Quale allegria?
A volere disegnare la cupa estate di un'epoca in una sola smorfia – giusto al fin della licenza – non è che una scucchia trista, delusa e mogia a far da maschera. Ed è la faccia di un anonimo peone della maggioranza di governo. Questo signor Veneranda lo scorgiamo a Montecitorio nel pomeriggio del discorso di Silvio Berlusconi fatto “a Borse chiuse”. Sta per dare la mano al premier, pronto a carpirgli un sorriso o almeno un raggio di quel sole che da sempre Silvio Berlusconi ha fatto vanto di tenere in tasca ma il peone gira i tacchi e se ne va.
A volere disegnare la cupa estate di un'epoca in una sola smorfia – giusto al fin della licenza – non è che una scucchia trista, delusa e mogia a far da maschera. Ed è la faccia di un anonimo peone della maggioranza di governo. Questo signor Veneranda lo scorgiamo a Montecitorio nel pomeriggio del discorso di Silvio Berlusconi fatto “a Borse chiuse”. Sta per dare la mano al premier, pronto a carpirgli un sorriso o almeno un raggio di quel sole che da sempre Silvio Berlusconi ha fatto vanto di tenere in tasca ma il peone gira i tacchi e se ne va. Triste, deluso e mogio.
A riannodare i fili della lungimiranza, allora, c'è da tornare al fatidico parlare a “un'Aula sorda e grigia”. Così è l'aula di Montecitorio. I parlamentari, infatti, sembrano passanti al crocicchio. Stanno tutti fermi in attesa del verde, ovvero: che finisca, una volta per tutte, e si vada via. E non c'è verso per farne un bivacco per buontemponi. Eugenio Scalfari, invano, ha sperato che a quel punto, nella cautela delle “Borse chiuse” esplodesse “una risata omerica”. Stanno, al contrario, tutti compresi. Se ne tornano tutti alle loro case.
Nessuno ride. E se un tempo anche gli avversari sorridevano a Berlusconi, quasi rammaricati dal dover tenere la parte in commedia, quella degli antipatici, adesso sono i ministri, i fedelissimi, e anche le belle signore, ad allargare le braccia. E sono solo musi lunghi. L'unico che riesce a far ridere di cuore Berlusconi è il suo acerrimo nemico, Antonio Di Pietro: “Aspetto una sua cartolina da Antigua!”. E Di Pietro, infine, è l'unico che riesce a farlo uscire al naturale. A volte sembra che Berlusconi, come l'ammiraglio Nelson, cerchi qualcuno che riesca “finalmente” a farlo fuori.
Due, infatti, sono le opzioni per la sua uscita di scena. La prima è quella di fare come Nelson che, a bordo di una piccola nave, si esponeva ai colpi d'artiglieria dei nemici indossando tutto ciò che aveva di sgargiante per farsi beffe di loro e farsi “finalmente” colpire. Fu, appunto, colpito all'omero. Inchiodato da una pallottola che, seguendo il bersaglio della spallina dorata, ebbe a fermarsi sulla colonna vertebrale.
La seconda opzione è quella di andarsene come se ne andò Charles De Gaulle: uscendo di scena con sprezzatura. Quella della cartolina da Antigua è un'uscita alla De Gaulle. Quella alla Nelson, invece, è un'uscita di scena più laboriosa e leggendaria: ci vollero tre ore per morire e quel grande le impiegò bevendo vino e limonata. Quando capì, infine, di essere arrivato all'ultimo bicchiere disse: “Finalmente sono riusciti a farmi fuori”. Dopo di che venne rinchiuso – era bassino, piccoletto, monco di un braccio – dentro un barile colmo di brandy.
La gravitas segnò quel momento. I francesi poterono dire di averlo “finalmente” messo a morte ma Napoleone Bonaparte, più realisticamente che cavallerescamente, sentenziò: “L'Inghilterra diventerà piccola cosa quando la Francia avrà tre ammiragli come Nelson”. Ecco, più realisticamente che goliardicamente è quello che Di Pietro, in privato, dice a proposito di farlo piccolo il Berlusconi. Non scorge ammiragli nell'opposizione. E neppure lui – simpatico quanto quello – ride del suo nemico.
La tristezza si addice al momento, questo. Non va più in onda il Bagaglino. Incandescente, ma come pece che lorda di urticante cupezza ogni sorriso, resta sovrano l'umorismo della compagnia dell'Hotel Lux: il Crozza e la Guzzanti, giusto per fare degli esempi, che per far ridere devono imbastire dei processi senza mai praticare quel sentimento del contrario d'ascendenza pirandelliana con cui un Mario Natangelo, invece, formidabile vignettista del Fatto, riesce a far ridere capovolgendo di genio e non di odio. E, appunto, come si fa a non deliziarsi nella sorpresa di vedere il Silvio ritratto giusto da Natangelo nelle vesti di Chiarchiaro, lo jettatore della “Patente”, già maschera interpretata da Totò? Ma questa non è risata, è letteratura. A forza di lamentarci dell'assenza di un nuovo Ennio Flaiano dimentichiamo che, al tempo, nessuno poteva accorgersene di averlo un Flaiano. E magari adesso c'è, non fa i film con Federico Fellini, forse gira video, scambia file di parodie con la Sora Cesira oppure disegna vignette…
La tristezza si addice al momento, dunque. Tanto grande è stato il sorriso con cui è cominciata questa magnifica storia di begonie e fazzoletti detergenti, feticci di “Una storia italiana” (il primo libro cult della “discesa in campo” di Berlusconi), tanto larga è la stagna plaga dell'incarognirsi per sopravvivere.
Nessuno ride e non c'è lo struggimento di un tramonto. Non si presenta nessuno alla soglia della Cripta dei Cappuccini, qui non si contempla il crollo della Felix Austria, piuttosto lo svaporare dell'ottimismo. E c'è qualcosa di sfatto se perfino Lino Banfi, recandosi in via del Plebiscito per andare a salutare il Cavaliere se ne esce intristito.
La tristezza si addice al momento, infine. E pure il silenzio. Se un ministro si sfoga al telefono, se dice di qualcuno: “E' un cretino”, per un nonnulla di una cosa detta così, per sfogarsi, si apre una crisi perché conversare all'apparecchio – qualunque sia, per cellulare o per e-mail – è come parlare al vento: arriva contraccambiato a tutte le orecchie, comprese quelle del cretino. Quasi si apre una verifica di governo ed è sconsigliabile anche una chiacchierata per il gusto di sparlare, come è successo al ministro Stefania Prestigiacomo. E come si può stare allegri quando si è tutti ascoltati? Neppure nell'Urss del Krokodil, la celebrata rivista satirica sovietica poteva immaginare una situazione tale.
Tutte quelle cose che cantano la gloria del berlusconismo saranno poi restituite dalla storia, nessuno, intanto, trova scampo nella caduta e se banchetto c'è stato nel chiudersi del berlusconismo, il dessert si presenta per tramite di torte che lievitano livide di veleno o di sospetto – è la stessa cosa – e se nessuno prende a cuor leggero la giornata è poi cosa ovvia che l'ultimo dei sottosegretari si dica disponibile ad essere convocato alla riunione del Gabinetto di governo anche a Ferragosto e non c'è, insomma, un Renato Rascel pronto a cantare: “E' arrivata la bufera, è arrivato il temporale / Chi sta bene e chi sta male / E chi sta così così”.
Nessuno ride. Non riesce a far ridere Pier Luigi Bersani col suo andare ad asciugare gli scogli. L'accoppiata con Crozza è stucchevole. E' un'operazione di regime. Collaudata nella telegenia “de sinistra”. Di gran lunga superiore, invece, per comicità e naturalezza e per velocità di web, è il gioco agli specchi tra Nichi Vendola e Checco Zalone. Ma la satira, la comicità e l'ironia sembrano riavvolgersi intanto che il momento svapora. “Intanto va detto che non tutti ridono per le stesse cose – ci dice Michele Serra, scrittore, autore di satira e firma di Repubblica – e per fortuna. In questi ultimi anni c'è chi è stato di ottimo umore e chi di pessimo, dipende dai famosi punti di vista, dallo sguardo che si riesce ad avere sul mondo. Questo per dire che io credo nel relativismo satirico almeno quanto in quello etico. Al netto di questo, dico che la storia politica italiana (e dunque la satira politica italiana, di conseguenza) non è stata e non è leggera. E' una storia (anche) di fazioni, di odio, di sangue e di attentati, che si riflette in una satira politica piuttosto feroce, noir, raramente scanzonata. Sto parlando della satira vera, non delle barzellette sui politici che sono avanspettacolo romano, con tutto il rispetto per l'avanspettacolo e anche per Roma. I grandi autori, i grandi giornali e i grandi comici hanno adoperato a piene mani umori forti e anche fortissimi, e usato il rasoio del vivisettore o dell'anatomista molto più del randello di gomma che fa ‘bonk' ma non lascia tracce. Prendi Mannelli o Vincino o Altan o Corrado Guzzanti e trovi più Grosz che la commedia dell'arte”.
Ecco, ha ragione Friedrich Nietzsche, è solo per celia che gli uomini si lamentano della propria epoca, in verità non se la sono passata mai meglio. E quel povero Berlusconi, tutto quel sole tenuto in tasca? “Quanto a Berlusconi – prosegue con severo sorriso Serra – io il sole in tasca non sono mai riuscito a vederglielo, ma sai, anche qui è puramente una questione di punti di vista. A me metteva tristezza già ai tempi di ‘Dallas', quando cronista ventenne andavo alle presentazioni dei telefilm in via Rovani, a Milano, e la moquette era troppa ovunque, e tutti sorridevano troppo, soprattutto lui”.
“Quale allegria”, cantava Lucio Dalla: “L'allegria è la cosa più bella del mondo ma non va sprecata o inflazionata, diventa facilmente sciocchezza (il riso abbonda eccetera…). Comunque l'allegria e la risata, per quelli della mia tribù, in questi anni sono stati una faccenda del tutto privata, ognuno ha perseguito la felicità in proprio, a casa sua, ed è stato un bel paradosso, per le persone di sinistra, trovare un rimedio privato alle delusioni pubbliche. Sulla scena pubblica, diciamo che ho visto confrontarsi due tristezze: una, diretta, quella della sinistra sconfitta e impotente, l'altra quella indiretta del berlusconismo col sorriso d'ordinanza, la cravatta d'ordinanza, le convention, tutta robetta rispettabile quando si tratti di radunare bravi impiegati di un'azienda, ma spaventosamente triste quando diventa modello ‘politico', cose da non credere…”.
Nessuno, comunque, ride. “Adesso è vero che l'atmosfera è particolarmente malinconica. Con qualche piccolo vantaggio, perché la malinconia riesce a mitigare almeno in parte la volgarità, la foia di potere. Da una olgettina immalinconita mi aspetto riflessioni sulla vita che prima non poteva permettersi. Un poco di malinconia fa bene a tutti. Anche alla satira. Si diventa più riflessivi, più profondi, magari perfino meno faziosi”.
Nessuno ride. Non c'è più uno sanguigno, vivo e perfino pittoresco a ispirare quei comici che pure sono stati l'avanguardia nella guerra al Cavaliere, quasi un obbligato Cnl nell'Italia del dopo Berlusconi. “No, io rido”, dice Natangelo. Lui è il più giovane degli autori di satira, collaboratore di Linus e firma del Fatto. “Sono in vacanza ma ogni giorno chiamo il giornale per proporre una vignetta. La situazione è certamente cambiata rispetto a un anno fa quando il primo a fare satira, depotenziandola di tutte le deflagrazioni contro il potere, era Berlusconi stesso. Passavo giornate senza che una sola idea potesse superare le sue trovate. Ovvio, faceva ridere defraudando il principio primo della satira: castigat ridendo mores. Faceva ridere senza castigare i costumi, con ritmi ripetitivi. La sua barzelletta della mela, per dire, è ancora più vecchia della mela d'Adamo ed Eva ma adesso che è così dimesso, meno caciarone, senza più Apicella al fianco, ho trovato ancora qualcosa da azzannare. L'ho dipinto come uno jettatore, è vero, ed è il suo contrappasso totale, giusto per lui che si teneva il sole in tasca. E c'è qualcosa ancora da sbranare perché abbiamo oltrepassato lo stadio delle ‘comiche finali'. Siamo, infatti, alla contemplazione degli sgoccioli e se qualcuno si azzarda a dirmi – come succede ogni sei mesi – che la satira è morta, lo iscrivo d'ufficio al pellegrinaggio organizzato dai parlamentari”.
Nessuno ride. “E' vero, nessuno ride”, conferma Carlo Rossella. Vero conoscitore del mondo con tutte le sue relative informazioni sull'uso Rossella, che se la gode al modo dei viaggiatori, ci regala l'ausilio di un titolo di Françoise Sagan assai efficace: “Bonjour tristesse”.
Nessuno ride. “E come si potrebbe? Avevamo un miliardario ridens, ci ritroviamo adesso un pagatore triste. La mestizia che si respira alla buvette della Camera dei deputati procura asfissia e nessuno può dire di essere stato sepolto da una risata. Non c'è più quel gorgogliare di buonumore nei ristoranti, come quando da Fortunato o alla Rosetta, a Roma, andavamo io, Lino Jannuzzi, Diego Della Valle e Sandro Bondi. Non ci sono le feste e se ci sono, sono solo raduni di soliti sfigati sudati e sconosciuti. A sinistra non sanno ridere, a destra, peggio: sono lugubri. I giornali di destra, mi spiace dirlo, sono macabri. Di tanto in tanto torna un ruggito di Forattini ma a destra sono grevi. Non hanno più un Guareschi”.
Con qualcuno si ride. “Solo il Fatto – assicura Rossella – mi fa ridere. Marco Travaglio, con la sua monomania antiberlusconiana, fa ridere. Riesce in un'arte assai difficile essendo molto più facile far piangere. E' un'Italia troppo cattolica la nostra per ridere. Pochi sono gli italiani in grado di infischiarsene e sogghignare. Enrico Mentana sa ridere. E Michele Santoro mi fa ridere. Ma quello che mi immalinconisce è sapere di non avere più quelle serate con Alberto Moravia, Federico Fellini ed Ennio Flaiano. L'Italia è pur sempre la patria di Alberto Arbasino ma c'è nell'aria qualcosa che ha tolto brio. L'ultima serata memorabile l'ho trascorsa a Capri. All'Aurora. Con Christian De Sica e Valentino Garavani. S'è cominciato a parlare di Luchino Visconti e di Helmut Berger, dopo di che, Christian, ha fatto tutto un racconto sul mondo degli omosessuali assai divertente. A parte questa cena, le altre due occasioni in cui ho riso sono state quando ho visto il nuovo film di Pupi Avati, ‘Il cuore grande delle ragazze'. C'è, infatti, una Micaela Ramazzotti degna di Monica Vitti. La Ramazzotti ha una grande vis comica. E poi, l'altra risata, l'ho vissuta quando ho accompagnato Woody Allen a colazione. Abbiamo fatto una piacevole conversazione e a un certo punto, toccando i temi alti della metafisica, mi ha detto: ‘Sono molto contrario alla morte'. Una battuta così, in questa Italia cattolica, e lo dico io che cattolico sono, è impossibile”.
Ecco, a volere disegnare la cupa estate di un'epoca in una sola smorfia – giusto al fin della licenza – la scucchia trista, delusa e mogia, fa da maschera definitiva. In questo immergersi di memoria e nostalgia ci siamo però persi il titolo.
Scusi, Rossella, quale era? “Glielo ripeto ma nella versione proposta a suo tempo da Flaiano: Bonjour stronzesse”.
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