Lo sfigato d'oro

Umberto Silva

Il mio nemico si chiamava Luigi Giuffrida, che il diavolo se lo porti. Ma lui è il diavolo. Siamo sempre lì, nel fatale 1958, anno in cui muore Papa Pacelli. Io trascorro il mese d'agosto ai bagni Nettuno di Santa Margherita Ligure, covo di miliardari milanesi tra i quali si annoverava mio papà, ansioso peraltro di uscirne malamente, ritenendo assai più glamour il club degli scialacquatori. La sottile bellezza di papà poco s'intonava con la corpulenza dei commendatori e dei cavalieri del lavoro, di cui sprezzantemente si degnava di sedurre le consorti e le giovani amanti.

    Il mio nemico si chiamava Luigi Giuffrida, che il diavolo se lo porti. Ma lui è il diavolo. Siamo sempre lì, nel fatale 1958, anno in cui muore Papa Pacelli. Io trascorro il mese d'agosto ai bagni Nettuno di Santa Margherita Ligure, covo di miliardari milanesi tra i quali si annoverava mio papà, ansioso peraltro di uscirne malamente, ritenendo assai più glamour il club degli scialacquatori. La sottile bellezza di papà poco s'intonava con la corpulenza dei commendatori e dei cavalieri del lavoro, di cui sprezzantemente si degnava di sedurre le consorti e le giovani amanti.

    Non avrà da stupirsi se un giorno i cummenda congiureranno la sua rovina. Nessuno di noi figli si stupì, accettammo quel castigo come giusto, una giustizia tribale che colpiva tutti noi della stirpe, colpevoli d'avere ammirato la follia di nostro padre, d'avere sorriso quando con le sue fuoriserie correva per il parco dell'antica magione salendo sulle aiuole, scorticando gli alberi, spruzzando l'acqua del laghetto per piombare a capofitto sugli orti seminandovi morte e desolazione. Ridevamo. Un riso nervoso, certo, ridevamo senza osare guardarci in faccia.
    Tra tanta incuria una cosa papà m'aveva insegnato, un micidiale smash di rovescio a ping pong, il mio colpo segreto quando mi trovavo davanti ad avversari particolarmente coriacei. Era uno smash di polso, una torsione che non tutti potevano fare ma noi della famiglia sì, per via delle braccia magre e delle mani lunghe e snodabili, mani nervose e violente, mani di giocatori e libertini, di scialacquatori appunto. Era uno smash a gettare con sprezzo la pallina vincente nell'angolo estremo del tavolo di ping pong, così come le fiches sul tavolo della roulette e le carte da poker quando il bluff era smascherato; così come lo champagne dalla coppa direttamente sul viso del cornuto, che minaccioso si alzava in piedi ma poi si risiedeva sotto l'occhio sprezzante della moglie.
    Papà incuteva timore: al circolo della caccia riusciva a colpire un bicchiere con una pistola sparandosi alle spalle, diciamo puntando l'arma sopra la spalla, diciamo sparando dietro di sé con la pistola… impossibile, non ci riuscirò mai, a sparare così e neppure a scriverne. In compenso a ping pong ero il campione assoluto dei bagni Nettuno, grazie allo smash di famiglia e ai gesuiti, nel cui castello di Gressonney-La Trinité passavo ogni anno un mese di vacanza per cercare di rimettermi alla pari coi compagni, visto che avevo cominciato ad andare a scuola a undici anni. L'analfabetismo era un altro dei vanti di papà, peraltro ottimo in inglese, francese e spagnolo, lingue che imparava in lunghi viaggi da cui tornava assetato d'altri guai.

    I padri gesuiti m'istruirono; le interminabili passeggiate e le scalate del Monte Rosa mi salvarono la vita iniettandomi una certa ambizione. Eravamo tutti noi, ragazzi della Trinité, tipi piuttosto particolari, figli di famiglie opulente ma disastrate, coi genitori uno qui e uno là che venivano a trovarci in coppia per mostrare a noi e ai preti il perfetto matrimonio cristiano, salvo gelidamente congedarsi a un chilometro dal castello per infilarsi in altre macchine, con altri autisti, con altre donne e altri uomini. Noi ragazzi naturalmente sapevamo tutto ma, sempre nervosamente e senza osare guardarci in faccia, scherzavamo sulle reciproche mamme, provocandoci, dicendo “ah che carina la tua mamma”.
    A fine stagione al castello piovevano le medaglie. Medaglie d'oro, d'argento e di bronzo per i primi tre di ogni specialità: corsa, tiro con l'arco, dama, scacchi e, più in alto di tutte per dignità, impegno e partecipazione, il ping pong. Il mio smash di famiglia suscitò un certo stupore, ma tutti o quasi avevano un loro smash di famiglia, alcuni di diritto altri di rovescio, dettaglio che indicava una propensione satanica. Dalle tante partite, dal confronto dei colpi proibiti, dall'angoscia che a un certo punto prendeva tutti noi ansiosi di portare a casa un oro o almeno un bronzo, un riconoscimento che si opponesse allo sfascio e dicesse che esistevamo a noi stessi, sorse una scuola di piccoli campioncini dall'elegante gestire, fascinosi “fin de race” capaci di regalare punti all'avversario per poi trapassarlo con colpi invisibili, superuomini capaci di giocare con la sinistra o, addirittura, con le mani nude.

    Il mese di agosto scendevamo a valle per mostrare la nostra abilità, chi al mare, chi in campagna, chi in qualche città d'oltremare. Chi, per l'appunto, ai bagni Nettuno di Santa Margherita, bagni che, con una stretta al cuore ho dovuto verificare qualche anno fa, neppure più esistono. Nemmeno Santa Margherita esiste più, sostituita da un immenso porto; non un vero porto quanto uno sterminato parcheggio dove sono attraccati innumerevoli motoscafi tutti eguali, natanti chiamiamoli, cose informi popolate da esseri informi, migliaia migliaia…
    Ma allora, nel luglio del 1958, Pacelli in carne e ombra ancora regnava, il patrimonio della mia famiglia esisteva, esistevano i ricchi e i poveri, le cameriere erano vere e sante quanto la lotta di classe e io ero il re del ping pong che troneggiava all'ingresso dei bagni, circondato dalle sedie degli sfidanti che attendevano il loro turno. Erano ragazzi dai quattordici ai diciassette anni, mentre i più piccoli erano respinti a un loro tavolo più lontano tutto per loro. Le ragazze sfoggiavano i primi bikini bianchi e rosa, i ragazzi accorciavano i loro costumi e mostravano i petti ancora gracili di nati in tempo di guerra. A quindici anni ero diventato il re di quel piccolo regno in cui già si giocavano destini, fortune, amori. Ero il re non solo perché vincevo una partita dopo l'altra ma anche perché erano eleganti i miei calzoncini e la camicia bianca annodata alla vita, ed eleganti i miei gesti così come inaspettati gli affondi che facevano fremere le fanciulle. Crudeli i miei sguardi su di esse, promettevano cose che, a dire il vero, non avrei saputo come mantenere. Talvolta qualcuno, per dare un senso alla sua sconfitta, metteva come posta un krapfen. I krapfen del Tigullio erano i più buoni del mondo, avrei ripetuto tanti anni dopo a mia figlia trascinandola per le vie di una città morta; stanchi e accaldati non trovammo traccia di krapfen, il paradiso era sparito.
    Nell'estate del 1958, invece, seppur beffardo e ingannatore, il paradiso esisteva eccome, fino alla mattina in cui fu minato da Luigi Giuffrida.

    Era costui un tipino che non dimostrava
    i quattordici anni richiesti per essere ammessi al tavolo dei “grandi”, tanto che sua madre fu costretta a testimoniare per lui. La donna piccola e nera ci guardò con occhi di fuoco, lui, Luigi, non fece una piega. Piccolissimo di statura, leggermente gobbo, mi suscitava una certa pena. I gesuiti mi avevano educato alla carità cristiana e non ero razzista, forse perché inconsciamente presagivo il mio futuro di deraciné; ma gli altri ragazzi del Nettuno lo erano eccome, razzisti e tutto il resto, e non era l'età che gli rimproveravano quanto tutto il resto. Era brutto, nerastro, terrone, stortignaccolo. Che cosa fosse venuto a fare a Santa Margherita, al Nettuno, lo capii solo un'ora dopo, quando venne il suo turno.

     Si era messo in fila, paziente
    , assorto, con sotto il naso un qualcosa di baffi che lo faceva assomigliare a un topo dei fumetti, ma non l'ammodo topolino yankee quanto il suo fiero cugino messicano. Avevo battuto una decina di sfidanti tra cui la Nina, una ragazzina assai insidiosa che maneggiava una delle prime racchette di gommapiuma esibendosi in tagli affilatissimi che mi colsero di sorpresa costringendomi sulla difensiva… quando me lo vidi innanzi, dall'altra parte del tavolo. Trattenni a stento quel riso cui invece gli spettatori si abbandonarono fragorosamente: Luigi Giuffrida arrivava a malapena all'altezza del tavolo di ping pong, gli occhi radenti la superficie, le mani che dovevano alzarsi sopra il capo per colpire la pallina. Uno sgorbio, un errore della natura.

    Avvertii un tremito nella mano che impugnava la racchetta, mi sentii un carnefice. Servii piano, con dolcezza, ero in presenza di un handicappato ed ero deciso a lasciargli qualche punto semmai riuscisse a scaraventare la palla nella mia parte di campo. Mi arrivò uno smash d'inaudita violenza che neppure cercai d'intercettare. Torcendo le mani sopra la testa, strabuzzando gli occhi, saltellando e incrociando le braccia, lo sgorbio aveva colpito con tutte le sue forze.

    Vinse il match 21 a 16, rintuzzando con calma il mio crescente furore, opponendogli un'energia e una maestria che avevano del soprannaturale. Gli spettatori rimasero allibiti, per salvare la faccia fui io stesso a sollecitare un applauso, e umilmente mi sedetti tra gli sfidanti; i ragazzi che occupavano le sedie accanto alla mia si scostarono un po', per rispetto al dio caduto o per timore della sua ira, o per non essere contaminati dalla mia disgrazia… Continueranno a scostarsi a lungo, forse ancora oggi. Il gobbo vittorioso si permise solo un sorriso soddisfatto in cui mostrò una fila di denti enormi e stortissimi, accavallati gli uni sugli altri. Si piazzò al centro del tavolo e attese il prossimo sfidante che liquidò senza concedergli un solo punto.

    Cercavo di ostentare una calma assoluta, in realtà ero precipitato in un incubo. L'imbattibilità nel ping pong era andata in frantumi, l'unico appiglio della mia tormentata adolescenza. Ero diventato uno dei tanti che il campione in carica metteva in fila ad attendere rassegnati il loro turno, la loro sconfitta. Sapevo che mai l'avrei spuntata contro quell'essere che proprio della sua bassezza fisica e probabilmente morale faceva il volano di tanta maestria. L'eleganza dei miei colpi s'infrangeva contro la sua violenza, il plebeo trionfava, un nemico invincibile. I miei olimpici dei protettori erano distratti, le sue divinità infere giorno e notte attizzavano il fuoco che alimentava la sua forza; era venuto dalla sua torrida isola per darmi una lezione che mai avrei dimenticato.
     Guardavo le ragazze. La mia sconfitta le aveva deluse, ma certo non potevano eccitarsi più di tanto per quell'essere mostruoso. Tuttavia il mistero della sua oscura forza le attraeva e lo sbirciavano perplesse. Ma erano giovani e sciocchine e il pregiudizio – pensai sollevato – risultava invalicabile. Così quando a una cert'ora la Paola c'invitò per il bagno sulla sua barca e ci chiamò per nome, vale a dire per censo e per bellezza – ché il Carlo era figlio di commercianti ma anche una specie di muscoloso Adone – nemmeno rivolse uno sguardo a Luigi Giuffrida, che restò praticamente solo al tavolo del ping pong, abbandonato da tutti ormai presi da ben altro. In un primo tempo me ne rallegrai ma anche mi fece pena, il Giuffrida. Soprattutto mi parve ingiusto. Guardai i miei compagni e pensai che nessuno di noi valeva quello storpio. La Nina si accorse del mio sguardo e mi sorrise complice. Aveva visto in me un destino di second'ordine? Rabbrividii e divenni cattivo. Una volta sulla barca, con un calcio scaraventai la Paola in mare, la prima di tante ferocie che le gesta del Giuffrida e il sorriso della Nina avrebbero procacciato.
    Complice una scintillante luna, quella notte scavalcai la staccionata dei bagni Nettuno. Al tavolo di ping pong mi esibii per le stelle in smash imprendibili. Colpivo le palline all'impazzata e gridavo vittorioso; Giuffrida non c'era ma anche se ci fosse stato sarebbe stato spazzato via dalla mia furia. Invece no, la mattina dopo mi sconfisse con un punteggio ancora più severo del precedente. Allora davvero lo odiai e desiderai la sua morte.
    Quando il Carlo si lasciò andare a una battutaccia su come gasare gli ebrei, i froci e i nani, non protestai ma mi unii al coro delle risate. Impassibile Giuffrida continuò a macinarci uno dopo l'altro. Ero uno del gruppo, mentre lui era lui e basta, l'unico. Divenni sempre più cattivo ma non lo picchiai, come mi si proponeva di fare. Qualcosa mi tratteneva, lo ammiravo, lo sentivo fratello, fratello maggiore. Al suo posto mi azzuffai col Carlo e limonai con la Nina, che era bruttina ma tagliente.
     L'anno dopo Luigi Giuffrida non venne ai bagni Nettuno. Fantasticai dove potesse essere, in quale altro luogo mostrasse la sua forza. Pensai anche che si fosse stancato del ping pong dedicandosi a imprese più ardue. La sua figurina diventava gigantesca nella mia immaginazione. Nel frattempo ero ritornato campione della spiaggia, ma solo perché lui non c'era. Ben lo sapevano gli “anziani” del tavolo, che assistevano alle mie vittorie con aria ricattatrice; soprattutto lo sapevo io, che a un certo punto, gettato al vento un facile smash, per la rabbia spaccai la racchetta contro il tavolo che a sua volta si scheggiò.

    La rabbia non era per lo smash fallito ma per la vergogna d'essere condannato a fare il primo della classe in assenza del Giuffrida. Meglio affrontarlo e perire, ma quella patetica usurpazione mi faceva impazzire. Abbandonai il ping pong e ci tornai solo sporadicamente tanti anni dopo, per qualche partitella con mia figlia. L'insegnamento di Giuffrida era stato preciso: al di là dello charme conta la sessualità, sempre e ovunque, nel ping pong come nella scrittura, nell'amore come nella morte. Conta il carattere. Lo vedo tutt'oggi, il Giuffrida, in un sogno ricorrente che sempre mi sembra quanto mai reale, a capo di una multinazionale mentre con le sue multimani maneggia capitali enormi e i sederi di cinquanta segretarie. Dalla sua bocca svetta uno spudorato sigaro e i suoi occhi ridono incenerendo tutto ciò che lo circonda. Nel tempo libero scrive romanzi e poesie; sotto falso nome un suo libro ha vinto il premio Strega. Grazie al cielo non lo odio più; col tempo anch'io sono diventato un po' stortignaccolo e gobbo.