Venezia promette bene, ma il film di Clooney ci fa quasi vergognare
Apre George Clooney, il regista più ideologico e mediaticamente esposto: “The Ides of March” – dal dramma di Beau Willimon che nel 2004 lavorò alla campagna elettorale di Howard Dean – racconta un giovane idealista che perde l'innocenza appena guarda dietro le quinte. Fa perfino vergogna riassumere la trama (ma 'sti giovanotti dove vivono prima di buttarsi in politica, al cinema non vanno proprio mai?), e siamo certi che il talento registico di George non basta per rimediare.
Apre George Clooney, il regista più ideologico e mediaticamente esposto: “The Ides of March” – dal dramma di Beau Willimon che nel 2004 lavorò alla campagna elettorale di Howard Dean – racconta un giovane idealista che perde l'innocenza appena guarda dietro le quinte. Fa perfino vergogna riassumere la trama (ma 'sti giovanotti dove vivono prima di buttarsi in politica, al cinema non vanno proprio mai?), e siamo certi che il talento registico di George non basta per rimediare.
Chiude Whit Stillman, regista defilato che non si sogna di far proclami (“The Last Days of Disco” era il titolo del suo ultimo film con Chloë Sevigny, datato 1998) o di mettere in scena personaggi portatori di messaggio: “Damsel in Distress”, con la biondina del cinema indipendente Greta Gerwig, racconta ragazze che parlano d'amore e mai si sognerebbero di manifestare al grido di “se non ora, quando?”.
Il resto del programma, sulla carta e limitandoci al concorso principale e al fuori concorso (segnaliamo però in Orizzonti “O le tulafale”, il film di Tusi Tamasese girato a Samoa, il direttore ci tiene e stavolta non potrà sgridare i giornalisti che rincorrono solo Madonna), promette bene. Con una decisa tendenza verso gli adattamenti romanzeschi o i personaggi storici. Andrea Arnold, che finora aveva perlustrato le periferie britanniche, è in gara con “Cime tempestose”, dal romanzo di Emily Brontë. Madonna, al suo secondo film dopo il ben riuscito “Filth and Wisdom” (distribuito dalla morettiana Sacher), racconta in “W.E.” la passione di Edoardo VIII per la divorziata – e qualcosa di più, a sentire le malelingue – Wallis Simpson (pensatelo come un prequel del “Discorso del re”). Tomas Alfredson di “Lasciami entrare” sceglie John le Carré: “Tinker, Tailor, Soldier, Spy”, con Colin Firth.
Al Pacino fa un corpo a corpo con “Salomé” di Oscar Wilde: molestandola parecchio, da quel che abbiamo potuto vedere qualche anno fa a Roma. Roman Polanski in “Carnage” (con Kate Winslet, Christoph Waltz, Jodie Foster, John C. Reilly) adatta “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza: i figli litigano a scuola, i genitori continuano a casa, in tempo reale. Marjane Satrapi adatta con Vincent Paronnaud il suo fumetto “Pollo alle prugne”, scritturando Isabella Rossellini. David Cronenberg in “A dangerous Method” racconta Jung, Freud e l'immancabile Sabina Spielrein. Alexander Sokurov rifà il “Faust” di Goethe (ora, per favore, qualcuno chiuda a chiave biblioteche e archivi).
La pattuglia italiana in gara conta tre film (buona notizia, non sono quattro): Cristina Comencini con “Quando la notte”, tratto dal suo romanzo medesimo; Emanuele Crialese con “Terraferma”, altra storia siciliana; Gian Alfonso Pacinotti in arte Gipi – ben noto ai francesi che onorano le graphic novel e ai cultori italiani del fumetto – con “L'ultimo terrestre”. La fantascienza dilaga con “Contagion” di Steven Soderbergh, le vampire di Mary Harron (“The Moth Diaries”), “4.44 Last Day On Earth” di Abel Ferrara. “Killer Joe” di William Friedkin è invece un noir, sospiro di sollievo.
Occhi puntati – per quanto ci riguarda – sull'israeliano Eran Kolirin (ricordate la banda egiziana nel deserto d'Israele?), l'americano Todd Solondz, il greco Yorgos Lanthimos. Oltre al talento registico, sono sempre originali. Solondz promette con “Dark Horse” un film divertente e non controverso. Lanthimos, dopo lo stupefacente “Dogtooth”, immagina in “Alpeis” controfigure somiglianti nelle fattezze e nei gesti ai cari estinti.
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