Che cosa rischia il Pd a rimettersi nelle mani della magistratura chiodata

Marco Palombi

“Chi vince questa partita detterà l'agenda del giorno dopo: se questa vicenda si conclude in Parlamento allora ha vinto la politica e deciderà come uscire dall'era berlusconiana, se finisce in tribunale hanno vinto i magistrati. Sarebbe un male: una vicenda politica deve sempre trovare il suo senso in Parlamento”. Sergio Romano, si sa, è un conservatore lucido quanto puntuto e, nel giorno in cui il capo dello stato rampogna l'ordine giudiziario, tiene d'occhio lo stato delle forze in campo.

    “Chi vince questa partita detterà l'agenda del giorno dopo: se questa vicenda si conclude in Parlamento allora ha vinto la politica e deciderà come uscire dall'era berlusconiana, se finisce in tribunale hanno vinto i magistrati. Sarebbe un male: una vicenda politica deve sempre trovare il suo senso in Parlamento”. Sergio Romano, si sa, è un conservatore lucido quanto puntuto e, nel giorno in cui il capo dello stato rampogna l'ordine giudiziario, tiene d'occhio lo stato delle forze in campo. Le inchieste che tartassano il mondo politico in questi giorni non sono un nuovo 1992, spiega al Foglio, se non altro perché è “buona norma concentrarsi sempre sulle differenze. Allora la magistratura scopriva il suo potere per la prima volta: lo usò magari discutibilmente a volte, ma – sostiene Romano – con una certa generosità”. Durante il periodo di Tangentopoli, peraltro, “quasi tutti erano d'accordo sull'opportunità, o addirittura l'utilità, del ruolo che l'ordine giudiziario si assumeva, oggi la cosa è diversa: sembra quasi che i magistrati interpretino in modo permanente quel loro ruolo di supplenza e questo non può essere il loro mestiere. In democrazia si deve rendere conto dei poteri che si hanno e i membri di un ordine burocratico – che non rispondono a nessuno fuorché alla loro coscienza – non possono avere, o dare l'impressione di avere, obiettivi di carattere generale”.

    Le toghe esondano però, spiega Romano
    , per una debolezza quasi congenita della politica italiana “che oggi, senza mezzi termini, si chiama Silvio Berlusconi: mi è capitato spesso di pensare che, se le stesse cose che diceva il presidente del Consiglio le avesse sostenute un leader politico non appesantito da problemi personali, avrei corretto solo lo stile prima di farle mie. E' evidente però che l'opinione pubblica ha buone ragioni quando diffida di una persona in conflitto di interesse e non è un caso che la riforma della giustizia, questo governo, non è riuscito a farla”. Quanto all'opposizione, sostiene l'editorialista del Corsera, “in questi anni ha sempre cavalcato le inchieste giudiziarie: un comportamento imperdonabile, specialmente per quella di ascendenza comunista. Loro erano stati a una buona scuola: forse nel Pci si esagerava nel senso contrario, ritenendo che tutto dovesse piegarsi alla politica, ma mai avrebbero dato l'impressione di delegare una funzione del partito alla magistratura”. Oggi, invece, a sinistra paiono vittima di un senso di impotenza: “Sono convinti di non farcela da soli, ma devono stare attenti a delegare la fine di un regno alla giustizia: l'agenda del giorno dopo, ripeto, la fa chi vince”.

    Sulla stessa linea di Romano è anche Paolo Pombeni, professore dell'Università di Bologna e intellettuale cattolico attivo nel gruppo del Mulino: “Lo scontro tra Berlusconi e la magistratura è oggettivamente una storia lunga e all'opposizione non conviene cavalcarla: d'altronde non convenne cavalcare le inchieste di Mani pulite nemmeno agli allora eredi del Pci. Una linea politica di successo non si può mica basare sul fatto che cade l'avversario: serve credibilità e autorevolezza e l'attuale sinistra su questo è in forte difficoltà”. In ogni caso, spiega, “non credo ci sia una combine tra Pd e magistratura per far fuori il Cavaliere: mi sembra più che si sia creato un clima comune per cui sembra, detto in soldoni, che se si caccia Berlusconi i nostri problemi sono risolti. Ovviamente non sarà così, però penso che il ciclo del premier sia finito davvero: fosse intelligente gestirebbe questa fase, perché senno ci ritroveremo come al solito a piazzale Loreto, si spera solo simbolicamente”. Questi avvicendamenti drammatici dei sistemi politici sono una costante nella storia italiana: “E' successo a tutti: nel Novecento ai liberali, al fascismo e ai democristiani. E succederà ancora”.

    La causa, ritiene Pombeni,
    sta nella storica separazione tra politica e il resto della classe dirigente nazionale: “Quest'ultima pensa alla prima come a una roba un po' sporca, forse inutile, che è meglio far fare a qualcun altro, salvo pensare che quando poi non serve più, lo si caccia. Solo che poi le cose sono più complicate e si arriva a queste fasi di cesura violenta”. Strumento non si sa quanto consapevole delle ultime “distruzioni creatrici” italiane è la magistratura: “C'è una tendenza in giro a pensare che il mondo è naturaliter corrotto e così la buona politica diventa solo lotta alla corruzione. Secondo me ha qualcosa a che fare col '68: anch'io studiavo Giurisprudenza e nelle nostre facoltà si diceva che il diritto poteva essere strumento della rivoluzione. Il programma politico non c'è più, ma l'atteggiamento è rimasto. Adesso poi questa tentazione s'è spostata su giornali, giudici e plotone d'esecuzione in piazza”. No, conclude lo storico, non è il nuovo 1992, ma “resta una domanda: chi gestirà il nuovo equilibrio? Inventarsi una classe politica non è facile, specialmente mentre cambiano tutti i parametri geopolitici e culturali”.