Il circo mediatico-finanziario

Stefano Cingolani

Gilles Li Muisis, abate di Tournai, lamentava sei secoli fa che “in fatto di monete le cose sono molto oscure: esse crescono e diminuiscono di valore, e non si sa cosa fare; quando si pensa di guadagnare si trova il contrario”. La citazione serve a Marc Bloch, nel suo abbozzo di una storia monetaria d'Europa che stava scrivendo prima di essere fucilato dalla Gestapo nel 1944, per ricordare “i molteplici legami con l'attività umana.

    Gilles Li Muisis, abate di Tournai, lamentava sei secoli fa che “in fatto di monete le cose sono molto oscure: esse crescono e diminuiscono di valore, e non si sa cosa fare; quando si pensa di guadagnare si trova il contrario”. La citazione serve a Marc Bloch, nel suo abbozzo di una storia monetaria d'Europa che stava scrivendo prima di essere fucilato dalla Gestapo nel 1944, per ricordare “i molteplici legami con l'attività umana. A un tempo barometro di movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse, i fenomeni monetari si collocano tra i più degni di attenzione, i più rivelatori, i più carichi di vita”. Lo storico francese, cofondatore degli Annales, non era né economista né economicista e forse per questo capiva il senso di quel continuo balletto di numeri, indici, curve che, in momenti precisi e imprevedibili, diventa una danza macabra. Come venerdì 29 luglio.

    Fin dal primo mattino, sembra già
    tutto pronto per una vera notte di Valpurga. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, annuncia che la proposta per aumentare il tetto al debito avanzata da Harry Reid, leader dei democratici che hanno la maggioranza al Senato, non ha alcuna possibilità di essere approvata. Uno sciame di corvi e avvoltoi si leva da Wall Street. Agenti di Borsa e banchieri d'affari si lanciano in un'orgiastica fuga, gettando nel braciere azioni e titoli di stato. I giornali titolano che l'America, sì proprio l'America, va in bancarotta. Si parla di ricchezza bruciata per migliaia di miliardi in poche ore. E si apparecchia per lunedì mattina un secondo armageddon finanziario dopo quello del 2008, quando fallì Lehman Brothers. I più acuti analisti fanno già i conti: è Lehman moltiplicato per dieci, cento, mille volte.

    E più che i giornali poté Internet. Secondo l'Economist, che ne sa una più del diavolo, la grande rete riporta l'informazione alla chiacchiera da caffè, anche se proprio nei caffè il secolo dei Lumi costruì il senso comune della modernità. E sul Caffè di Pietro e Alessandro Verri esordì un grande economista e moralista come Cesare Beccaria. Nel suo blog su Repubblica.it, “Estremo occidente”, Federico Rampini, orientalista economico, scrive che “nell'atmosfera da vigilia dell'apocalisse finanziaria, a New York appaiono anche le locuste”. E un'assidua lettrice gli chiede accorata: “Vorrei che lei da conoscitore del pianeta americano, mi aiutasse a capire quel che mi è assolutamente incomprensibile: gli americani”. Incomprensibili? Almeno questa volta quei mostri a stelle e strisce si sono comportati esattamente come gli italiani: hanno fatto cadere ogni ipotesi di parte, hanno fermato gli orologi e hanno trovato un compromesso. Al ribasso, secondo la sinistra liberal e la destra liberista. Ma hanno seguito la legge bronzea della politica marcia, spietata e razionale. L'annuncio di Obama non preparava la catastrofe, bensì la mediazione. Come non capirlo? Eppure, faceva più senso pensare che dal 3 agosto il governo non avrebbe più pagato le pensioni, gli stipendi agli statali, il soldo ai militari in Afghanistan. Che mille e quattrocento triliardi di dollari in buoni del tesoro nei portafogli delle famiglie e delle banche sarebbero svaniti come nebbia mattutina. Famiglie e banche americane, non cinesi come viene scritto comunemente (Pechino ha l'8 per cento del debito statunitense, tutti i paesi esteri arrivano a poco più di un terzo). La fine degli States è rinviata (diventerà il leitmotiv alla prossima crisi, c'è da scommetterci), le locuste si spostano e tocca di nuovo all'Europa. Quante volte la Grecia è stata vista scomparire nel maelstrom della finanza mondiale come la mitica Atlantide di Platone? I finlandesi, che da rudi boscaioli sono diventati all'improvviso maestri di virtù finanziaria, vogliono il Partenone, quel che resta perché il meglio se lo sono già preso gli inglesi. Eppure, la Repubblica ellenica è stata di nuovo ripescata da quel battello di salvataggio chiamato Germania che non vuole, ma lo fa, per amore delle sue banche più che delle spiagge di Santorini. O perché costretta dalla storia a prendere le redini di questa Europa perduta nel sogno di unirsi con la moneta e non con le tasse e una formazione statuale che rispecchi la volontà dei cittadini. Forse è un male, forse è meglio che arrivi una vera resa dei conti per ricominciare su basi nuove. Bisogna prevedere anche per gli stati come per i privati un fallimento ben temperato, protetto da regole e leggi che difendano prima di tutti i creditori. In realtà, si sta pensando a questo, soprattutto quando tra due anni entrerà in funzione il Fondo europeo di stabilizzazione.

    E tuttavia proprio l'euro sembra fatto apposta per dar ragione a Marc Bloch. Il circo mediatico-finanziario non è ricco solo di cronisti in cerca di scoop né di giovanotti in bretelle colorate che decidono di spostare miliardi da un punto all'altro del globo con un'occhiata a schermi luccicanti. Non ci sono solo i clown, ma anche trapezisti e domatori. Come le agenzie di rating. Nate per dare trasparenza agli scambi, per addomesticare gli spiriti animali del capitalismo e democratizzare i mercati, facendo sì che il colto e l'inclita possano investire i loro risparmi con ragionevole certezza, guardando a una criptica, ma neutra e oggettiva, combinazione di lettere e cifre, hanno da tempo gettato la casacca dell'arbitro e sono entrate in gioco. Con gli Stati Uniti, Standard & Poor's e Moody's sono rimaste vigili con il ditino alzato, ma comprensive (solo l'agenzia cinese Dagong ha abbassato il voto). Non altrettanto con Grecia, Spagna e Italia (e anche per questo molti vogliono un'agenzia europea). C'è malizia e incompetenza, sostengono gli accusatori, più che mai abbondanti tra gli uomini politici e di governo. Ma forse l'intera partita si è fatta troppo complicata.

    Il debito di uno stato, quello di una multinazionale o di un'impresa familiare, non sono la stessa cosa, allora perché giudicarli con lo stesso metro? Economie profondamente diverse, paesi con storie, culture e organizzazioni sociali incomparabili, possono stare sotto un'unica etichetta? Gli Stati Uniti mantengono un diritto di signoraggio perché il dollaro resta l'unica moneta mondiale. La crisi greca, spagnola e italiana hanno caratteristiche specifiche: Atene deve sbrogliare i propri conti pubblici, con una operazione di verità, finalmente; Madrid deve smaltire una sbornia immobiliare che l'ha illusa di poter crescere con un quinto di forze lavorative disoccupate; Roma deve uscire dal suo satollo oblomovismo e tornare allo sviluppo. Non servono sempre le forbici. Le politiche vanno calibrate e così i rating.

    Il capitalismo di massa, la democratizzazione dell'economia, genera le proprie contraddizioni. Nel 1907, quando a Wall Street scoppiò il panico, John Pierpont Morgan chiamò i suoi pari, i boss delle poche grandi banche che muovevano i mercati, si chiuse con loro nel suo ufficio e gettò la chiave. “Da qui non usciremo senza una soluzione”, disse imperioso masticando il grosso avana. E così fu. Qualcosa del genere ha provato a fare anche Hank Paulson, segretario del Tesoro della Casa Bianca tra 2006 e 2009, in quel terribile settembre 2008, quando tutto stava crollando. In un angolo oscuro e remoto del Tesoro si riuniva di notte o al mattino prima di colazione con Ben Bernanke e Timothy Geithner per cercare di prendere in contropiede i mercati. Ma ogni volta arrivava un commesso con un titolo di giornale, o un sms sul telefonino che costringeva a disfare la tela di Penelope e tessere tutto da capo. Il mondo fuori da quel fortino girava a modo suo. I giornalisti mettevano in circolo voci e indiscrezioni. Si scatenava la rincorsa dei pareri, delle opinioni autorevoli, ognuno con la propria ricetta. Il fine settimana in cui Lehman venne lasciata al proprio destino, si mise in mezzo Gordon Brown per impedire che la banca d'affari fosse salvata dalla Barclays (la quale si prese poi le spoglie per un tozzo di pane). Il Tesoro di Sua Maestà decretò che quel matrimonio non si doveva celebrare. Forse Alistair Darling, cancelliere dello Scacchiere, aveva letto l'Economist.
    I tempi di JP Morgan sono finiti per sempre. Nel bene e nel male, il circo mediatico è un agente attivo, talvolta un agente provocatore. Ma di lui non si può fare a meno. Obama è ricorso persino a Twitter per raggiungere i suoi nove milioni di utenti (il terzo profilo dopo quello di Lady Gaga e Justin Bieber). Non avrà letto Bloch, ma il presidente americano la pensa allo stesso modo: la moneta è lo specchio dei popoli e i media sono lo specchio che li rispecchia. Il gioco è scoperto. L'unica cosa è vigilare, vedere la trappola e non caderci dentro mani e piedi. Buona fortuna.