Caro Cav., serve un Fondo antidebito per rassicurare i mercati

Francesco Forte

Per garantire il nostro debito pubblico, soprattutto nei riguardi dei risparmiatori – che, come scriveva Luigi Einaudi, hanno il coraggio del coniglio, il comportamento della pecora e le gambe della gazzella – non basta la regola costituzionale del pareggio del bilancio che pure io da tempo propugno, anche come valida alternativa alla patrimoniale. Occorre una garanzia che il debito sia onorato. E questa garanzia può arrivare dal Fondo per il finanziamento del debito pubblico, da stabilire con norme di rango quasi costituzionale.

    Per garantire il nostro debito pubblico, soprattutto nei riguardi dei risparmiatori – che, come scriveva Luigi Einaudi, hanno il coraggio del coniglio, il comportamento della pecora e le gambe della gazzella – non basta la regola costituzionale del pareggio del bilancio che pure io da tempo propugno, anche come valida alternativa alla patrimoniale.

    Occorre una garanzia che il debito sia onorato. E questa garanzia può arrivare dal Fondo per il finanziamento del debito pubblico, da stabilire con norme di rango quasi costituzionale sotto la sorveglianza della Corte dei conti che ne dovrà certificare ogni anno l'adeguatezza.

    Tale Fondo dovrà essere costituito presso il ministero dell'Economia per il debito dello stato. Ma un analogo Fondo andrebbe costituito per la finanza locale. Al Fondo del Tesoro dovrebbero affluire quote delle tre principali imposte italiane che interessano l'attività dei residenti in Italia aventi diritto di voto, vale a dire l'imposta personale sul reddito, cioè l'Irpef, l'imposta sul valore aggiunto (Iva) e le imposte sui consumi, ovvero accise sugli olii minerali, i tabacchi, gli alcoolici, i giochi e le scommesse (che il ministro Giulio Tremonti vuole unificare anche nominalmente in un unico tributo, cosa che già accade de facto).

    L'onere che l'Italia fronteggia per ripagare gli interessi sul debito pubblico, attualmente, è circa il 5 per cento del prodotto interno lordo. Ma potrebbe anche salire al 6 per cento, in ipotesi estreme. Si potrebbe stabilire che l'Irpef finanzia per la metà il Fondo statale del debito pubblico, cioè gli fornisce adesso il 2,5 per cento del pil, ossia circa un quinto del suo gettito, mentre l'altra metà è coperta dalI'Iva e dalle accise, ciascuna con l'1 per cento del prodotto interno lordo. Ovviamente, ed è questo il cuore della proposta, nel caso che il 5 per cento del pil non basti a finanziare il Fondo o/e che le quote dell'Irpef, dell'Iva e delle accise predeterminate non bastino ad alimentarlo, la Corte dei conti dovrebbe avviare una richiesta formale di aumento di tali importi. E senza la provvista in questione, non si potrebbe effettuare nessun pagamento pubblico, in quanto il Fondo avrebbe, sulle pubbliche entrate, gli stessi diritti prioritari del creditore ipotecario di primo grado.

    Questa regola e questa procedura appena descritte adempiono a un obiettivo al quale non adempie la regola costituzionale del pareggio del bilancio che, comunque, concorrebbe a rendere credibile l'obiettivo. Si tratta di rendere trasparente il costo dell'indebitamento pubblico, che deriva sia dall'ammontare dei debiti che dal tasso di credibilità del sistema economico e politico considerato, e dal prodotto interno lordo. Non basta mirare all'obiettivo della stabilità con una norma costituzionale, occorre anche puntare all'obiettivo della trasparenza e della responsabilità delle scelte pubbliche che riguardano il futuro.

    Per capire il significato della mia proposta, che ho avanzato già nel 1993, quando ero presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato, ottenendo allora la reputazione di chi fa i buchi nell'acqua, bisogna rifarsi alle nozioni del diritto privato, risalenti al diritto romano, cioè al concetto di ipoteca.

    Il debito pubblico è, fra cittadini, una ipoteca sul futuro e i creditori, che vivono nel presente, hanno bisogno di essere garantiti con un'ipoteca sul debitore. Così tutto è più chiaro e certo. Anche per i vari Moody's e Standard&Poor's, che nulla sanno del diritto romano.