Lo Scorsese dei tempi migliori lo si ritrova sul boardwalk di Atlantic City
Un uomo che potrebbe essere uscito da un quadro di Magritte cammina verso il mare. Le scarpe bicolori con i buchetti affondano nella sabbia bagnata. Una romantica bottiglia – potrebbe contenere un messaggio, chi lo sa? – galleggia sulle onde. Molte bottiglie, non più così romantiche, si avvicinano a riva, qualcuna va in frantumi contro i pilastri del molo. Ora riusciamo a leggere l'etichetta: “Canadian Whiskey”. Intanto abbiamo scorto, della sagoma magrittiana, qualche dettaglio: il portasigarette d'oro con le senza filtro da picchiettare prima di accenderle, il garofano rosso all'occhiello, lo spillone che chiude il colletto candido della camicia color pastello.
Un uomo che potrebbe essere uscito da un quadro di Magritte cammina verso il mare. Le scarpe bicolori con i buchetti affondano nella sabbia bagnata. Una romantica bottiglia – potrebbe contenere un messaggio, chi lo sa? – galleggia sulle onde. Molte bottiglie, non più così romantiche, si avvicinano a riva, qualcuna va in frantumi contro i pilastri del molo. Ora riusciamo a leggere l'etichetta: “Canadian Whiskey”. Intanto abbiamo scorto, della sagoma magrittiana, qualche dettaglio: il portasigarette d'oro con le senza filtro da picchiettare prima di accenderle, il garofano rosso all'occhiello, lo spillone che chiude il colletto candido della camicia color pastello (e gonfia la cravatta prima che il panciotto la imprigioni), la faccia scheletrica e i capelli impomatati di Steve Buscemi che gira le spalle al mare e si avvia verso le luci di Atlantic City, così com'era nel 1920.
Non serve il nome di Martin Scorsese per far da traino a “Boardwalk Empire”: bastano i titoli di testa: era dai tempi di Saul Bass che non se ne vedevano di simili. Non serve sapere che la serie targata HBO ha un budget stratosferico stimato dalla concorrenza in 65 milioni di dollari, 18 per il solo episodio pilota, diretto da Scorsese che della serie è produttore esecutivo. Non serve sapere che dietro la serie c'è Terence Winter, sceneggiatore dei “Soprano” e vincitore di quattro Emmy. Siamo in trepida attesa, incapaci di staccare gli occhi dalle promesse che la squadra di sceneggiatori, registi, scenografi e costumisti ha ficcato nella sigla. Promesse mantenute appena un paio di gangster scaricano clandestinamente casse di whiskey sussurrando “Liquid gold!”. Appena Steve Buscemi si presenta al raduno delle dame che inneggiano alla temperanza e festeggiano l'avvento del proibizionismo con parole di fuoco contro l'alcool che rovina le famiglie. Cappellini e velette, abitini castigati, accanto al podio dell'oratrice uno striscione: “Lips that touch liquor never touch mine”. Allo spettatore viene voglia di indugiare su ogni faccia arcigna e su ogni naso sgraziato. Ma il bravissimo Scorsese le inquadra quel tanto che basta per suggerire senza sottolineare. I soldi spesi si vedono, la ricchezza di mezzi non viene ostentata, gli ascolti record della prima puntata (quasi cinque milioni di spettatori) hanno immediatamente fatto compilare i contratti per la seconda stagione. Il chilometro di passeggiata a mare, ricostruita da zero in base alle cartoline dell'epoca (quella vera, lunga cinque, era inutilizzabile da quando la città è diventata la seconda capitale americana del gioco d'azzardo), tornerà di nuovo utile.
Per una dispettosa coincidenza, abbiamo gustato “Boardwalk Empire” (la puntata pilota e soltanto quella era al Festival di Roma, la serie andrà in onda su Sky dal prossimo gennaio, per il resto vale l'arte di arrangiarsi) proprio mentre Mario Martone lamentava lo scarso numero di sale, una trentina appena, dedicate al colossal risorgimentale “Noi credevamo”. La sceneggiatura scritta con Giancarlo De Cataldo esce da Bompiani, siamo andati a compulsarla. Per vedere cosa succede nei primi cinque minuti, caso mai la memoria tradisse (dal festival di Venezia, dove il film era in gara, ricordiamo soprattutto trucco, parrucco, luci sopra la media nazionale, nulla che intrigasse davvero quanto a personaggi e trama). Per constatare se il regista e lo sceneggiatore abbiano o no fatto tesoro della compiacenza, sconfinante nella debolezza, che lo spettatore concede a chiunque appena le luci in sala si spengono. Abbiamo saltato le pagine dove gli intenti vengono dichiarati, i lettori indottrinati, i finanziatori ringraziati, per leggere subito il “Prologo”. Una presentazione dei tre non eroi risorgimentali Domenico, Angelo e Saverio – siamo ancora al brechtiano “beato il paese che non ha bisogno di eroi” – fatta apposta per indurre allo sbadiglio. E possiamo garantire che abbiamo passato l'età in cui “si guardano solo commedie”. Bisogna aggiungere: “di produzione italiana”. “Inception” di Christopher Nolan una commedia non era, il pubblico under 30 ha fatto la fila.
Abbiamo messo a confronto “Come eravamo” con “Boardwalk Empire”, quindi con la tv da grandi ascolti e immediate ricadute nella cultura pop che un regista come Martone guarda con il sopracciglio alzato (piena confessione: noi non riusciamo a riprenderci, dopo anni, dalla lentissima “Morte di un matematico napoletano”: schivato al cinema, visto in tv giacché tutti lo vantavano, credevamo che l'apparecchio si fosse incantato sulla scena in sala d'attesa alla stazione). Non con “The Social Network” di David Fincher, i primi cinque minuti più strepitosi nella storia del cinema recente (siccome lo spunto viene da un libro intitolato “The Accidental Billionaire”, miliardario per caso, che abbiamo letto e non spicca per brillantezza, la nostra ammirazione per Aaron Sorkin va oltre le stelle). Abbiamo fatto il confronto tra un film che dovrebbe per contratto regalare qualche scena di massa – se non si vede neanche un Garibaldi e qualcuno dei Mille, che razza di film risorgimentale stiamo guardando? – e un prodotto televisivo che le scene di massa potrebbe anche non averle, limitandosi ai primi piani, e invece ne sfoggia di splendide, girate in piano sequenza, tra centinaia di comparse in lustrini e i pastrani d'epoca, con un'accuratezza da classico del cinema.
Le zitelle festeggiano il proibizionismo, e così – per altri motivi – lo festeggia Enoch Thompson detto Nucky, il tesoriere della contea che ha appena raccontato alle caritatevoli dame una storiella tragica su certi topi mangiati da una famiglia per sopravvivere. Applausi e colpo di scena: “quel bambino sono io, mio padre si beveva la paga”. Dietro le quinte perfino il reduce della prima guerra mondiale si stupisce (“abbiamo divorato cani in trincea, ma topi mai”) e riceve la lezione politica numero uno: “mai lasciare che la verità rovini una bella storia”. Smessa la maschera, Nucky Thompson garantisce ai suoi che Atlantic City resterà “bagnata come la fica di una sirena”.
La sera prima che il proibizionismo entri in vigore, si fanno i funerali a John Barleycorn: questo il nome sulla bottiglia trascinata sul carretto a mo' di bara, lo stesso che appare sulla copertina del libro dove Jack London raccontò i suoi trascorsi da ubriacone. “Memorie alcoliche” scritte dopo una discussione sul voto alle donne con la moglie Charmian. Lo scrittore spiega di aver votato sì, pur essendo stato da giovane un ardente democratico e nello stesso tempo un feroce avversario del suffragio femminile. “Dai la scheda alle donne, e loro voteranno per il proibizionismo. Saranno le mogli, le sorelle, le madri e loro soltanto a piantare i chiodi nella bara di John Barleycorn”. Dopo esssersi bevuto qualsiasi cosa (e dire che l'alcool neppure gli piaceva, ma a furia di ingollarne erano diventati amici) nella fase del pentimento tutto serve alla ritrovata sobrietà. “Boardwalk Empire” non si lascia sfuggire la questione, con un'appassionata arringa di Margaret Schroeder (irlandese, quindi già votante) ambientata in un cabaret. Dove è andata a consegnare una mise di strass, perle e pochissima stoffa per la signorina che di mestiere sbuca dalle torte di compleanno.
La bottiglia gigante esce da un lato dello schermo tv, dall'altra entra una carrozzina da neonato piena di bottiglie: la gente fa gli ultimi rifornimenti, quel che ora costa pochi centesimi presto costerà svariati dollari. Martin Scorsese organizza un piano sequenza fantastico, che dal lungomare di Atlantic City inquadra gli imbonitori da fiera che promettono lo Spettacolo Ottentotto (vietato ai minori, di mezzo ci devono assere africane dalle chiappe gigantesche, ma di nuovo Scorsese suggerisce e passa ad altro) e l'entrata dei club eleganti: al piano di sotto orchesrta e ballerini, al piano di sopra le riunioni segrete tra Nucky Thompson, suo fratello Elias sceriffo della città, gli altri soci in affari. Lo guardiamo e riguardiamo, cercando di capire come mai “Shutter Island” fosse così artefatto e poco emozionante, mentre qui ritroviamo lo Scorsese dei tempi migliori, da “Casino” a “Quei bravi ragazzi” (con un occhio a “Cotton Club” di Francis Ford Coppola). Cercando di capire come mai il regista andato fuori strada con “Gangs of New York” sia tornato in carreggiata con le gang di Atlantic City (all'origine del primo c'era un romanzo di Herbert Asbury, all'origine del secondo un libro di Nelson Johnson intitolato “Boardwalk Empire: The Birth, High Times, Corruption of Atlantic City”). Possiamo solo fare ipotesi, sui vincoli che la committenza sanamente impone. O ricordare che gli spettatori della tv, appssionati ai “Soprano” senza bisogno di aiutini e ricattini da grandi nomi, abbiano imposto uno standard sotto il quale non si scende, pena il calo degli ascolti.
“It's not tv, it's HBO” diceva lo slogan della tv via cavo che con “I Soprano” ha avviato il nuovo corso. “It's not TV, and it's not really HBO. It's an event, not to be missed” scrive di “Boardwalk Empire” Paige Wiser, critico televisivo del Chicago Sun-Times. Uno dei molti entusiasti della serie (l'aggregatore di recensioni Metacritic assegna un punteggio di 88 punti su cento, su una quarantina di critici uno solo avanza riserve, quel giorno si era svegliato con la luna di traverso) che sembra retrodatare al 1920 la lezione dei “Soprano”. Molti personaggi, e ne basterebbero un paio per far morire d'invidia tanti romanzieri che conosciamo. Belle trame intricate ma non artificiose (gli sceneggiatori sembrano ignorare la coincidenza, che porta i personaggi a incontrarsi solo perché la trama lo richiede, e pazienza se finiscono per farlo in un luogo che nessuno dei due frequenterebbe mai). Dialoghi scritti con la massima cura e quindi perfettamente naturali. Il contrario di quel che capita in “Noi credevamo”, dove Martone invoca la lezione rosselliniana per giustificare il fatto che Giuseppe Mazzini e la contessa di Belgiojoso parlano come libri stampati: “I dialoghi di Mazzini, nel film, derivano fedelmente dai suoi scritti. Parlano con un'evidenza molto superiore a qualunque tentativo di sceneggiare che noi possiamo immaginare” (sintassi dell'autore, abbiamo resitito alla tentazione di un piccolo editing). Parleranno agli storici, forse. Non allo spettatore, che dopo un po' ha l'impressione di un diorama didattico, o di un quadro vivente e parlante, certo non di un film. Va detto che sul Risorgimento sono cascati in tanti, a cominciare da Antonio Scurati che scelse come sfondo per la sua “Storia romantica” le Cinque Giornate di Milano. L'esperienza (cinematografica e televisiva) insegna che gli italiani, appena si entusiasmano per qualcosa, suonano falsi e retorici. Riescono meglio le piovre e i romanzi criminali, l'equivalente nostrano del western.
Nucky Thompson comincia come gangster a tempo parziale. Ma è evidente che non ce la farà: nella prima puntata compare il giovane Al Capone, nella seconda viene assassinato a Chicago il gangster Colosimo, nella terza e successive compaiono Lucky Luciano e Arnold Rothstein, il boss della mafia ebraica. Gli affari si globalizzano, uscendo da Atlantic City per approdare a Chicago e New York, ogni minoranza fa la sua parte: ai duetti tra il pallido Steve Buscemi e il nero Michael K. Williams (nella finzione si chiama Chalky White) scatta l'applauso. Cambiano i registi - scelti tra i migliori in circolazione, quasi tutti con esperienze nel cinema - ma restano fedeli alle direttive di Martin Scorsese, che oltre a seguire il casting ha impostato il lavoro degli scenografi e dei costumisti (rinunciando a Dante Ferretti, non se ne sente la mancanza). Gli attori – che una volta nelle serie tv erano arruolati tra i perfetti sconosciuti, e azzecato un personaggio faticavano a liberarsene – sono tra le facce emergenti di Hollywood. Se ancora non riuscite ad accoppiare i nomi alle facce, è il momento per impararli. Con un avvertenza: Michael Stuhlbarg, il “serious man” nel film dei fratelli Coen, nei panni del dandy Arnold Rothstein che dal barbiere si lamenta perché lo accusano di avere truccato le World Series, è irriconoscibile. A Steve Buscemi, per la prima volta protagonista, fa da braccio destro il reduce di guerra Jimmy Darmody: è Michael Pitt, che a fianco dell'insulso Louis Garrell girò “The Dreamers” di Bertolucci. Michael Shannon, il vicino matto di “Revolutionary Road” è il poliziotto che cerca di sgominare la banda,
Inteso come libro, “Boardwalk Empire” racconta un centinaio d'anni, da quando Atlantic City era solo una palude infestata di zanzare fino ai giorni nostri (in mezzo ci sono le vie del Monopoly edizione americana e il film diretto da Louis Malle nel 1980, quando gli edifici sulla passeggiata a mare furono abbattuti per far posto ai casinò di Donald Trump). Martin Scorsese era già interessato alla storia quando i dirigenti della HBO – in cerca di qualcosa per sostituire “I Soprano” - diedero una copia del libro a Terence Winter dicendogli brutalmente: “Find a series in here”. Winter andò per esclusione: gli anni 70 erano ancora troppo simili ai Soprano, gli anni 50 avrebbero finito per raccontare la storia del papà di Tony. Gli anni 20 erano perfetti: abbastanza vicini a noi – la gente viaggiava in treno, andava al cinema, ascoltava la radio, parlava al telefono – e abbastanza ruggenti. I soldati erano tornati dalla guerra, Wall Street stava esplodendo e nessuno immaginava che sarebbe potuta crollare, c'era una gran voglia di divertirsi (alla festa del suo compleanno, Nucky si raccomanda: “fa' che tutti abbiano una ragazza”, a spese sue naturlmente), se serviva l'oppio c'erano le fumerie di Chinatown. Alla lezione dei “Soprano” si aggiunge quella di “Mad Men”, che non dimenticano le cronache e i libri di storia: finiti i tempi in cui le serie tv vivacchiavano in un tempo vago, dove nessuno invecchiava e nessuno leggeva i giornali. A occhio, constatata la complessità delle storie avviate in questa prima stagione (comprensivi di Klu Klux Klan e di festa per San Patrizio con nani in costume da leprecauni), “Boardwalk Empire” potrebbe andare avanti per anni. “Sento che qualcosa sta finendo”, dice Toni Soprano alla dottoressa Melfi. Giusto: sta finendo l'epoca cominciata sul boardwalk di Atlantic City.
Il Foglio sportivo - in corpore sano