La coscienza delle scimmie

Mariarosa Mancuso

Dio. Morte. Vergogna. Senso di colpa. Sono le quattro tappe evolutive che fanno urlare di dolore lo scimpanzé Bobo. Fino a un attimo prima si spulciava tranquillo nello zoo del Bronx. Un attimo dopo soffre i tormenti della coscienza. Guarda gli scimpanzé compagni di dorata prigionia (tutti sotto psicofarmaci, uno anche sotto Viagra, per non essere da meno degli svogliati panda che godono di filmetti porno) e non li trova di suo gusto.

    Dio. Morte. Vergogna. Senso di colpa. Sono le quattro tappe evolutive che fanno urlare di dolore lo scimpanzé Bobo. Fino a un attimo prima si spulciava tranquillo nello zoo del Bronx. Un attimo dopo soffre i tormenti della coscienza. Guarda gli scimpanzé compagni di dorata prigionia (tutti sotto psicofarmaci, uno anche sotto Viagra, per non essere da meno degli svogliati panda che godono di filmetti porno) e non li trova di suo gusto: “Dov'è la nostra dignità? Dov'è il nostro orgoglio? Dove sono le nostre mutande?”. Accade in un racconto di Shalom Auslander (nella raccolta “A Dio spiacendo”, Guanda), scrittore con piglio da teppista cresciuto a Monsey, cittadina americana di quindicimila abitanti e oltre un centinaio di sinagoghe. Sul sito tiene l'immagine di una cella imbottita da manicomio, quelle che fan coppia con la camicia di forza. Quando gli abbiamo chiesto perché, non si è scomposto: “Fin da piccolo sognavo di abitare in una cella imbottita”.

    La velocità con cui lo scimpanzé Bobo acquista coscienza umana è pari solo a quella con cui il Charles Luger, perfetto Wasp fino a un momento prima, mentre viaggia in taxi viene posseduto da un'anima ebraica (accade in un racconto di Nathaniel Englander, “Il gilgul di Park Avenue”; la quarta tappa della scalata – senso di colpa – avrebbe dovuto suggerirvi qualcosa). L'anima fa anche un bel rumore: “Ping!”. Luger decide che è arrivato il momento di mettersi in pari con le proibizioni alimentari, guidato dal primo rabbino californiano scovato sull'elenco del telefono. Bobo, non trovando mutande, comincia a dipingere quadri con la sua cacca. Prima una mela, poi una rotaia, poi lo zucchero filato (il genio dello scrittore si vede nei dettagli, tre parole bastano per evocare le nature morte di Cezanne, il realismo socialista, perfino gli acquarelli di William Turner). Poi spicca un altro passo, ed è subito pittura di denuncia. “Autoritratto” condanna il razzismo, si suppone degli umani che lanciano noccioline e non colori a olio o pallottolieri. “Vita nella Casa delle Scimmie” attacca le multinazionali e il potere politico (così dicono i guardiani che vendono i dipinti a caro prezzo). Meno pretese aveva la scimmia che al parigino Jardin des Plantes fece scattare nella testa di Vladimir Nabokov la scintilla di “Lolita” (era il 1939). Dopo mesi di blandizie da parte di uno scienziato, l'animale finalmente tracciò un disegno a carboncino: le sbarre della gabbia che lo tenevano prigioniero. Che c'entra con la ninfetta? Tutto, visto che il romanzo racconta un'ossessione amorosa. Per la cronaca, anche la più longeva Cheeta di “Io Tarzan tu Jane” – una delle tante che recitarono la parte, l'unica a continuare la carriera – si è data alla pittura. E a 76 anni, dopo aver smesso di bere e di fumare grazie a un custode salutista, ha scritto con l'aiuto di un ghostwriter la sua autobiografia “Me, Cheeta”.

    Le scimmie vengono in mente perché siamo circondati. L'11 agosto uscirà nelle sale americane “L'alba del pianeta delle scimmie”: ultimo (per ora) titolo della saga iniziata nel 1968 con “Il pianeta delle scimmie” di Franklin Schaffner, tratto da un romanzo di Pierre Boulle, lo scrittore francese a cui dobbiamo anche “Il ponte sul fiume Kwai”. In libreria campeggia “L'evoluzione di Bruno Littlemore”, scritto da Benjamin Hale e segnalato dal New Yorker come “le confessioni di un immigrato di prima generazione nella specie umana” (Ponte alle Grazie). Bompiani ha appena pubblicato “La casa delle scimmie” di Sarah Gruen, scrittrice di melodrammi animalier che abbiamo conosciuto con “Acqua agli elefanti” (il libro da Neri Pozza, il film in Dvd, se proprio avete la smania di vedere Reese Witherspoon in paillettes circensi).

    Andando un po' indietro troviamo “Grandi scimmie” di Will Self (Feltrinelli 1999). Dopo una notte di gozzoviglie, l'artista Simon Dykes si sveglia accanto a una ragazza-scimmia, e viene ricoverato in una cella imbottita al reparto psichiatrico – tutti scimpanzé in camice bianco. Scopo della cura: far scomparire la folle identificazione con gli uomini, che non parlano, non scrivono e servono solo per sperimentare i nuovi farmaci. Meridiano Zero ha tra le novità “Il vangelo della scimmia”, scritto da Christopher Wilson negli anni di Margaret Thatcher e ambientato cento anni prima sull'isola inglese di Iffe: così separata dal mondo che quando arriva la scimmia Maria la scambiano per un francese dai modi eccentrici (bisogna tenere presente che l'intellettuale del villaggio vanta la lettura di cinque libri in tutto). L'8 luglio scorso è uscito nelle sale americane il documentario di James Marsh intitolato “Project Nim”, dal nome dell'esperimento che sottrasse a mamma scimpanzé un cucciolo da allevare tra gli umani, educato in tutto e per tutto come un bambino. La bestiola fu battezzata Nim Chimpsky: ogni riferimento al linguista Noam Chomsky, sostenitore della teoria secondo cui il linguaggio è innato negli umani, è intenzionale.

    James Marsh aveva vinto l'Oscar per il documentario con “Man on Wire”, dedicato al funambolo Philippe Petit che il 7 agosto del 1974 tirò un cavo d'acciaio tra le Torri gemelle e si fece una passeggiatina a 400 metri d'altezza. L'impresa era eccezionale, il documentario pure. Era il 1973 quando lo scimpanzé Nim fu affidato alle amorevoli cure del professor Herbert Terrace, psicologo comportamentista tuttora in attività. Lo studioso (si fa per dire) sistemò lo scimmiottino in casa della sua ex studentessa ed ex amante Stephanie LaFarge, mamma hippie di sette figli che viveva con un poeta ricco di suo in una brownstone dell'Upper West Side. Nim sperimentò i pannolini, fu rivestito con magliette a righe e calzoncini (no, non fece in tempo a chiedere “dove sono le mie mutande?”, gliele imposero i genitori adottivi, libertari ma fino a un certo punto). Fu allattato al seno dalla madre surrogata, addestrato con scarso successo all'uso del vasino,  iniziato agli spinelli e all'alcol (“se no si sarebbe sentito escluso”, spiega la scellerata nel documentario, e l'intervista è recente). A dispetto di tutto, Nim imparò 125 parole del linguaggio americano dei segni, risultato notevole date le molte distrazioni (gli scienziati però non sanno decidersi: imitava semplicemente gli umani, oppure era vero linguaggio?). Interrogata sulla strana vita familiare, una delle sorellastre umane di Nim sa solo aggiungere: “Erano gli anni Settanta”. Nim ebbe altre matrigne, sempre scelte dal professor Terrace nel suo harem di studentesse. Intanto cresceva, diventando sempre più aggressivo e ingombrante, ma senza fare altri progressi nell'arte della conversazione (comunque fin da piccolo aveva un caratteraccio: al patrigno poeta distrusse parecchi libri). Quaranta anni dopo, Sarah Gruen dedica a Nim la sua “Casa delle Scimmie”, mettendo in apertura di romanzo un virgolettato dello scimpanzé – “Give orange give me eat orange me eat orange” – accanto a un virgolettato di Britney Spears: “Gimme gimme more, gimme more”. Chi ha la pazienza di arrivare in fondo al libro (ce ne vuole) scopre che gli scienziati buoni danno ai bonobo i pennarelli per disegnare, e i cattivi capitalisti usano le scimmie per un reality show: “59 telecamere! 6 scimmie! Un computer e credito illimitato! Sesso, sesso e ancora sesso!” (i bonobo sono noti per i loro comportamenti mandrilleschi). 

    Nel libro che ha suggerito l'idea del documentario – montato da James Marsh con la stessa tecnica usata per “Man on Wire”: interviste condotte benissimo, uso dei materiali d'archivio quando ci sono, e in mancanza ricostruzioni con attori, tanto ben fatte che non si nota la differenza – Elizabeth Hess rivela che prima di Nim c'era stato un altro scimpanzé di nome Bruno (“The Chimp That Would Be Human”, Bantam 2008). E proprio Bruno è il nome scelto da Benjamin Hale per la sua scimmia evoluta, che dal carcere detta le sue memorie. Come Humbert Humbert, che racconta la sua storia in un diario di prigionia, in attesa di processo per l'omicidio di Quilty, il commediografo che aveva aiutato Lolita a sfuggirgli (titolo “Confessioni di un maschio vedovo di razza bianca”). Carcere modello, dove lo scimpanzé Bruno dipinge, fa teatro, ancora si strugge d'amore per Lydia, la scienziata che lo ha conosciuto in laboratorio, ne ha sancito l'intelligenza superiore e quasi umana, lo ha invitato a vivere in casa sua (si davano molto da fare sotto le coperte prima di intraprendere viaggi esotici e vacanze intelligenti).

    Bruno Littlemore osserva gli esperimenti degli scienziati con un vago scetticismo. Ha conquistato la sua scienziata comportandosi in maniera irrazionale: questo secondo lui distingue gli esseri umani dagli animali. Lo scienziato mette una ghiottoneria nella scatola, batte tre colpetti sul coperchio e spinge la leva. La scatola si apre. I tre colpetti sono inutili, è la leva che fa scattare il meccanismo. Se ne accorgeranno prima le scimmie o i bambini? Se ne accorgono prima le scimmie, tranne Bruno, che come i cuccioli d'uomo resta fedele ai tre colpetti sulla scatola: il rituale è più importante del premio. “Costruiamo cerimonie con il nulla” è la parafrasi del padre in Cormac McCarthy, e se non temessimo di essere lapidate dalle femministe, aggiungeremmo “la parafrasi del maschio” (lo pensa anche McCarthy, infatti la madre del bambino si è già suicidata quando il romanzo comincia). 

    “Primo messaggio dal pianeta delle scimmie”, titolava un numero del New York Magazine che nel 1974 aveva Nim Chimpsky in copertina, fotografato nella sua espressione più buffa e con il maglioncino rosso che gli donava assai. “Il pianeta delle scimmie” era uscito nel 1968, con la sua sconsolante scena finale: là dove regnano le scimmie c'era New York, astuta mossa di Rod Serling, l'uomo che inventò la serie “Ai confini della realtà” (già con qualche borderline inquietante, verso i robot e verso i primati). Il romanzo di Pierre Boulle era letteralmente un manoscritto in una bottiglia, raccolto da Jinn e Phillys, velisti interspaziali. Li conosciamo appena, prima di leggere le memorie del navigatore Ulisse Mérou sul pianeta Soror. La trama è simile, in una città moderna (gli scrittori possono permetterselo, per i cineasti costava troppo cara quindi la società delle scimmie parlanti non ha grattacieli: meglio spendere i soldi per il trucco). Con un neonato della speranza, concepito sul pianeta e riportato sulla terra con un trucco. Ma l'autista che accoglie la famigliola umana all'aeroporto di Orly è un gorilla. “Una bella corbelleria” dice Jinn (nella traduzione di Luciano Tibiletti). “Uomini ragionevoli, dotati di saggezza e spirito… qui il narratore ha davvero passato la misura”, gli fa eco Phillys, che intanto – visto che stanno rientrando in porto – “si ravvivava con una rosea spolveratina l'adorabile musetto di giovane scimpanzé”. Colpiti e affondati, come nel racconto “La sentinella” di Fredric Brown: ci identifichiamo con il soldato che spara al mostro, poche righe dopo scopriamo che il mostro siamo noi. “Erano creature troppo schifose, con sole due sole braccia e due gambe, la pelle di un bianco nauseante e senza squame”.

    “L'alba del pianeta delle scimmie” non è un sequel ma un nuovo inizio, espediente collaudato per rianimare le saghe spompate. L'ultimo “Pianeta delle scimmie” diretto da Tim Burton era francamente bruttino, per la storia e per i trucchi. Le due cose vanno insieme: se hai una bella storia, basta un costume da scimmia come quello di “Una poltrona per due” (John Landis sarebbe in grado di dirvi tutto, sui gorilla impersonator di Hollywood: li ha studiati, e sa distinguerli uno dall'altro anche quando sono mascherati). Diretto da Rupert Wyatt, ha sul manifesto la frase “Evolution becomes revolution”, con uno scimmione a pugno chiuso somigliante a Che Guevara. Tutto comincia in un laboratorio dove lo scienziato James Franco prova la sua cura contro l'Alzheimer sullo scimpanzé Caesar (Andy Serkis, diventato celebre nel “Signore degli anelli” prestando le sue smorfie e i suoi saltelli a Gollum “tessoro”). La bestia diventa intelligente, così intelligente che spacca la gabbia, afferra il siero, lo inietta agli altri primati da esperimento e scatena la rivolta contro gli umani. Intanto la tv mostra la navicella Icarus con a bordo Charlton Heston che parte per lo spazio (segnalandoci che in diciotto mesi, se la rivoluzione continua, saremo sul Pianeta delle Scimmie vintage 1968).

    Con l'allegria che gli era propria, Franz Kafka simula il memoriale di un primate diventato uomo in “Relazione per un'accademia” (tra le “Cinque storie di animali” pubblicate da Donzelli). “Cinque anni mi separano dalla mia vita di scimmia”, attacca Peter il Rosso, che deve il soprannome a una cicatrice sulla guancia, ricordo di quando lo catturarono nella giungla come King Kong. Capisce che per ritrovare la libertà deve comportarsi come gli umani, quindi comincia a sputare, a fumare, a bere l'acquavite che gli fa schifo. Ad Amburgo, consegnato al primo domatore, afferra che davanti a lui ci sono o lo zoo o il varietà. Sceglie il secondo. E da lì arriva all'Accademia, non mostrando peraltro particolare soddisfazione per i risultati raggiunti.

    Non è particolarmente felice neppure il racconto “Riflessioni di un primate in cattività”. Eppure Ian McEwan l'ha scritto quando era bravo, ai tempi di “Tra le lenzuola” e “Il giardino di cemento”. Il primate che scrive, non sappiamo come e dove abbia imparato a farlo, abita con Sally Klee, romanziera che dopo il successo del primo libro fatica a scrivere il secondo. Prima della crisi, il quadrumane aveva ambizioni matrimoniali: “Sarei stato l'uomo di casa, mi sarei arrampicato sui tubi di scarico con innamorata facilità per andare a controllare le grondaie del tetto, mi sarei appeso ai lampadari per dipingere il soffitto”. Il resto è noiosa crisi da pagina bianca. (Il fatto che gli scrittori di nome falliscano là dove mestieranti con meno ambizione si fanno leggere volentieri, dovrebbe insegnarci qualcosa, sulla serie A e la serie B romanzesca).

    Volendo metterla sul ridere bisogna ripescare “Il più grande uomo scimmia del pleistocene” di Roy Lewis (Adelphi 1992, in originale “The Evolution Man”). L'ingegnoso Edward scopre il fuoco, qualcosa gli dice che sarà decisivo per gli anni a venire, ma deve vedersela con il retrogrado zio Vania, restio a scendere dagli alberi (in rapida successione, gli uomini scimmia impareranno freudianamente a uccidere il padre e levi-straussianamente a non accoppiarsi con le sorelle). Gli uomini del Fuoco e gli uomini degli Alberi – con in mezzo gli uomini delle Caverne, indecisi sul da farsi – erano già in “Before Adam” di Jack London, uscito a puntate tra il 1906 e 1907 sull'Everybody's Magazine. Curioso caso di due romanzi scritti a distanza di 80 anni e ambientati dirimpetto: di là dal fiume, aggrappati ai loro alberi, gli uomini scimmia di London vedono i fuochi. E annusano l'invitante odore del barbecue.