E' sobrio e poco sentimentale, ecco perché amiamo così tanto l'Uruguay
Piccolo e dimesso, l'Uruguay da un secolo insegna calcio al mondo: non ha l'atteggiamento protervo degli argentini né l'enfasi malinconica e un po' infantile dei brasiliani, non professa l'incultura di chi crede di dovere vincere a tutti i costi. La scorsa notte per disporre del Perù e accedere alla finale ci ha messo cinque minuti: all'8° della ripresa il solito Forlán tira di sinistro da fuori area, il portiere respinge ma non trattiene, il solito Suárez da due passi riprende.
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Piccolo e dimesso, l'Uruguay da un secolo insegna calcio al mondo: non ha l'atteggiamento protervo degli argentini né l'enfasi malinconica e un po' infantile dei brasiliani, non professa l'incultura di chi crede di dovere vincere a tutti i costi. La scorsa notte per disporre del Perù e accedere alla finale ci ha messo cinque minuti: all'8° della ripresa il solito Forlán tira di sinistro da fuori area, il portiere respinge ma non trattiene, il solito Suárez da due passi riprende. E uno. Al 13° il solito Alvaro Pereira, quello del Porto, lancia da dietro, il solito Suárez buca la difesa e mette a sedere il portiere. E due. Ma non ci sono solo i soliti campioni: c'è un tostissimo Arévalo Rios che interdice e cuce, Diego Lugano che orchestra la difesa da par suo.
E' una squadra con senso del collettivo e intelligenza di gioco, attaccanti che pressano alto, difensori che vanno in avanti e quel Diego Forlán, figlio nonché nipote d'arte, che sta ovunque. I peruviani sono stati ripagati con la stessa moneta con cui due giorni prima avevano pagato la Colombia: il cinismo, ma a differenza dei colombiani non hanno nemmeno da lamentarsi per le occasioni sprecate. Nei rari momenti di pericolo l'Uruguay se l'è cavata con destrezza, parola magica fatta di sciolta eleganza nonché, quando serve, di gomitate in faccia e botte negli stinchi, in numero comunque inferiore alla media continentale. Con Brasile e Argentina che stentano, l'Uruguay è da qualche anno la migliore squadra sudamericana. Al Mondiale 2010 è in semifinale. Viene sconfitta di misura da Olanda e Germania: Diego Forlán è eletto miglior giocatore del torneo. Ora può vincere la sua quindicesima Coppa, conquistare il primo posto nell'albo d'oro. Non fa proclami patriottici l'Uruguay, non ci ammorba con il ricatto del lutto nazionale: vive il calcio con la sobrietà di un paese che ha meno abitanti della provincia di Roma ed è andato tante volte su e giù da sapere che perdere non fa piacere ma risorgere è ancora più bello che vincere. E' il paese reso grande da nomi che di padre in figlio hanno forgiato il mito, gli Andrade, i Montero, i Forlán. Di grandi che non hanno avuto eredi, Alcidès Ghiggia, Enzo Francescoli, Daniel Fonseca e il più grande di tutti, Juan Alberto Schiaffino: insieme a Ghiggia confezionò l'uno-due che nel '50 valse il secondo Mondiale, in un Maracanã ammutolito, con migliaia di brasiliani che per il dolore si buttarono nel vuoto. E' terra di portieri di razza, Mazurkiewicz, il migliore di Messico '70, Carini che nella Copa America del '99 si arrese solo a Ronaldo. E questo Muslera epico contro l'Argentina che la Lazio ha venduto.
Dietro la squadra c'è anche un allenatore esigente, che chiamano triste, forse perché non fa scena né spettacolo, non dà in escandescenza, non è mai volgare, si veste bene e parla con proprietà: ma Oscar Washington Tabárez sa di calcio come pochi al mondo. Anche i calciatori sembrano di un altro pianeta e fanno della riservatezza la loro arma personale. Quando ha visto le intemperanze della bellissima fidanzata Zaira Nara e l'esuberanza tamarra della di lei sorella, Diego Forlán ha detto semplicemente che forse non era ancora il momento di sposarsi e alla petulanza delle cronache mondane ha opposto un professionale elegante silenzio. Lo stile però non vuol dire non sapere essere birbanti alla bisogna. Nel 1924, in occasione del primo torneo di calcio delle Olimpiadi di Parigi, l'Uruguay arrivò a destinazione per tappe perché non c'erano soldi. Sbarcò in Spagna, il biglietto pagato con un'ipoteca sulla casa di un dirigente federale, poi fece soste in varie città per partite d'esibizione. Arrivati a Parigi, si stavano allenando quando si accorsero che la Yugoslavia, prima avversaria, aveva sguinzagliato spie sul campo. Si misero a giocare male apposta. Sui giornali si lessero frasi piene di compassione per questi “poveri e teneri ragazzi venuti da tanto lontano”. Quando il torneo cominciò il leggendario José Leandro Andrade, i Nasazzi, gli Scarone, i Petroni asfaltarono la Yugoslavia 7-0, il Brasile 6-0, gli Stati Uniti 3-0, i francesi 5-1, i Paesi bassi 2-1 e, in finale, la Svizzera 3-0. Vinse così la sua prima medaglia d'oro, il povero e talentuoso paese, malgrado avessero messo le sue bandiere al contrario e nella partita d'esordio avessero suonato l'inno brasiliano. Andrade che era pure bello e ballerino ebbe in premio un flirt con Joséphine Baker. Ti amiamo davvero molto, celeste Uruguay.
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