Scaroni, l'euro, I'Italia
Non guarda con eccessiva preoccupazione al futuro dell'euro, pensa che sul rischio dei debiti sovrani in Europa ci si autoflagelli troppo e per l'Italia consiglia una revisione della corporate governance aziendale per non scimmiottare modelli altrui, come quello anglosassone. E' un Paolo Scaroni concentrato sulle regole del gioco aziendali, oltre che su economia e finanza, quello che conversa con il Foglio all'indomani del vertice per il salvataggio della Grecia.
Non guarda con eccessiva preoccupazione al futuro dell'euro, pensa che sul rischio dei debiti sovrani in Europa ci si autoflagelli troppo e per l'Italia consiglia una revisione della corporate governance aziendale per non scimmiottare modelli altrui, come quello anglosassone. E' un Paolo Scaroni concentrato sulle regole del gioco aziendali, oltre che su economia e finanza, quello che conversa con il Foglio all'indomani del vertice per il salvataggio della Grecia.
Declino dell'euro? Crollo della moneta unica? “Guardiamo i numeri – dice l'amministratore delegato di Eni – l'euro quando è nato valeva 1,16 contro il dollaro, adesso vale 1,42 circa. Dov'è la debolezza della moneta?”. Le turbolenze sui mercati, comunque, sono dovute dall'allargamento del rischio sui debiti pubblici elevati negli stati europei: “Certo. Ma siamo proprio sicuri che l'Europa stia peggio degli Stati Uniti? Vediamo qualche numero essenziale. Il debito del settore pubblico allargato in America si attesta sul 100 per cento in rapporto al pil, per non parlare del Giappone che veleggia sul 200 per cento, mentre nell'Eurozona è intorno all'85 per cento”. Ma l'Europa cresce meno degli Stati Uniti e quindi avrà più difficoltà ad alleviare il peso del debito pubblico: “Nessuno nega che in Europa ci siano squilibri macroeconomici e che ci sia bisogno che l'economia cresca a tassi più elevati, ma a me sembra che tendiamo più ad autoflagellarci che a guardare i numeri reali”. Quindi è fiducioso sulla tenuta dell'Europa? “Sì sono fiducioso. Sono i dati che mi inducono a esserlo”.
Scaroni ha illustrato in questi giorni alla comunità finanziaria alcune proposte per modificare, con autoregolamentazioni o innovazioni legislative, la corporate governance, ovvero quell'insieme di norme che regolano e governano il rapporto tra management, consiglio di amministrazione, gli azionisti e tutti gli altri stakeholder. A breve, infatti, l'Italia dovrà contribuire allo schema in consultazione elaborato dalla Commissione europea proprio su questo tema. Perché vi interessate alla faccenda? “Il tema è complesso ma mi sento, anche sulla base di esperienze vissute in altri gruppi internazionali, di dare un contributo al dibattito – risponde Scaroni, che è anche vicepresidente del London Stock Exchange – Il lavoro mi ha portato, negli anni, a contatto con molti modelli di corporate governance. Il modello inglese, quello tedesco, olandese, francese e, naturalmente, quello italiano”. E qual è il miglior modello? “Il sistema di governance italiano ha molti pregi, ma anche qualche difetto, che ci viene da un peccato originale: abbiamo pescato a piene mani dal modello di governance anglosassone, o forse dovrei dire inglese, che però è stato concepito per governare public company, società dove esiste una netta separazione tra la proprietà, diffusa e soprattutto non stabile, e la gestione, in mano a manager professionisti, senza la presenza di azionisti in consiglio di amministrazione e, tanto meno, tra gli amministratori esecutivi. Ma noi, in Italia, non abbiamo public company, o quasi”. Il risultato è che “sul controllo abbiamo sovrapposto una struttura anglosassone a una preesistente struttura made in Italy”. In sostanza, l'Italia ha introdotto nuovi organismi, senza coordinarli con l'assetto esistente. Scaroni ricorre a un esempio: “Ci siamo dotati di un comitato di controllo interno, l'equivalente dell'audit committee inglese, senza tener conto dell'esistenza del collegio sindacale, nato in Italia con finalità molto simili e che in Inghilterra non esiste”. Questi innesti da ordinamenti diversi, secondo l'ad dell'Eni, “ci hanno portato a un'architettura di controllo un po' barocca”.
Gli inglesi – ha affermato di recente Scaroni nel corso dell'assemblea annuale della Consob – dicono che un cammello è un cavallo disegnato da un comitato: “Per questo dico che il nostro sistema di controllo è un po' un cammello: funziona, ma forse ha qualche gobba in più del necessario”.
L'altro tema su cui si concentrano le proposte del gruppo energetico è quello della gestione. Il board, il consiglio di amministrazione inglese, nato in un mondo di public company, può decidere di mandare a caso il ceo, il capo azienda, quando vuole, se giudica che la gestione non è soddisfacente. “Con questo potere – spiega Scaroni – il board di una società inglese si sente pienamente responsabile dei risultati dell'azienda: se la gestione non porta i risultati desiderati, anche la reputazione dei componenti del board ne risulterà compromessa”. In teoria anche il cda di un'azienda italiana ha il potere di mandare a casa il capo azienda: “Ma in pratica – chiosa Scaroni – questa decisione spetta all'azionista di riferimento, che è spesso lui il capo azienda. Questa impotenza sostanziale del cda non dovrebbe però portarlo ad abdicare al suo ruolo di indirizzo strategico e dedicarsi anche lui al controllo, aggiungendosi al comitato di controllo interno, al collegio sindacale e così via”.
Per Scaroni, in altri termini, il cda fa molto controllo e poca strategia. Quindi occorre rafforzare il contributo strategico del consiglio: “Abbiamo ripensato ai requisiti richiesti dagli amministratori, perché nei cda italiani ci sono pochi manager, abituati al governo di organizzazioni complesse, e molti liberi professionisti, che nella loro attività non governano strutture organizzative”.
Scaroni mostra a questo punto una tabellina chiarificatrice: oltre il 50 per cento dei componenti dei board delle società italiane è costituito da professori e professionisti, contro percentuali ben più basse della Francia (25 per cento), Spagna (30 per cento), Inghilterra (25 per cento) e Stati Uniti (20 per cento). L'amministratore delegato dell'Eni non riesce a trovare una spiegazione a quella che considera, però, un'anomalia: “E' opportuno che nei cda ci siano manager perché sono abituati a far fare, mentre i professionisti sono abituati a fare”.
Un altro cruccio di Scaroni è quello di assicurare la continuità della governance: “Il nostro è forse l'unico paese in cui, solitamente, il consiglio scade tutto assieme, e ciò causa qualche problema. Per fare un esempio, subito dopo il rinnovo del cda i comitati, ovvero i comitati del consiglio, così importanti per l'azienda, impiegano mesi per entrare nel vivo della loro operatività, per poi rallentare vistosamente a fine mandato. Col risultato che, di fatto, ci priviamo per quasi un anno su tre della piena operatività dei comitati del cda. Arriviamo poi al paradosso, e questo l'ho vissuto personalmente facendo parte del comitato remunerazioni delle Assicurazioni Generali, che talvolta i vertici aziendali, già nominati o indicati dall'assemblea degli azionisti, non possono conoscere il proprio compenso fin quando il comitato remunerazioni non diventi operativo. Per cui l'assemblea dei soci nomina un presidente che non sa quanto guadagnerà”.
Per trovare una soluzione, secondo Scaroni, “si può recepire dall'esperienza estera la prassi dello staggering board, ovvero differenziare la scadenza dei consiglieri, mantenendo così il consiglio e i suoi comitati sempre in piena operatività”.
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