Il vaccino contro il virus del '92 esiste

Sergio Soave

La virulenza e l'ampiezza dell'offensiva giudiziaria che riesce a mettere in crisi gli assetti politici e istituzionali sembrano riportare indietro la situazione italiana agli anni della decapitazione per via giudiziaria dei partiti di governo della Prima Repubblica. In effetti alcune similitudini fanno davvero impressione.

    La virulenza e l'ampiezza dell'offensiva giudiziaria che riesce a mettere in crisi gli assetti politici e istituzionali sembrano riportare indietro la situazione italiana agli anni della decapitazione per via giudiziaria dei partiti di governo della Prima Repubblica. In effetti alcune similitudini fanno davvero impressione. Anche nel 1992 l'Italia si trovò al centro di un'offensiva finanziaria internazionale e, dopo una costosa e inefficace difesa del corso della lira da parte della Banca d'Italia governata da Carlo Azeglio Ciampi, un governo dalla maggioranza piuttosto aleatoria, quello presieduto da Giuliano Amato, decretò una stangata da 90 mila miliardi (più o meno equivalenti ai 45 miliardi di euro della manovra attuale, che però è spalmata su quattro anni). Il sistema contrattuale e delle retribuzioni, che era condizionato dall'indicizzazione inflattiva della scala mobile, si dimostrava insopportabile e fu prima ridimensionato, e dopo pochi anni abolito, in accordo con le confederazioni, ma con la permanente ostilità della Fiom-Cgil.

    A questa situazione si era arrivati
    anche per le tensioni interne alla maggioranza di pentapartito, in seguito alla tendenziale esclusione di Giulio Andreotti dal “triumvirato” con Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. Andreotti si sarebbe vendicato, almeno così si pensava allora, appoggiando le iniziative giudiziarie avviate contro i suoi concorrenti. Qualcuno, maliziosamente, potrebbe leggere nell'esclusione (o autoesclusione) di Gianfranco Fini dalla plancia di comando del centrodestra, seguita o forse preceduta da un suo sostegno alle campagne giustizialiste attuali, una sorta di ripetizione di quelle lontane vicende di Palazzo. Anche allora, nelle elezioni politiche del 1992, i partiti di governo avevano tenuto bene, ma poi le tensioni interne avevano impedito di raggiungere la maggioranza per eleggere il successore di Francesco Cossiga e questo indebolimento delle formazioni politiche di maggioranza le rese incapaci di reggere all'offensiva giudiziaria di Mani pulite. Sotto la pressione del kombinat mediatico giudiziario il Parlamento cede, accetta praticamente tutte le richieste di autorizzazione a procedere e, alla fine, approva una riforma costituzionale che abolisce l'immunità parlamentare, mentre la maggioranza politica si scioglie per lasciare il campo a un governo tecnico di emanazione presidenziale costituito dal governatore Carlo Azeglio Ciampi.

    La storia è destinata a ripetersi?
    Vale la pena di osservare oltre alle similitudini, pur molto suggestive, le differenze tra la situazione attuale e quella di allora. Un ingrediente destabilizzante che ebbe un peso colossale nel diffondere la sensazione di assoluta inadeguatezza della classe dirigente politica, l'attacco militare della criminalità organizzata allo stato, con l'assassinio di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e con le stragi di Firenze e di Milano, oggi non esiste più. Le cosche sono in ritirata, braccate dalle forze dello stato, i loro boss sono in carcere sottoposti al regime carcerario più severo e quindi non sono in grado di lanciare offensive, se si eccettuano quelle di qualche sedicente collaboratore di giustizia che cerca di accreditare fantasiose ricostruzioni delle vicende di allora. Il clima sociale è teso ma non esplosivo, non assomiglia neppure lontanamente a quello in cui persino al segretario della Cgil Bruno Trentin accadeva di essere colpito da un bullone lanciato dai contestatori che aggredivano un suo comizio.

    Soprattutto è cambiata la struttura sostanziale del sistema politico, non esiste più la prevalenza di una centralità alla quale si aggregavano forze variabili, il meccanismo che aveva retto per quasi mezzo secolo, e che quando crollò lasciò spazio a una soluzione tecnocratica ed extrapolitica. Gli italiani hanno vissuto, grazie alla rivoluzione berlusconiana, una lunga stagione di bipolarismo sostanziale e non sembrano affatto interessati ad abbandonarla.

    L'idea di affidare a un banchiere o a un economista le chiavi di casa non affascina granché, anche perché banchieri ed economisti sono considerati non infondatamente tra i responsabili della crisi. Casomai, chi considera irreparabile lo sfaldamento della coalizione di centrodestra attualmente al governo punta a sostituirla con una di centrosinistra, applicando una regola di alternanza, come peraltro è accaduto a ogni rinnovo del Parlamento dal 1994 a oggi. Anche la sinistra si sta sbarazzando del mito del tecnocrate, dopo che l'illusione di Massimo D'Alema di poter controllare politicamente Romano Prodi si è risolta nel suo contrario, e la vocazione maggioritaria, cioè la piena accettazione del bipolarismo, è stata consolidata dalla battaglia di Walter Veltroni. Naturalmente sussiste una pressione per soluzioni extrapolitiche e tecnocratiche, esercitata soprattutto attraverso i grandi organi di stampa, ma non sembra in grado di superare l'ambito ristretto di settori elitari, mentre le spinte antipolitiche prospettano orizzonti di “democrazia diretta” o si accodano alle pretese giustizialiste.

    Al di là delle apparenze, e persino dopo la vicenda preoccupante del voto su Alfredo Papa, le forze politiche, pur indebolite e intimorite, non sembrano disposte a una resa senza condizioni all'offensiva giudiziaria. Anche chi cerca di utilizzarla per colpire l'avversario, rinunciando anche alla difesa di principi di dignità delle istituzioni rappresentative, cerca di evitare i colpi, ma non intende cedere il proprio ruolo.

    La crisi che investe il centrodestra ha soprattutto un carattere politico, che allude alle difficoltà di ricambio delle leadership che hanno dominato negli ultimi vent'anni. Le difficoltà della sinistra nascono dalle contraddizioni, anch'esse politiche, tra l'affermazione di una scelta riformista e i condizionamenti che nascono da un sistema di alleanze confuso e contraddittorio. In questa duplice debolezza si inserisce la lama dell'offensiva giudiziaria, provocando gravi danni e avvelenando il clima, senza però che questo cambi i dati di fondo della situazione, che resta fortemente ancorata a un confronto bipolare, basato sulle differenze di orientamenti politici e di proposte economiche.
    I successi contro il crimine organizzato rendono tollerabile la situazione dell'ordine pubblico, la coesione sociale, favorita dal finanziamento degli ammortizzatori sociali e dalla convergenza sulle riforme contrattuali, regge abbastanza bene, e questo quadro è nettamente differente da quello della stagione “rivoluzionaria” del giustizialismo. Basta a fare la differenza e a garantire che il sistema politico regga senza sconvolgimenti? Nessuno lo può dire, ma di queste differenze è giusto tener conto come delle similitudini, talvolta presentate in modo specioso.
    Molto dipende dalla capacità dei soggetti politici di non smarrire il senso della propria funzione nazionale. All'inizio degli anni Novanta la campagna anti craxiana aveva debilitato la prospettiva della “grande riforma” riducendo lo spazio dell'innovazione e facendo prevalere la pura competizione di potere; l'altra ipotesi, quella del compromesso, più o meno storico, tra Dc e Pci, era fallita per non aver saputo contenere il fenomeno terroristico e aveva lasciato i suoi protagonisti privi di una prospettiva di medio termine.

    Le contese di potere personale diventarono il centro della battaglia politica perché quello tra le idee e le prospettive di fondo era stato debilitato. L'antipolitica, giudiziaria e tecnocratica, vinse su una politica ormai paralizzata, e alla fine però nuovi movimenti politici, quelli di Umberto Bossi e di Silvio Berlusconi, ricostruirono le condizioni di un confronto politico reale. Il vero problema che si può porre è proprio questo, l'indebolirsi della tensione sulle idee e le prospettive politiche alternative, la prevalenza di interessi tattici ed elettoralistici di breve respiro, in ambedue i campi, che toglierebbe al bipolarismo la sua energia naturale, che nasce dal confronto tra ipotesi alternative, ovviamente nell'ambito della condivisione di princìpi basilari di coesione nazionale.
    L'unico antidoto all'antipolitica è la buona politica, che non è “buona” in senso moralistico o demagogico, ma lo è perché fornisce risposte ai problemi e le mette apertamente a confronto con altre altrettanto fondate politicamente. E' nell'indebolimento di questo tratto essenziale, su cui si basano alternativa e bipolarismo, che si possono scorgere i più preoccupanti sintomi di un tendenziale degrado che lascia spazio allo scandalismo, al moralismo, poi manovrati dal giustizialismo, sintomi che purtroppo assomigliano ad alcuni aspetti della fase agonica della Prima Repubblica.