Ma con chi ci siamo alleati?
Alla vigilia del Ramadan i fan del colonnello Gheddafi si sono ritrovati nella piazza Verde di Tripoli sparando come ossessi per aria, in segno di giubilo. Non tanto per sottolineare a colpi di kalashnikov l'inizio del mese di digiuno islamico, che dovrebbe essere simbolo di pace e riconciliazione, ma per festeggiare le sanguinose faide sul fronte opposto dei ribelli. La Cirenaica liberata dai rivoltosi anti Gheddafi doveva diventare un modello per il resto del paese, una Svizzera libica, una culla della nascente democrazia. Nell'ultima settimana, però, sono esplose le contraddizioni.
Alla vigilia del Ramadan i fan del colonnello Gheddafi si sono ritrovati nella piazza Verde di Tripoli sparando come ossessi per aria, in segno di giubilo. Non tanto per sottolineare a colpi di kalashnikov l'inizio del mese di digiuno islamico, che dovrebbe essere simbolo di pace e riconciliazione, ma per festeggiare le sanguinose faide sul fronte opposto dei ribelli.
La Cirenaica liberata dai rivoltosi anti Gheddafi doveva diventare un modello per il resto del paese, una Svizzera libica, una culla della nascente democrazia. Nell'ultima settimana, però, sono esplose le contraddizioni: prima c'è stata l'esecuzione del generale Abdel Fattah Younes, comandante militare dei ribelli, e poi gli scontri armati fra fazioni rivali. Ma già c'erano anche le tensioni tribali, il muso duro con i giornalisti e le divisioni interne nell'armata Brancaleone anti Gheddafi composta da circa quaranta “brigate” diverse. A tal punto che diventa lecito chiedersi: ma con chi ci siamo alleati?
E anche: chi stiamo finanziando grazie al fiume di soldi promesso dall'occidente per tenere in piedi la rivolta? Il primo agosto il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, ha annunciato di aver trasferito ai ribelli 259 milioni di dollari, provenienti dai beni congelati del regime di Gheddafi. Altri 300 milioni erano già arrivati dal Kuwait e dal Qatar. La comunità internazionale ha promesso un miliardo di dollari, grazie al congelamento dei beni del colonnello e soltanto gli Stati Uniti, con questo sistema, garantiranno 30 miliardi al Consiglio nazionale transitorio di Bengasi riconosciuto ormai da una trentina di paesi.
Il terremoto interno al fronte anti Gheddafi ha registrato la prima scossa giovedì scorso quando il comandante militare dei ribelli è stato ammazzato e mutilato. Il generale Younes era l'ex ministro dell'Interno del colonnello, malvisto dai rivoltosi che avevano patito la sua repressione durante il regime, a cominciare dagli islamici duri e puri. Era un uomo per tutte le stagioni e mentre combatteva sulla strada costiera per conquistare il terminale petrolifero di Brega continuava a mantenere contatti con Tripoli, proponendosi come figura di spicco per un futuro governo di rappacificazione. Il Consiglio di Bengasi lo sospettava di doppio gioco e con l'avallo del presidente, Mustafa Abdul Jalil, pure lui ex ministro di Gheddafi, è stato firmato un ordine di comparizione davanti a un'improvvisata corte marziale. Peccato che i ribelli spediti ad arrestare il generale alla fine lo abbiano imbottito di proiettili, bruciato e mutilato, come ha ammesso lo stesso ministro delle Finanze di Bengasi, Ali Tahouni.
Da Tripoli hanno puntato il dito contro Fawzi Bu Kitf, il capo dell'Unione delle forze rivoluzionarie, una federazione di gruppi armati della Cirenaica. Il diretto interessato ha preso le distanze scaricando a sua volta la responsabilità su Mustafa al Rubh, il comandante sul campo incaricato di andare a prendere Younes. Non è ancora chiaro se i secondini assassini facessero parte della Brigata dei martiri 17 febbraio, data di inizio della rivolta, o dell'unità Obeida Ibn Jarrah composta da ex prigionieri del famigerato carcere di Abu Slim a Tripoli. A Bengasi sono ancora in molti a credere che Younes sia finito nelle mani di una quinta colonna di Gheddafi fra le file ribelli. In realtà è ormai certo che il generale è stato ammazzato per vendetta da esponenti della frangia estremista islamica della rivolta.
Il problema è che l'ordine del Consiglio di Bengasi era soltanto di interrogarlo e non di eseguire una sentenza capitale. Non solo: dopo la scoperta del corpo di Younes è saltato fuori che il ministro della Difesa dei ribelli aveva cancellato il mandato di comparizione per il suo capo di stato maggiore. Il quadro di spaccatura interna è ancora più preoccupante tenendo conto che il generale faceva parte della tribù Obeidi, maggioritaria in Cirenaica. I miliziani del clan si sono presentati in armi sparando davanti all'albergo dove un terreo Jalil annunciava la morte del capo militare dei ribelli. Anche i membri della tribù Warfalla, la più grande della Libia, si starebbero armando a Bengasi. Ai funerali di Younes i parenti hanno ribadito, a denti stretti, la fedeltà alla ribellione. Solo il figlio, Ashraf, scoppiando in lacrime si è scagliato contro l'instabilità del dopo rivolta (avrebbe addirittura rimpianto Gheddafi davanti a tutti).
Per calmare le acque il Consiglio ribelle ha nominato Suleiman al Obeidi, un membro della stessa tribù della vittima, come comandante militare temporaneo. La faida sembrava scongiurata, ma domenica è scoppiata a Bengasi una battaglia. Gli uomini del ministero dell'Interno si sono scontrati per otto ore con la fazione dei ribelli al Needa accusata di essere “una quinta colonna di Gheddafi”. Il gruppo fuori controllo aveva dato l'assalto e liberato – due giorni prima, quando è saltata fuori la storia dell'uccisione di Younes – dai 200 ai 300 prigionieri nelle carceri del Consiglio transitorio. A Tripoli sono convinti che al Needa voleva vendicare il generale. A Bengasi sostengono che la quinta colonna si ispirava a Yousef Shakir, un famoso e acceso commentatore televisivo pro Gheddafi. Shakir va in onda da uno studio televisivo ricavato per lui nei sotterranei dell'hotel Rixos, nella capitale , dove alloggia assieme ai giornalisti internazionali.
Al Needa è stata schiacciata con una decina di morti e 63 arresti, ma rappresentava solo la punta visibile del problema. Il Consiglio transitorio sta cercando con grande difficoltà di unificare le forze ribelli ponendole sotto un comando unificato. Almeno 32 delle 40 “brigate”, nate autonomamente dalla lotta contro Gheddafi, avrebbero accettato di passare al diretto controllo di Bengasi. Dal primo agosto, inizio del Ramadan, le fazioni che non si sottomettono “sono considerate gruppi criminali”, secondo il ministero dell'Interno ribelle.
Il pericolo maggiore è rappresentato dalle unità islamiche più radicali. Negli ultimi mesi sono stati chiusi in Cirenaica diversi campi di addestramento “indipendenti”, per evitare una deriva afghana o somala. La delicata pratica è in mano al dipartimento della Sicurezza interna guidato da Abdul Basit Shihaibi, un ex volontario della guerra santa che ha combattuto in Afghanistan. Shihaibi godrebbe ora della fiducia della Cia e ha già espulso dalla Cirenaica alcuni combattenti giordani, oltre ad aver arrestato personaggi come Abu Sufian bin Qumu. Si tratta di un ex prigioniero di Guantanamo, catturato in Pakistan dopo l'11 settembre, e poi tornato a Derna, una delle roccaforti della rivolta nella Libia orientale, a fare propaganda per le tesi di al Qaida.
Nonostante la buona volontà sarà un'impresa trasformare l'armata Brancaleone ribelle in un vero esercito libero dalle influenze estremiste. Diverse khattiba (brigate), ben armate, sono in mano agli ex del Gruppo islamico combattente libico, che ha preso le distanze da al Qaida, ma rimane fondamentalista.
Nel ginepraio libico la Nato ha mandato alcuni consiglieri militari, che lavoravano al fianco del capo di stato maggiore assassinato. Fra questi ci sono pure gli italiani, che prestano servizio nel comando centralizzato di Bengasi messo in piedi per coordinare le operazioni. I francesi hanno paracadutato armi sulle montagne occidentali, dove si è aperto un altro fronte che insidia Tripoli. Dall'Italia sarebbero arrivati ai ribelli 400 missili anticarro AT-4 Fagot, 5 mila razzi Katiuscia, 11 mila razzi anticarro e 30 mila fucili d'assalto AK-47, con 32 milioni di proiettili. Un arsenale sequestrato nei Balcani, che era stipato nell'isola bunker di Santo Stefano. Il governo ha posto il segreto di stato, ma elementi dei nostri corpi speciali stanno addestrando i ribelli libici, anche se questo compito spettava fin dall'inizio ai consiglieri arabi giunti dal Qatar e dal Kuwait. Durante gli scontri fra fazioni a Bengasi di domenica uno dei blindati intervenuti nella battaglia portava le insegne del Qatar.
Oltre alle armi stanno arrivando i soldi dalla comunità internazionale. Il 9 giugno, ad Abu Dhabi, i paesi intervenuti nella guerra civile libica hanno deciso lo stanziamento di un miliardo di dollari. Un mese prima era stato stabilito a Roma il meccanismo di assistenza, che permette di finanziare l'opposizione nonostante le sanzioni dell'Onu. Gran parte del denaro arriva dai beni di Gheddafi congelati in giro per il mondo. Il Consiglio transitorio ha bisogno di tre miliardi di dollari. Gli Stati Uniti, dopo aver riconosciuto i ribelli a metà luglio, ne metteranno a disposizione trenta, provenienti dagli investimenti sequestrati. In pratica i soldi di Gheddafi alimentano la rivolta, ma non sarà facile controllare l'utilizzo dei fondi, che in alcuni casi sono vincolati a progetti umanitari, una volta versati a Bengasi.
Nella “capitale” ribelle la tensione degli ultimi giorni si riflette anche sui giornalisti, che secondo il New York Times sono stati minacciati di conseguenze legali, non si capisce bene di che genere, per aver scritto articoli “inaccurati”. Ahmed Bani, portavoce del ministero della Difesa, ha dichiarato: “Non sappiamo chi può essere una quinta colonna del nemico. In tempo di guerra con una parola o una voce si provocano dei morti”. A Bengasi si rischia di cominciare a respirare lo stesso clima di sospetto, nei confronti dei giornalisti, che aleggia a Tripoli, dove è sempre più difficile lavorare e girare da soli.
Il lato oscuro del fronte ribelle era già saltato fuori in maggio quando il New York Times aveva denunciato l'esistenza di squadre della morte che a Bengasi “giustiziavano” presunti collaboratori del regime di Gheddafi. Da una parte e dall'altra della barricata i prigionieri rischiano di fare una brutta fine e a Misurata gli stessi ribelli avevano ammesso di avere sparato ai piedi dei soldati catturati per evitarne la fuga. Sul terreno la situazione si è incancrenita. I ribelli non hanno ancora conquistato Brega sul fronte est. Da Misurata, terza città del paese, le forze ribelli starebbero combattendo ora nella vicina Zlitan e la strada per Tripoli è ancora lunga.
Il nuovo fronte aperto sulle montagne occidentali avanza a rilento e talvolta indietreggia per mancanza di coordinamento, problemi logistici e rivalità tribali fra i gruppi armati. Secondo i pochi giornalisti sul posto gli ordini, compreso quello di non saccheggiare, talvolta si perdono lungo la catena di comando, come è capitato a Qawalish. Una cittadina fra i monti a sud ovest di Tripoli dove i negozi sono stati svuotati e le case date alle fiamme. Le unità ribelli si accusano a vicenda di non dividere i rifornimenti, le munizioni o le armi migliori. Sul terreno attaccano con scarso coordinamento. I comandanti, quasi tutti ex ufficiali dell'esercito di Gheddafi, non si fanno vedere in prima linea e talvolta mandano gli uomini allo sbaraglio.
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