Il dopo Bossi non è ancora arrivato

Maroni vorrebbe Papa in galera e Berlusconi in pensione

Salvatore Merlo

Adesso spera solo di poter convincere “dell'evidenza” l'amico di una vita, quell'Umberto Bossi che martedì sera cenando ad Arcore ha invece rassicurato Silvio Berlusconi sull'arresto di Alfonso Papa – il cui voto è previsto per oggi – e sulla tenuta dell'alleanza, del governo, della sua stessa leadership nel centrodestra.

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    Adesso spera solo di poter convincere “dell'evidenza” l'amico di una vita, quell'Umberto Bossi che martedì sera cenando ad Arcore ha invece rassicurato Silvio Berlusconi sull'arresto di Alfonso Papa – il cui voto è previsto per oggi – e sulla tenuta dell'alleanza, del governo, della sua stessa leadership nel centrodestra. Roberto Maroni vede restringersi sempre di più gli spazi di manovra, teme che si verifichi l'esatto contrario di quel “non ci faremo trascinare a fondo dal Pdl” minacciosamente pronunciato il 18 maggio scorso dal vecchio leader dopo la sconfitta delle amministrative. Bossi ha assicurato al Cavaliere che oggi i suoi deputati salveranno Alfonso Papa, in un modo o nell'altro, a scrutinio segreto. Un voto in cui, nonostante la parola del Capo, l'atteggiamento di alcuni deputati chiamati a votare secondo coscienza potrebbe deludere il Cav. Alla radio, Matteo Salvini, che di Maroni è il luogotenente a Milano, ha detto: “Voterei sì all'arresto di Papa. Anche per dare un segnale agli amici del Pdl che c'è un limite alla sopportazione”. E' esattamente quello che pensa anche Maroni, a cui ieri non sono dispiaciute le parole di Mario Borghezio: “In questi giorni è legittimo ricordare con tanta nostalgia quella Lega dura e pura che scandalizzò i sepolcri imbiancati di Montecitorio facendo ballonzolare nell'Aula sorda e grigia un oggetto che più simbolico non si poteva: il cappio”. A che prezzo, fino a che punto, in assenza di colpi d'ala, la Lega è disposta a restare immobile? E' la domanda che Maroni ha girato a Bossi.

    Circondato da amici e consiglieri
    che sono arrivati persino a suggerirgli una clamorosa scissione nella Lega – Maroni ha la maggioranza in tutti gli organi del partito, compresi i gruppi parlamentari – il ministro dell'Interno considera al contrario Bossi un totem, una divinità intangibile, certo non gagliardo come ai vecchi tempi in cui attaccavano assieme manifesti elettorali, ma ancora unto del carisma che lo ha reso una delle storie politiche più vincenti della Seconda Repubblica. Dunque piega la testa alle scelte del Capo e dell'amico, Maroni. Bossi temporeggia, onora un rapporto di solidarietà umana e anagrafica con Berlusconi che il più giovane colonnello non condivide più ma accetta, capisce e in fondo subisce. Malgrado tutti sappiano che, dice un osservatore esterno, ma interessato come Maurizio Gasparri, Maroni è “il teorico di una seconda fase, per così dire… più avanzata”. Un modo criptico, quello del capogruppo berlusconiano in Senato, per rivelare che il ministro leghista – non da oggi – punta alla sostituzione in corsa di Berlusconi a Palazzo Chigi: per salvare la casa comune che brucia, magari con l'aiuto di Angelino Alfano, neo segretario del Pdl di cui è amico e che ha salutato con calcolato entusiasmo poche settimane fa alla festa di Mirabello: “Faccio il tifo per Alfano, è una persona concreta. Con lui sono certo che si aprirà una nuova stagione di collaborazione utile per il Pdl, la Lega e i nostri cittadini”. Alfano, dunque, per trarsi di impaccio tutti insieme con un colpo d'ala al governo.

    Maroni sa benissimo
    che le condizioni politiche rendono quasi impossibile l'addio cruento della Lega al Cavaliere e al berlusconismo tutto. “Finché c'è questa legge elettorale non si muove nulla”, dice Davide Boni, una “guardia rossa di Bossi”, uno che nella Lega è un pezzo importante anche perché presiede il Consiglio regionale della Lombardia. Alfano è l'alleato cui Maroni guarda per una transizione che sia morbida, coltivando una speranza che però in queste ore è Berlusconi a tentare di spegnere più o meno consapevolmente; perché il Cavaliere non riesce – misteriosamente – a liberare il neo segretario dalla soma del ministero della Giustizia. Così Alfano resta lì, un'opzione congelata, almeno quanto quel proposito maroniano che Bossi si era lasciato sfuggire a Montecitorio con alcuni fedelissimi nei giorni che precedevano il raduno di Pontida: “Se Berlusconi non risponde coi fatti alle richieste che faremo, l'unica soluzione è nell'asse Maroni-Alfano”.

    Il timore diffuso nella Lega, ma celato dalla natura profondamente leninista di questo strano partito personale e popolare all'unisono, è che Umberto Bossi abbia perso la lucidità politica di un tempo. Un leader ferito, ma comunque insostituibile, “imprescindibile” come ripete sempre Maroni. Ed è forse proprio questo il problema. Bossi è la Lega e la Lega è Bossi, dicono nella sede centrale di via Bellerio, dove ancora ieri c'era chi intepretava – proiettando forse solo una speranza – le pubbliche contraddizioni del Capo sul caso Papa come la solita vecchia tattica: rassicurare Berlusconi, per poi lasciare che i deputati della Lega facciano l'esatto contrario votando a favore dell'arresto. Se Bossi volesse assecondare la strategia maroniana dello sganciamento morbido dal Cavaliere non dovrebbe fare altro che prendere atto degli umori prevalenti nel gruppo parlamentare e nel partito, dire a Berlusconi: ci ho provato, ti sono amico, ma ci sono confini che neanche io posso valicare. Ma chissà. Non sembra così. Il gruppo parlamentare alla Camera è spaccato, una ventina di deputati su cinquantanove ieri erano inclini fino all'ultimo a sostenere la linea della “galera per Papa”, la linea Maroni. Il ministro dell'Interno pensa che possa essere un messaggio forte rivolto a Berlusconi e al Pdl. Non solo all'elettorato in camicia verde, ma un segnale rivolto alla discontinuità nella maggioranza e nel governo. Anche di questo Maroni ha provato a convincere Bossi e gli altri colonnelli, alcuni dei quali più inclini a considerare un gesto già sufficientemente scapigliato il veto imposto ieri al Pdl sul decreto per i rifiuti di Napoli.

    Per Maroni lo spazio di manovra si restringe sempre di più: così non possiamo andare avanti. Se non dovesse funzionare la strategia della sostituzione in corsa del Cavaliere, se Alfano non dovesse emergere e in tempi rapidi, è alla riforma della legge elettorale che il ministro dell'Interno finirà col volgere il proprio sguardo. E allora tutto diventerà possibile.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.