La versione di Vasco
Vasco Rossi spalanca gli occhi blu dentro la webcam e affida tutto se stesso a Facebook. Registra il messaggio per i fan, lascia che lo sguardo barcolli, spruzza in bocca il broncodilatatore e intanto accende una sigaretta. Ha già raccontato al mondo, in quel suo modo ironicamente eroico, che vive grazie agli psicofarmaci, che dichiara conclusa la sua carriera di rockstar, che è convalescente e non adolescente, e che Ligabue è uno stronzo, più o meno.
Vasco Rossi spalanca gli occhi blu dentro la webcam e affida tutto se stesso a Facebook. Registra il messaggio per i fan, lascia che lo sguardo barcolli, spruzza in bocca il broncodilatatore e intanto accende una sigaretta. Ha già raccontato al mondo, in quel suo modo ironicamente eroico, che vive grazie agli psicofarmaci, che dichiara conclusa la sua carriera di rockstar, che è convalescente e non adolescente, e che Ligabue è uno stronzo, più o meno. Si è offerto nudo, disastrato, come negli ultimi concerti, come in quest'ultima canzone, “la vita che va e non va”. Un ragazzo invecchiato che non se l'aspettava, e un male di vivere profondamente immedesimabile (i fan su Facebook lo applaudono, lo adorano, gli scrivono devi farcela, gli scrivono soprattutto: anch'io sto così, grazie Vasco). Vasco Rossi riesce a vincere perfino quando perde: perde il guizzo della rockstar, perde la capacità di stare sul palco come un leone e perde tutto quel maledettismo di periferia che forse non è nemmeno mai esistito (il Roxy Bar non è un'aspirazione da maudit, il broncodilatatore non è un aggeggio che un vero maledetto mostrerebbe al popolo, la clinica non è luogo di follie), e vince come essere umano acciaccato, un po' Barney Panofsky, un po', semplicemente, la versione di Vasco.
La sua versione di provincia (e quindi la nostra) di una vita complicata, tra malumori, donne, le lucky strike (“e ti rendi conto di quanto le maledirai”), l'autodistruzione quotidiana, giorni buoni e giorni cattivi, acidità di stomaco perfino, il non amore, e poi spogliarsi di ogni orgoglio, come ha scritto lui in una canzone, e tirare fuori le meschinerie, come al bar con gli amici, i conoscenti, gli sconosciuti: Ligabue è un bicchiere di talento in un mare di presunzione, i giornalisti sono le comari del paesino (è vero, tra l'altro), tutti gli antidolorifici presi durante i concerti, non sono depresso!, e il bisogno di condividere, raccontare, perfino farsi compatire. Ieri pomeriggio ha postato un altro video, in cui sorride, meno sconvolto, e dice: tutto è bene quel che finisce bene potrebbe essere un buon comunicato, aspetta un attimo che vado a spegnere l'acqua sotto la pentola in cui sto bollendo. I fan, quelli meno giovani, non l'hanno mai amato tanto. Forse è quel che Vasco intende con “Manifesto futurista della nuova umanità”, l'accettazione totale di una gran quantità di debolezze, la possibilità di essere preso in giro, di sembrare patetico perfino, la necessità di lamentarsi.
Nessuna eroica rockstar maledetta invecchierebbe così scopertamente, esponendosi al giudizio del mondo, mettendo ogni due ore una foto su facebook, ringraziando i medici invece di mandarli a quel paese, giurando di non essere affatto in declino. Vasco Rossi rivendica per sé (e quindi per tutti) l'umanissima spelacchiatura dell'esistenza, gli inciampi, l'imbarazzo. Come quando ha scritto per Noemi quella canzone perfetta con dentro la cellulite che cresce. E' la rinuncia definitiva al mito, oppure la costruzione di un mito sostenibile, impacciato, cagionevole, che deve stare attento agli spifferi, alle sigarette e al colpo della strega. “Ho fatto un patto sai con le mie emozioni, le lascio vivere e loro non mi fanno fuori”. Il manifesto della nuova umanità, visto da Vasco, non è proprio esaltante, ma così sincero che commuove. Perché tutta quella vita spericolata, in fondo, è sempre stata un sogno.
Il Foglio sportivo - in corpore sano