Il racconto di una volontaria
Il viaggio della sete dalla savana al campo di Dadaab
Hassan faceva l'agricoltore in Somalia. Dopo aver rastrellato pietre per due stagioni aspettando la pioggia ha deciso di partire con tutta la sua famiglia verso Dadaab, il campo profughi più grande al mondo, nel nord est del Kenya (al confine con la Somalia), verso cui convergono, da qualche settimana, più di millecinquecento persone al giorno spinte dalla sete. Nella traversata della savana Hassan e la sua famiglia sono stati attaccati da iene e leoni che hanno divorato il figlio di 8 anni.
Hassan faceva l'agricoltore in Somalia. Dopo aver rastrellato pietre per due stagioni aspettando la pioggia ha deciso di partire con tutta la sua famiglia verso Dadaab, il campo profughi più grande al mondo, nel nord est del Kenya (al confine con la Somalia), verso cui convergono, da qualche settimana, più di millecinquecento persone al giorno spinte dalla sete. Nella traversata della savana Hassan e la sua famiglia sono stati attaccati da iene e leoni che hanno divorato il figlio di 8 anni. Prima di riuscire a raggiungere il Kenya alcuni banditi li hanno aggrediti e derubati (vestiti compresi). Hanno impiegato 38 giorni di cammino per arrivare a Dadaab, dove attendono di essere registrai per poter accedere agli aiuti che le ong presenti sul posto stanno predisponendo per contrastare la carestia.
L'esodo verso il campo profughi di Dadaab, ha raggiunto in queste ultime settimane dimensioni incontenibili. Il Corno d'Africa è ormai a secco: i semi piantati dai contadini sono induriti nel terreno, il bestiame è morto e le scorte d'acqua sono finite. Più di 1.500 somali attraversano la savana e a sfidano i ricatti e gli abusi dei poliziotti schierati alla frontiera con il Kenya.
A Dadaab da 30 anni la guerra ha già ammassato 440.000 persone, sforando il tetto dei 90.000 posti predisposti dall'Alto Commissariato dell'Onu nel 1998. Nato per accogliere i profughi della guerra civile di Mogadiscio, non si è mai svuotato: c'è una generazione che è nata e cresciuta tra le tende di Dadaab, a cui si aggiungono i nuovi arrivati che ormai si accampano ai confini del tracciato (di 50 km quadrati) in tende fatte di rami, teli, plastica e sabbia con sconosciuti, “ma il sovraffollamento è meglio del nulla della savana” dice al Foglio Elisabetta Ponzone, che lavora con Avsi. Le risorse idriche non sono più sufficienti e si calcola che al momento sia disponibile meno di un litro d'acqua al giorno pro capite. Il primo ministro del Kenya, Raila Odinga, si è recato sul posto la scorsa settimana e ha autorizzato l'apertura l'apertura dell'estensione del campo Ifo II.
Per far fronte all'emergenza l'Onu ha ordinato migliaia di tende, ha stanziato nuovi fondi per la costruzione di nuove latrine, ma soprattutto servono fondi per far convergere l'acqua nei centri di raccolta. Sul posto operano da anni alcune ong del network Agire. Maria Li Gobbi di Avsi racconta al Foglio.it che nonostante la scarsità di ogni bene primario le persone non smettono di desiderare un'educazione per i loro figli: “E' incredibile vedere l'attaccamento di queste persone alla vita. Sono sopravvissute alla guerra, alle belve, alla sete, ma l'insistenza perché i loro figli possano andare a scuola dà esattamente la misura della speranza che hanno. Soprattutto – continua Li Gobbi – l'organizzazione di centri educativi servirebbe a dare una parvenza di normalità, di routine che in questi contesti è davvero importante dare ai bambini e ai ragazzi che vivono in queste condizioni. E' necessario dare loro un'apparenza di normalità di vita, un punto di riconoscimento sicuro dove ritrovarsi e identificarsi che permetta di mantenere una stabilità mentale ed emozionale”.
Da quando l'Onu ha dichiarato lo stato di emergenza umanitaria il network Agire, che raccoglie le ong che operano a Dadaab, ha attivato una raccolta fondi. Non è ancora chiaro quale futuro possa essere dato a questi profughi della sete che non hanno intenzione di tornare in Somalia, ma, come spiega l'operatrice di Avsi, non è questa la preoccupazione imminente. “Siamo in una situazione di emergenza a cui è necessario dare risposta subito prima di pianificare progetti a lungo periodo”.
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