Il mio nemico / 1

L'indigeribile

Stefano Di Michele

Adesso, con l'estate, Fabrizio Rondolino andrà (o già là sta) nella sua casa nel Nevada. Come gli altri si fanno un bilocale a Fregene o s'allungano alla pensione Miramare, lui s'è accasato nel deserto, al centro della Death Valley, vicino al Desolation Canyon: proprio vero, chi si cerca si piglia. L'ho vista in fotografia, questa casa rondoliniana: fa l'effetto di due scatoloni in attesa di sistemazione sugli scaffali di un discount.

    Adesso, con l'estate, Fabrizio Rondolino andrà (o già là sta) nella sua casa nel Nevada. Come gli altri si fanno un bilocale a Fregene o s'allungano alla pensione Miramare, lui s'è accasato nel deserto, al centro della Death Valley, vicino al Desolation Canyon: proprio vero, chi si cerca si piglia. L'ho vista in fotografia, questa casa rondoliniana: fa l'effetto di due scatoloni in attesa di sistemazione sugli scaffali di un discount. Dice che lì si trova molto bene: solo sceriffi, coyotes, tartarughe e serpenti – dispiace per i coyotes, le tartarughe e i serpenti, e a sette miglia “un bordello che si chiama Shady Lady Ranch”, 300 dollari l'ora e il locale mandriano si può produrre in un bunga bunga con Calamity Jane. E' qualche anno che non parlo con Rondolino, e probabilmente – a leggere certe sue interviste, alcune sue (ammirevoli) prese di posizioni contro la vivisezione, “un crimine” – è migliorato: pare più riflessivo, meno permaloso, un po' meno “bullo” di come lo ricordavo. “Bullo” colto, s'intende: uno che in redazione, all'Unità, citava i filosofi tedeschi, ma in tedesco – salvo, in epoca successiva, più mediaticamente votata alla frivolezza e meno concentrata sul peso dell'hegelismo, passare alle citazioni di Fedele Confalonieri, che un giorno gli disse: “Le persone intelligenti cambiano spesso idea”. Roba memorabile.

    Ma appunto, ho come l'impressione che si sia un po' alleggerito dal peso (peraltro superfluo, del resto sovrastimato) tanto della sua intelligenza, più ancora di quello che lui stesso definisce, vien da pensare con voluto eufemismo, “il mio narcisismo”. Però un nemico degno di questo nome va conservato, coccolato dentro di sé, bisogna sentirlo tornare su dalle viscere fino alla gola come i peperoni in tarda serata – come, per meglio adeguarsi alla torinesità rondoliniana, una bagna caoda (esperienza diretta, durante un congresso diessino sotto la Mole: né la Sacra Sindone né carrettate di Maalox né etti di Diger Selz parevano portare il sospirato alleviamento). Ecco,  Rondolino è la bagna caoda che ho sullo stomaco da quasi vent'anni: passa magari un intero lustro senza ripresentarsi alla memoria – né in pensiero né in opere – poi, di colpo, come dicevano le nonne, si “ripropone”. Non c'entrano né il suo pur discusso magistero letterario né la sordida accusa (e ha ragione quando li manda a farsi fottere) di tradimento che ogni tanto qualche “stronzetto di sinistra” gli rivolge: spocchiosi contro rondoliniani è come la guerra dei marziani contro gli abitanti di Marte: inconcepibile. E neppure le pagine,  che s'intuiscono dolenti, del suo saggio sulla patria nostra sempre sì bella e perduta. Altro di Rondolino ha fatto il nemico che sullo stomaco mi persiste, persino dopo essere sparito dalla mia vista.

    Una frase, una semplice (semplice un cazzo, comunque) frase, che un giorno mi rivolse quando tutti e due lavoravamo all'Unità veltroniana. Lui – già “Aedo del segretario” (copyright prof. Luciano Canfora) Occhetto e prossimo “Aedo del segretario” D'Alema, e nientemeno “killer Rondolino” (copyright dell'ex segretario del partito Alessandro Natta, a riprova dei vasti orizzonti di una solida formazione togliattiana) –, una parte delle precarie sorti della sinistra italiana caricata sulle spalle, con solenne disincanto vagava lungo i corridoi di via Due Macelli; io, semplice e inadatto e imbranato cronista parlamentare, filosoficamente e germanicamente del tutto sguarnito. Una frase a volte può essere come il combinato disposto d'acciughe e aglio che a tradimento ti riassale quando credi di averlo definitivamente smaltito. Le parole sono pietre – e a volte bagna caoda.

    Non che Fabrizio Rondolino – a parte quella frase e forse qualche danno collaterale a quello che era anche il mio partito – sia poi il nemico numero uno, il nemico ideale, il nemico perfetto. Certo non lo odio, ecco. Casomai odio i cacciatori. Odio i proprietari di Suv. Odio i ghiottoni – se a me ha fatto un tale effetto digestivo e psicanalitico la bagna caoda, loro dovranno pur pagare con qualche incubo notturno il pâté di fegato d'oca. Odio chi indossa le pellicce. Odio i liberisti – che fanno i sapienti liberali col culo degli altri (copyright dott. Ricucci). Odio quelli che dicono l'orrenda frase “è per il loro bene”, mentre scaricano un vecchio o un animale o un amico – tutti quelli a cui non sanno trovare posto nella loro vita.

    Odio… odio… odio… perché poi, un filo d'odio e di rancore bisogna pur mantenerlo – non fosse che per conservare un po' della propria salute mentale, un minimo di senso di sé. Poco, senza farsene travolgere, appena appena, ma indispensabile: q.b., come il sale in cucina. Però certo non odio Rondolino, che forse è diventato con il passare degli anni persino (esageriamo) un'amorevole creatura – ogni tanto lo intravedo, roseo e tondo e glabro come un turista di Stoccarda dibattere in televisione, sempre stupito di non trovarlo con sandali e calzini ai piedi. Lo leggo sulla prima pagina del Giornale (dove riprende il tono genere: “aho, cojoni de sinistra, vi spiego come stanno le cose”, ma insomma, fa parte del gioco, anche perché la prima pagina del Giornale facilmente si fa evocativa del ring di “Fight Club”). E quando lo scruto sul sito di The Front Page, appoltronato vicino al simpatico Claudio Velardi – “due vecchi arnesi della politica e della comunicazione” (copyright Velardi-Rondolino) – a dibattere delle cose del mondo come arzilli soci del benemerito “Circolo di Compagnia” di Leonforte (dove una sera bizzarri e meravigliosi fasci siciliani mi trasportarono a far inutili chiacchiere, e c'era un camerata di mezz'età preso da insana e ardente passione per l'onorevole Casini, pensa tu. “Quant'è bello, Ste', quant'è bello Pier Ferdinando! Ma lo vedi quant'è bello? Ti giuro, se lo incontro da solo di notte manco gli faccio dire ‘cristoaiutami!' che già me lo sono fatto!”), ho un riflesso immediato di simpatia e la voglia di offrire due limonate, una granita, mezzo whisky, due cremini, un Biancosarti a testa, una sambuchina, una China Martini… Ma ecco che di colpo la bagna caoda risale, risale, risale…

    A proposito di risalire: tutto risale, si diceva, ai tempi dell'Unità di Veltroni. Cinematografaro e piuttosto liberale, Walter mi autorizzò a collaborare con L'Italia settimanale, la rivista di Pietrangelo Buttafuoco – roba di fasci curiosi, comunisti curiosi, soprattutto casinisti curiosi. Scrivi e scrivi e scrivi, un giorno scoppia il pandemonio per un articolo sulle donne di sinistra e il loro linguaggio incomprensibile – e Walter mi aveva avvertito: “Non farmelo vedere, così quando succederà il casino potrò dire di non averlo letto”. Le mejo penne democratiche e femminili e femministe del giornale, da Ritanna Armeni a Letizia Paolozzi a Franca Chiaromonte, si risentirono: io forse avevo esagerato nello sfottò, loro certo stavano esagerando nell'indignazione. Però ci poteva stare tutto – “sei uno stronzo… ma come cavolo ti permetti… ti sei comportato da bandito… ecc. ecc.”. E comunque, a proposito di linguaggio: per farsi capire adesso si facevano capire benissimo. Mi chiusero in una stanza, e a turno o insieme, ma incazzate tutte, chiedevano conto della mia stronzaggine e soddisfazione per la mia pochezza. Sempre più malamente io mi difendevo, sempre più ostinatamente quelle attaccavano. Sorcio in trappola, ero. Cane alla catena. Pollo in gabbia. Arrivò a salvarmi, mentre ormai boccheggiavo, scarso di argomenti e di spina dorsale, il vecchio Enzo Roggi, ex corrispondente dall'Unione Sovietica, saggio comunista togliattiano della Val di Chiana: “Maremma maiala! E non state sempre a rompere i coglioni alla gente! Tu,vieni con me!” – e con bolscevica e fraterna solidarietà mi sottrasse alla resa dei conti, ponendomi al riparo nella stanzetta che condivideva con Fausto Ibba, altro corrispondente, nei decenni passati, dai paesi dell'est. Trasportato oltre il redazionale muro di Berlino, al di là della Cortina di ferro, finalmente fui al sicuro. Da oltre il vetro, dietro lo scudo difensivo di Ibba e Roggi, osservavo preoccupato le colleghe che ammonitrici e insoddisfatte avevano l'aria di voler attendere la prima sortita – il cesso, il ritorno a casa, un caffè al bar – per finire ciò che era rimasto incompiuto.

    Fu in quell'occasione che Rondolino disse la frase che non ho più dimenticato, la “frase bagna caoda”. Da scrivania a scrivania, io lo scrutavo sempre con una certa apprensione: non ancora intrigato dalle vicende erotiche del suo “Secondo avviso”, preziosamente dettagliate e assolutamente irresistibili (“lo spettacolo del membro di Giovanni arrossato piantato in mezzo alle chiappe di Beatrice è straordinario. Ezio non resiste e spruzza in faccia alla troia”: ci vuole niente a distrarsi dal socialismo), lo pensavo notte e dì chino su Schopenhauer o Leibniz, e non, intellettualmente parlando, sulla faccia della vispa signora in attività. Filosofia, pensavo, non fisiognomica – peraltro con aggiunta di ulteriore materiale.

    Fissandomi,  con una rapida occhiata di disgusto, dopo la bravata sull'Italia settimanale, sibilò: “Tu sei una persona immorale” – non nel senso di zozzone da romanzare, suppongo, ma uomo senza morale, un immorale umano e politico e persino esistenziale. Più che stronzo o imbecille o pezzo di merda… Macché: immorale, mi disse, con un senso di disgusto che faceva vibrare d'indignazione l'intera sua frase, che sussultava come se avesse un principio di vomito al suo interno. Come se di morale fosse maestro. Come se di moralità controfirmasse i diplomi ai presenti. Come se fosse Kant – er Kant nostro de redazione.

    Rimasi immobile, stupito e rabbioso. Osservavo la schiena di Rondolino che si allontanava. Come se mi avessero sputato in faccia, mi sentivo. Come una condanna. Come se mi avessero detto: tu sei indegno di stare qui. Mi veniva da piangere – e mi sforzavo di non farlo (essendo, del resto, piuttosto appattato con quella “sinistra un po' piagnona, crepuscolare” che allo stesso, è risaputo, sta sui coglioni, “a me non piace”). Avrei voluto inseguire Rondolino, prenderlo a pedate (data la vasta popolarità di cui godeva in redazione, avrei trovato pure qualche volenteroso collaboratore), dirgli cose del tipo: ma come ti permetti? Ma chi cazzo ti credi di essere? – però con molte più parolacce in mezzo. Invece non reagii. Non dissi nulla. Mi restò qualcosa sullo stomaco, come un pugno interminabile – il micidiale “effetto bagna caoda” che avrei sperimentato qualche anno dopo al congresso torinese e veltroniano di “I care” – e sullo stomaco ce l'ho ancora. Per mesi non rivolsi più la parola a Rondolino, lui non rivolse per mesi la parola a me. Con reciproca, perfetta soddisfazione. Poi se lo prese D'Alema (che se porta l'Ikarus come sceglie gli uomini, Rondolino a parte, meglio che la Capitaneria di porto stia allertata), facendo così pure l'unico favore in trent'anni a Veltroni – che poco, confidò Rondolino a Claudio Sabelli Fioretti su Sette, lo sopportava: “Cercò subito di massacrarmi. Io ero la prima firma politica, ero sempre in prima pagina. Mi spedì a fare il desk agli esteri (…) Veltroni non sopporta che ci sia gente intelligente attorno a lui. E' allergico, poverino” – è proprio vero che ogni giorno s'impara qualcosa, come diceva il tenente Colombo: se esiste l'invidia del pene, pare che attorno a Rondolino si sviluppi addirittura l'invidia dell'ingegno.

    In seguito, più avuto a che fare con Rondolino. Nel frattempo D'Alema si era messo a preparare risotti, lui a scrivere romanzi (vedi sopra), e anzi, senti senti, della povertà che affligge le patrie lettere ha dottamente discusso di recente in una divertente intervista con Stefano Lorenzetto su Panorama: “Oltre che non esistere l'Italia, non esiste neppure la letteratura italiana. Non lo vede quant'è esangue e ombelicale?” – e va onestamente riconosciuto il suo contributo per spostare la stessa da una visione ombelicale a una, diciamo così, più retrospettiva. Di vasto ingegno e di svariati interessi, carattere filosoficamente sdegnoso, fattosi ultimamente “jeffersoniano, per dirlo all'americana” (dev'essere l'aria del deserto del Nevada), comprensibilmente Rondolino molto si considera, “mi occupo solo di numeri uno”, e forse tende a considerare gli altri non degni di tale elevata attenzione – come quando, anni fa, fece sapere che D'Alema avrebbe dovuto “licenziare i suoi attuali collaboratori, Gianni Cuperlo e Nicola Latorre sono troppo mediocri. D'Alema merita di meglio” – Rondolino, per dire? Una volta spedì una mail, non proprio gradevole nei toni, al mio amico Salvatore Buglio, deputato diessino e persino teneramente dalemiano, che in un'intervista esprimeva più o meno su di lui la stessa opinione da lui riservata a Cuperlo e Latorre. Buglio era un tantino impressionato, peraltro pure un po' incazzato. “E adesso, che faccio?”. “Fotocopia della mail e volantinaggio di massa tra i compagni in Transatlantico”, fu la modesta proposta.

    O magari è solo un'anima inquieta, Rondolino – campeggiatore incompreso in “quell'ente inutile che è la sinistra italiana medesima”. Così ne è diventato una sorta di Conte Ugolino: prova ad addentarne un pezzo per volta. Implacabile fustigatore, feroce critico, impietoso commentatore – potremmo dire persino: geniale fustigatore, severo critico, intelligente commentatore (come suggeriva Bette Davis: “Non è vero, ma si può dire”). La “cruda sorte”, che lo confina in contemporanea e deprecabile presenza sullo stesso globo terracqueo con una simile banda di disutili, deve pesare non poco sul suo non poco ingombrante ego  – ché “io sono abbastanza oltre la divisione tra destra e sinistra”, per dire politicamente (starà come ET: per aria, su una bicicletta), senza tacere del torcibudella che gli procura il giornalismo politico di tanta colleganza, “il nostro mestiere è fatto da una massa di superficiali, di incompetenti” (a Prima Comunicazione). Una lunga, desolata afflizione – essere sempre il Molto, in tanto deserto di Nulla.

    E così, gira e rigira, rieccoci al deserto iniziale, nella Valle della Morte, contea di Nye. Solo vetrate senza tende, nella magione rondoliniana. “Sei dentro, ma sei fuori” – tale e quale la vita quotidiana. “Ho anche adottato un simpatico coyote”, meritoria iniziativa, e certo la bestiola procurerà qualche soddisfazione in più del complesso del genere umano. E da lì, osservando il grande nulla desertico, “fa molto bene al cervello”, troverà, chissà, consolazione. Forse oggi Rondolino potrebbe persino non dare più dell'immorale a persone che quasi neanche conosce. “Ho rinunciato a rifare l'umanità”, ha temerariamente annunciato: umanità che rischia così di sbandare definitivamente, ma è pur sempre un bel traguardo, un bellissimo limite raggiunto – per lui, e per gli altri, comprensibilmente refrattari all'idea di essere rifatti da Rondolino. Adesso c'è un solo problema: che nel deserto, di notte, guardando attraverso le grandi vetrate invase da “stellate vertiginose”, potrebbe avere delle ricadute: ritrovandosi con un cielo stellato sopra di lui (e tutto per lui), come niente gli si potrebbe nuovamente impennare la propria mai sopita grandezza morale dentro di sé.