Il colpo d'ala sul debito americano diventa tempesta nei mercati europei

Stefano Cingolani

Il default americano è rinviato aumentando in due fasi il tetto al debito, per un ammontare di duemila e quattrocento miliardi di dollari. Lo spettro verrà evocato di nuovo, c'è da scommetterci, ma solo dopo le elezioni del novembre 2012. Le Borse hanno festeggiato brevemente in Asia e in Europa, poi sono tornate in rosso (Piazza Affari ha chiuso a meno 3,87 per cento). Più che al pericolo passato, guardano ai rischi futuri. Lo sciame di locuste torna su questa sponda dell'Atlantico e potrà ricominciare a far danni

    Il default americano è rinviato aumentando in due fasi il tetto al debito, per un ammontare di duemila e quattrocento miliardi di dollari. Lo spettro verrà evocato di nuovo, c'è da scommetterci, ma solo dopo le elezioni del novembre 2012. Le Borse hanno festeggiato brevemente in Asia e in Europa, poi sono tornate in rosso (Piazza Affari ha chiuso a meno 3,87 per cento).

    Più che al pericolo passato, guardano ai rischi futuri. Lo sciame di locuste torna su questa sponda dell'Atlantico e potrà ricominciare a far danni perché pende ancora come una spada di Damocle la bancarotta della Grecia. E' vero, è stato deciso un nuovo salvataggio di Atene, ma a complicare il tutto ci sono le tensioni scoppiate sulla Spagna e sull'Italia, con tassi sui titoli a dieci anni schizzati al sei per cento a Madrid e a Roma (la differenza con il Bund tedesco è al record di 351 punti base). Il Tesoro italiano ha persino deciso di rinviare le emissioni di Btp ad agosto per evitare tensioni in un mese tradizionalmente ad alto rischio. E la destabilizzazione dei mercati sarà senza dubbio all'ordine del giorno nell'incontro con le parti sociali giovedì, mentre molti si attendono che l'intervento di Silvio Berlusconi domani in Parlamento serva almeno da aspirina.

    Certo, la bancarotta di Washington avrebbe innescato un'altra catastrofe finanziaria, che è stata evitata. Tuttavia, c'è poco da star tranquilli. Le Borse lo sanno e si muovono di conseguenza. Dopo una breve impennata mattutina sono scese nettamente, con Milano e Madrid sotto di oltre il tre per cento. La svolta negativa è stata innescata a Wall Street dall'indice sulla produzione manifatturiera americana di luglio, sceso più del previsto (50,9 punti invece di 55). Scontato l'accordo sul debt ceiling, l'attenzione dei mercati torna sulla crescita, il grande punto debole. La soluzione trovata a Washington non accontenta nessuno. Obama si salva per il rotto della cuffia, ma deve rinunciare alle tasse sui ricchi. Paul Krugman la considera una resa e così la pensa l'ala sinistra dei democratici. Quanto all'ala destra dei repubblicani, quella sostenuta dal movimento dei Tea Party, ritiene che i tagli non vadano abbastanza in profondità. E non ha torto. L'impegno più concreto riguarda una riduzione della spesa pari a 917 miliardi in dieci anni, invece debbono essere ancora individuati risparmi per 1.500 miliardi. Il tutto è demandato a un supercomitato bipartisan del Congresso, escamotage che non piace né all'Amministrazione né ai suoi oppositori.

    La politica fiscale degli Stati Uniti resta ingessata, con un limite legale alla spesa pubblica e una impossibilità politica di aumentare le imposte. Mentre il rischio di una nuova recessione farebbe salire di nuovo il debito in modo automatico. La via maestra per ridurlo, si sa, è lo sviluppo. Ma è proprio questo che manca. Tutti i fondamentali dell'economia americana sono squilibrati: il prodotto lordo nell'ultimo trimestre è cresciuto meno del due per cento, la disoccupazione resta oltre il 9, la bilancia corrente con l'estero presenta un deficit di 3,3 punti rispetto al pil, il disavanzo pubblico è al 9,1 per cento. Dunque, gli States non faranno, di qui ai prossimi anni, da locomotiva mondiale come è accaduto, invece, dal 1992 al 2007.

    Secondo una scuola di pensiero che si fa strada tra gli operatori di mercato, Obama – con il concorso della Federal Reserve di Ben Bernanke – sarà costretto a svalutare il dollaro e far correre l'inflazione in modo molto più consistente e determinato di quanto non abbia fatto finora. In fondo, è questa la scorciatoia storicamente seguita per ridurre debito e deficit estero in assenza di sviluppo. Una caduta rapida e consistente del biglietto verde sarebbe però un colpo duro alla Cina, la quale insiste a non muovere il renminbi. Ma avrebbe un effetto pesante anche in Europa, spingendo in alto la moneta unica che già oggi viaggia su livelli del tutto irrazionali. Per quale legge economica, infatti, un'area euro che cresce dell'1,9 per cento, con una disoccupazione del 9,9 per cento (il dato è di ieri), un disavanzo pubblico cumulato pari a 4,3 punti del pil, una bilancia corrente in leggero deficit, ha una moneta che vale il 43 per cento più del dollaro? La partita ha a che fare con una logica di potenza, un dollaro egemone a tutti i costi, un euro senza stato sovrano alle spalle, un renminbi a cambio fisso in un mondo di cambi flessibili.

    Pur se tutti cercano di evitarla, la resa dei conti arriverà, come è avvenuto per tutte le bolle, anche per quella monetaria.
    A dimostrazione che i mercati tanto irrazionali non sono, c'è l'ondata di vendite che ha colpito ieri le Borse, in particolare quelle dei paesi a rischio sovrano. Un vero bagno hanno preso banche e assicurazioni i cui bilanci sono imbottiti di titoli di stato. Unicredit è stata sospesa a lungo, così come Fiat Industrial. Male anche società pubbliche che hanno registrato sofferenze negli ultimi bilanci come Finmeccanica e la stessa Eni. Le imprese sentono i morsi di un triennio ormai a crescita negativa o piatta. L'Italia non ha ancora recuperato i livelli precedenti il 2007. Davvero, c'è poco da festeggiare.