il martire del San Raffaele

    Ancora oggi, a un certo punto della giornata, come richiamato da una voce interiore, don Luigi Verzé si dirige verso la cappella, s'inginocchia, e d'incanto ritrova il cardinale Ildefonso Schuster, il monaco benedettino divenuto arcivescovo di Milano, e don Giovanni Calabria, il prete dei poveri. E niente più. Niente oltre i suoi due primi maestri. Perché dopo Schuster e don Calabria è difficile per lui trovare qualcuno che all'interno della chiesa riesca a comprenderlo, sappia accettarlo in tutta la sua atipicità, prete sì ma in giacca e cravatta, guaritore e manager insieme.

    Di nemici, don Verzé ne ha avuti tanti, anche all'interno della chiesa cattolica, tra le gerarchie, le curie di Roma e di Milano, sopportato e insieme osteggiato non solo per il sospetto che sempre aleggia attorno a coloro che nel nome di Dio fanno soldi, ma anche per le amicizie che il “carisma del denaro” porta ad avere. Per don Verzé il peccato originale, quello che tanti monsignori non gli hanno perdonato, è uno: l'amicizia con Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.

    La cosa divenne evidente nel 1997.
    Il San Raffaele a Roma è a un passo dal divenire polo universitario. Il rettore della Sapienza, Giorgio Tecce, è d'accordo. Il ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer mette la firma al decreto. Ma tutto si blocca. Le convenzioni con la sanità regionale non arrivano. Il presidente del Lazio, eletto nel Ppi, Piero Badaloni, non firma. Don Verzé capisce al volo. “Odore di cattocomunisti”, dice. E ancora: “Adesso tutto è chiaro. La sinistra cattolica dossettiana e lapiriana, giustizialista e pauperista, egalitaria e autoritaria è in trincea. Li chiamano cattocomunisti; sono i nemici più agguerriti e determinati che il San Raffaele abbia dai tempi di Bucalossi (Pietro Bucalossi, chirurgo social-democratico e ministro dei Lavori pubblici nel governo Moro IV, ndr) e degli schiaffi milanesi. E possono contare su buoni alleati in Vaticano”. Allora ministro della Sanità è Rosy Bindi. E' lei la cattocomunista che vuole espellere don Verzé dalla capitale? Non solo lei, spiegherà un anno dopo Cesare Geronzi a don Verzé: “Anche al di là del Tevere premono”.

    Don Verzé è abituato alle pressioni provenienti dal Vaticano. La prima avviene nel 1961. Il capo del San Raffaele cozza con la curia milanese guidata dall'arcivescovo Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI. In piazza Fontana in tanti lo considerano un prete maneggione, un affarista col pallino dell'albergatore. Montini si adegua a questa vulgata e gli volta le spalle. Don Verzé, in quel periodo, segue un convento di suore in città. Le suore mal sopportano il suo attivismo, il suo dinamismo. Don Verzé spinge per far entrare le suore nel suo ospedale. Propone loro di rifondarsi. Le suore scrivono a Montini che la presenza di don Verzé provoca nel loro ordine turbamento e divisione. Montini, spinto dalla curia, apre un processo su don Verzé. In poco tempo la palla passa a Roma. Don Verzé è convocato dalla Santa Sede. Dice: “In Vaticano mi ritrovo davanti due monsignori che mi interrogano. Fra quei marmi, quei soffitti, mi sento un moscerino. I miei accusatori sono preoccupati solo dai rischi finanziari delle mie iniziative”. Don Verzé cerca di rassicurare chi ha davanti dicendo loro di credere “solo nella provvidenza”. I due inquisitori lo ascoltano e poi si ritirano. Tornano. Gli dicono di non aver paura di Montini, ma di temere solo una cosa: “Il fallimento. Se fallisce, il giorno prima, si compri una pistola e si spari. Oppure si butti dal quarto piano”. Il messaggio è chiaro. E riletto oggi, 48 ore dopo il suicidio di Mario Cal, soffocato dai 972 milioni di debiti del San Raffaele, fa rabbrividire: per il Vaticano don Verzé non è un amico. E' una presenza ingombrante e da sopportare fino a che riesce a stare in piedi con le proprie gambe. Quando tutto fallirà, solo una cosa resterà da fare.

    Sull'asse Milano-Roma c'è sempre
    qualcuno che tiene don Verzé nel mirino. La sinistra cattolica mal tollera il suo legame con Berlusconi. E in generale il suo legame coi potenti, da Gheddafi a Fidel Castro. E poi c'è quel suo modo di agire dirompente per i modi di fare del Vaticano. E' il 1995 quando don Verzé restaura a proprie spese il Cenacolo di Gerusalemme, luogo santo per il cristianesimo. Il Vaticano crede che Israele sia vicino alla restituzione alla chiesa cattolica del Cenacolo. Don Verzé, senza avvisare la Santa Sede, inizia col restauro. Israele vede la cosa come un passo in avanti non richiesto e blocca la trattativa. Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, artefice dell'Accordo fondamentale fra Santa Sede e Israele del 1993 e nunzio a Tel Aviv dal 1990 al 1998, è senza parole.

    Una luce, nei rapporti tra don Verzé
    e le gerarchie, è rappresentata dal cardinale Carlo Maria Martini. Sulla carta nulla c'è di più diverso tra i due, tra l'austero arcivescovo di Milano e il mondano sacerdote amato da Craxi e da Berlusconi. Ma a un certo punto un'idea magicamente li lega: entrambi sono convinti che la chiesa debba rinnovarsi, debba aprirsi anima e cuore al mondo e alle sue istanze. Sono i tempi in cui don Verzé scrive i “Dieci pensieri per il prossimo Papa”. Tra questi, alcune proposte care anche a Martini: l'abolizione del celibato del clero cattolico latino, l'attribuzione dei poteri ministeriali ai laici provati, donne comprese, i sacramenti ai divorziati. E poi i temi più scottanti: l'uso degli anticoncezionali, la procreazione assistita, i limiti da togliere alla ricerca, il coinvolgimento dei fedeli nelle scelte delle gerarchie”.

    E' su queste idee che gli opposti si toccano, che Martini tocca don Verzé. Ma, paradossalmente, è proprio questa amicizia a portare in dote a don Verzé altri nemici. Quella parte di curia da sempre avversa a Martini e al suo cattolicesimo s'insospettisce. Mal sopporta le spinte anti romane di don Verzé, il suo soffiare sul rinnovamento in antitesi alla chiesa-istituzione. E aspetta il prete manager al guado, pronta a subentrargli qualora la sua opera fallisca.

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