Onore a Uruguay e Paraguay, note liete in una Copa da dimenticare
Finalmente si è giocato all'Antonio Vespucio Liberti, El Monumental di Buenos Aires, la culla del River Plate devastata un mese fa dai tifosi inferociti per la retrocessione della squadra e dove il 23 giugno del 1968 il derby con il Boca Juniors fece settantuno morti e centocinquanta feriti. E' l'aria che può tirare da quelle parti anche quando in campo non ci sono squadre argentine. Il presidente dell'Uruguay nonché ex tupamaro José Mujica detto Pepe, ha inviato per l'occasione uno dei messaggi più melensi e inutili della storia dello sport, tipo siate umili e rispettatevi l'un l'altro.
Finalmente si è giocato all'Antonio Vespucio Liberti, El Monumental di Buenos Aires, la culla del River Plate devastata un mese fa dai tifosi inferociti per la retrocessione della squadra e dove il 23 giugno del 1968 il derby con il Boca Juniors fece settantuno morti e centocinquanta feriti. E' l'aria che può tirare da quelle parti anche quando in campo non ci sono squadre argentine. Il presidente dell'Uruguay nonché ex tupamaro José Mujica detto Pepe, ha inviato per l'occasione uno dei messaggi più melensi e inutili della storia dello sport, tipo siate umili e rispettatevi l'un l'altro. Per fortuna Uruguay e Paraguay se ne son fregati dei buoni sentimenti e in campo se le sono date di santa ragione: tackle da dietro, entrate a prendere pallone o gamba, salti con il gomito in su, testate e manate in faccia senza ritegno: non piacerà agli ignavi esteti dell'agile gambetta ma una partita di calcio è anche il risultato di scontri fisici individuali, in cui la volontà di ciascuno di intimidire e sopraffare l'avversario diretto conta almeno quanto il talento.
L'Uruguay dà spettacolo per tutto il primo tempo, nel secondo si limita a controllare e sul finale segna anche il tre a zero. Vince e avvince, conquista la sua quindicesima Coppa, ora è la squadra più titolata del continente. E dire che per un momento s'era riaffacciata la sindrome paraguagia. A partita appena iniziata, Juste Villar, portiere immenso per stazza e bravura, fa una respinta a pera su cui si avventa di testa il centrale uruguaiano, giovane lungagnone di nome Coates, il portiere è battuto ma Ortigoza salva di braccio poi di mano ancora di braccio, una carambola pazzesca, l'arbitro visibilmente stava telefonando alla moglie e non vede. L'Uruguay non molla la presa, è un assedio: all'11' Luis Suárez stoppa la palla con il destro e da posizione defilata mette sul secondo palo. La saracinesca calata da Tata Martino, sette difensori, due centrocampisti e una punta immolata al cielo, è saltata al colpo. Ora sentono l'odore del sangue e continuano a pressare e ad attaccare, insomma una furia celeste.
Al 41' l'imbarazzante Ortigoza pianta un'amaca sulla tre quarti e si sdraia per un sonnellino, lo straripante Arévalo Rios ruba palla, penetra e apre a Diego Forlén che al volo di sinistro incrocia e mette nel sette. 2 a 0, pratica chiusa. Il biondo uruguaiano che sgroppa per tutto il campo e torna pure a chiudere la diagonale segna ancora a fine partita su assist di testa di Suérez: non segnava in Nazionale dal Mondiale sudafricano, oggi è con Hector Scarone il miglior marcatore di sempre. Onore e gloria dunque all'Uruguay. A Forlén e a questa dinastia che di coppe ne ha vinte una per generazione, il nonno come allenatore, il padre come difensore, e lui Diego come leader, mente e uomo tuttofare. Onore a Luis Suárez, indio selvaggio, che se solo la smettesse di lamentarsi e protestare ogni due per tre sarebbe il più grande attaccante del mondo, altro che Tévez e Agüero, ma forse lo è ugualmente e dunque beato sia il Liverpool che ce l'ha e ovviamente se lo tiene stretto. Onore a Rios, un Gattuso dai piedi non lignei che segna e fa segnare. Onore a Edinson Cavani che ha sgambato mezz'ora giusto per potersi dire della festa e ballare con la propria gente, con tutto il suo popolo, in letizia: una lezione di stile per il garrulo presidente del Napoli De Laurentiis che non ha ancora capito che certe cose, come ad esempio intimare a federazione e allenatore di un altro paese di non far giocare anzitempo il proprio pupillo reduce da infortunio, in genere non si fanno, ma se si fanno non si dicono. E onore a Diego Lugano, il bello del calcio americano: a dire il vero di viso non pare un granché ma si dice che abbia un fisico scultoreo e la prima volta che le donne gli hanno visto deltoidi e torace sono come impazzite. Lo vedesse anche Giorgio Armani che magari riuscirebbe a portarlo dalle nostre parti così si svelerà il mistero di un trentenne che è da tempo uno dei più grandi difensori centrali al mondo, che è il vero erede di Cannavaro e gioca in Turchia con il Fenerbahce.
Onore e gloria infine anche al Paraguay, il cui allenatore Tata Martino ha riconosciuto di essere arrivato in finale per “culo” e ha saputo perdere con dignità e riconoscere la superiorità dei vincitori. Onore e gloria a questi giocatori arrivati all'appuntamento decisivo stremati, dopo aver giocato due partite alla morte per centoventi minuti, con un giorno di riposo in meno rispetto agli avversari, con l'allenatore squalificato e spedito in tribuna, con un grande portiere praticamente azzoppato e un attacco falcidiato: Lucas Barrios in condizioni così precarie che appena gettato nella mischia per un ultimo disperato tentativo di rientrare in partita si è subito strappato ed Estigarribia, la rivelazione, la giovane freccia, seriamente ammaccata. Onore al Paraguay, “all'oceano che va verso l'acqua”, paese di belle donne, l'unico al mondo la cui bandiera ha le due facce non esattamente uguali. Nazione etnicamente compatta, ispanica e guaranì, tanto tosta da fare una lunga guerra per un vasto territorio dove non c'è nulla, da resistere nell'Ottocento alla triplice alleanza, la coalizione militare guarda caso tra Brasile, Argentina e Uruguay, essersi sciroppato trentuno presidenti in cinquanta anni e un dittatore per quasi quaranta, da cui quelli che poterono scappare seppero congedarsi anche con una certa ironia: al settore partenze dell'aeroporto di Asunción apparve la scritta “l'ultimo chiuda la porta”. Così ieri sera, a differenza di quanto avrebbero fatto altri, noi italiani compresi, ha accolto la sconfitta con un caldo e leggero: “Gracias, sub campeones”.
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