Dopo la caduta

Stefano Di Michele

Per ora è una polvere sottile che si sente nell'aria, un moscerino nell'occhio – forse muterà in tempesta. Un increspare di onde piacevolmente disordinate – uno tsunami, magari. Un sordo brontolio, come di stomaco troppo vuoto (o troppo pieno, invece) – muri che cedono. Giorni di cadute alle porte, busti che si frantumano a terra, palcoscenici che rumorosamente si vuotano. Di quei momenti e di quei tempi in cui non sarà possibile né salvare la roba (un gridare disordinato e inutile, come quello di Mastro don Gesualdo, “roba mia, vieni con me!”), né forse le buone ragioni – casomai ci fossero

    “Se abbattete i monumenti, risparmiate i piedistalli. Potranno sempre servire” (Stanislaw J. Lec)

    Per ora è una polvere sottile che si sente nell'aria, un moscerino nell'occhio – forse muterà in tempesta. Un increspare di onde piacevolmente disordinate – uno tsunami, magari. Un sordo brontolio, come di stomaco troppo vuoto (o troppo pieno, invece) – muri che cedono. Giorni di cadute alle porte, busti che si frantumano a terra, palcoscenici che rumorosamente si vuotano. Di quei momenti e di quei tempi in cui non sarà possibile né salvare la roba (un gridare disordinato e inutile, come quello di Mastro don Gesualdo, “roba mia, vieni con me!”), né forse le buone ragioni – casomai ci fossero. Bisognerebbe scivolare di lato, se ancora si può. Affrancarsi in un pertugio, per non ritrovarsi con un chiodo (di buona morale, s'intende) piantato per ogni arto disponibile. Vincere la repulsione insensata dell'ombra, e lì dentro calarsi. Andare, senza attendere la caduta – la monetina che sibila, la pietra, lo sputo di virginale moralità. “Non aspettare d'essere un sole che tramonta”, come consigliava Baltasar Gracián. “Abbandonare le cose prima che esse ci abbandonino. Si sappia trasformare in trionfo la fine stessa, poiché talora il sole medesimo, quando ancora splende nel cielo, si rifugia dietro una nube affinché nessuno lo veda cadere, e lascia tutti nel dubbio se sia caduto o no”. L'alternativa – e ben la conosceva il saggio gesuita spagnolo, e ben è stata vista praticare già diverse volte nella storia patria: “Si cerchi dunque di schivare i tramonti per non crepare vittime del dispregio; non si aspetti che ci si voltino le spalle, se non si vuole che ci seppelliscan vivi per la pena e morti per la stima”. E non sembri solo metafora letteraria, questa del seppellimento da vivi, una volta che la faccia è nella polvere. Ed era l'urlo di Bettino Craxi – terribile, come un cattivo e terrificante romanzetto di Carolina Invernizio, come un terrificante e grandioso racconto di Edgar Allan Poe – mentre ogni cosa veniva giù, simile all'occhio divino di Panseca a fine congresso, urlo da bestia braccata e non domata e non domabile: “Mi hanno già seppellito. Meno male che ho fatto i buchi nella bara e continuo a respirare”. Ma da dentro la bara – ed è solo un respirare che allunga l'agonia, quello, e poi sarà il colare di lacrime tricolori dai bordi di certe anfore di terracotta, e lo spiaggiarsi dolente e furioso sulla triste costa tunisina – senza che mai l'urlo rinunciasse a mangiare il pianto. (E in “Una notte in Tunisia”, Alessandro Haber ha portato sulla scena quel disperato sprofondare dopo la caduta politica, un tappeto sotto i piedi a simulare la sabbia che ingoia e cancella, e un sussulto divertito e amaro, “non si diventa presidenti del Consiglio se non si ha il senso del ridicolo”, un cedere forzatamente il passo a sciacalli e ipocriti e falsi moralizzatori di cui stendeva la lista – e la lista infinita gli pareva. E così che mai riusciva a finirla, e neanche tutto il Mediterraneo lì davanti sapeva contenere la sua rabbia impotente e desertificata).

    Che poi, “di che lacrime grondi e di che sangue” la caduta che all'orizzonte s'annuncia (e l'infittirsi di profeti di sventura, e di sventurati pur carichi di peccati e sventurate passioni e sventurate mercanzie che puzzano di refurtiva), è ancora cabala e scongiuri e auguri – se il cappio dondolerà di nuovo davanti agli occhi dei candidati alla corda, o se sarà la sola dimenticanza che farà voltar pagina e sazierà. Nel dramma di chi cade – e non è male ripetere che il cadere a volte è anche cosa giusta, e il caduto il sapore della polvere meritava: se s'infrangono gli idoli, si possono infrangere i leader – gli anni hanno aggiunto una pubblica vena d'odio una volta sconosciuta, quasi gladiatoria, bestie e incitazioni, bestie e lame, lame e (chissà) sangue. Non l'elegante e spiritoso invocare la caduta del nemico politico di un Disraeli – “Se Gladstone cadesse nel Tamigi, sarebbe una sfortuna. E se qualcuno lo tirasse fuori sarebbe, credo, una calamità” – ma quasi un voler personalmente spintonare, un sigillare con l'impronta la rovina altrui, un secco colpo di martello sul chiodo del coperchio di una bara (politica). Si è sempre caduti, in politica. Si è pure a volte risorti, in politica. Anche più di una volta. Attraversò il deserto, disse – pur con adeguate salmerie al seguito, l'intendenza tutta, e assistenza di fantesche quanto necessitava – Berlusconi, e chissà se l'impresa, tanto narrata fino a farsi quasi fondativa, nuovamente potrà tentare in futuro, nel (e col) “mare asciutto” (così, per i mongoli, il deserto di Gobi) in cui si va essiccando la sua creatura politica: pur napoleonico di suo, ha quantomeno manzonianamente esaurito le possibilità, “due volte nella polvere / due volte sull'altar”. E il Caimano, biblica Bestia del Mare come pure Bestia della Terra, lo scalpo ambito seppur indefinito – a trapanar buchi, non pochi lo vorrebbero, incementato dentro il mausoleo di Cascella, al centro del parco arcoriano. Ma nei giorni della caduta – giorni pompeiani, giorni messinesi, né un Bertolaso che sani e soccorra – nessuno ha la certezza di restare in piedi. Si può cadere da instabili impalcature, come un poverocristo per omicidio bianco, e persino da solidissime (apparentemente) fondamenta. “Cambia il vento” – esultavano a inizio estate sui manifesti quelli del piddì, e la brezza maliziosamente sollevava gonne leggere su toniche cosce progressiste. Poi il vento cambiò e si fece vento del nord (e quasi soccorreva ancora un riflesso di antica mistica resistenziale), poi precisò la rotta e vento di Sesto divenne, e ora i peli fa drizzare pure sotto il solleone – e il buono e il meglio potrebbe travolgere e portare alla caduta, inattesa caduta – e a Roma i compagni d'antica saggezza politica e di competenza meteorologica ripetono e avvertono che “quanno è giornata da pijallo 'n culo, er vento t'arza la camicia” – fa strada alla sorte, insomma.

    Il cadere (di massa, soprattutto) in politica è un'incertezza, un sabba lussurioso e uno schiattare penoso di bile e vergogna, non si sa mai con certezza a chi andrà la farina e a chi la forca – a Berlusconi, per dire, la volta scorsa questa pareva destinata, e lui rapido il capino, ancora tricologicamente sguarnito, levò dal cappio e lesto infilò in dispensa, uscendone unto (da) e satollo. Un rumoreggiare di fondo – rivolta sempre, rivoluzione mai – voci che corrono, aruspici mediatici che come quelli etruschi in prima pagina rovesciano il fegato della bestia squartata e ne decifrano i misteri, le Idi d'autunno alle porte, dove il pugnale avrà da colpire. E certi garantisti dal troppo vociare e dal troppo facile salvaguardare che muggiscono avvertendo (e sempre simile avvertimento rimbomba) su tale sonno della ragione che tali mostri va a generare, mentre fu Alberto Arbasino che una volta scolpì quello che quasi sempre poi – calate a terra le monetine, posati i fiati dell'indignazione che eruttavano come comignoli, smessi i tondi (giro) e le rabbie cromatiche e il creder di saper di tutto e magari di niente – così si risolve: “Il sonno / della ragione / produce ministri”.

    Del cadere infiniti sono i modi. Persino un colpo di fucile in un garage e una lettera al Quirinale, o un sacchetto di plastica in cella, o l'invio di lettere che contengono merda – e sputi e assedi al Parlamento o, se la civiltà ha un guizzo, opportuni silenzi, ché quasi sempre, a sentire san Girolamo, “ci sono vizi simili alle virtù”, così quindi virtù che benissimo col vizio si sommano. Una volta, il cadere in politica – anche un cadere di eccelsi capi, di granitici caporioni, di storici istrioni – aveva quasi un tono gentile, pur nella sua essenza di dramma: un insieme di segni discreti, così un lavoro da miniaturista (solo poi vennero i picconi, le mazze del moralismo, stakanovismo e caducità, rottamatori al passo si direbbe d'oca), un sussurrare composto, un affilare di silenti armi bianche. Un passo che arrivava quasi leggero – gesuiti e democristiani e comunisti: sacralità della stessa oscurità, onorevole penombra chiesastica. Era un cadere nel cuore della foresta: di poco rumore, seppur di molta sostanza. Sì, Fanfani schizzava via come tappo di champagne forattiniano, ma sul fronte opposto a far cadere un Cossutta era un sussurro berlingueriano, “il compagno Cossutta ha accumulato troppo potere, del quale per altro non ha abusato”, a farsi messaggero della sorte occhettiana “un deputato di Gallipoli” che bussa alla porta come il grigio postino di Attila József – e se pure i pidocchi, “belve titine”, dalle criniere dei cavalli erano portati al pubblico disprezzo, perché fossero feroce ammonimento a possibili tentazioni, la caduta il più delle volte si risolveva in una sorta di lenta dissoluzione, un farsi polvere prima di essere polvere, come un dissolvimento in certi film di gran qualità e di grandissima noia – e la quotidianità burocratica di vicepresidenze onorifiche e inoffensive, come fu per Pietro Secchia (“L'uomo che sognava la lotta armata”, nel bel ritratto di Miriam Mafai), che credette di morire avvelenato dalla Cia, e certo dalla tristezza ultima fu intossicato, “c'è in noi questa melanconia segreta di sentirci ormai impotenti… ci sentiamo separati dal partito e in un certo senso dal popolo oggi lontano dall'idea di dover combattere lotte rivoluzionarie…”.

    La Dc, a suo modo, era il regno della calligrafia. Un a volte impercettibile spostare di luci, di posti, di gerarchie. Una mano sfuggente, un sorriso tirato, uno sguardo negato. Era Aldo Moro sistemato nell'ultima sedia dell'ultima fila a un congresso di fine anni Sessanta (“lo vidi appartato e snobbato da tutti”, fu il resoconto di Guido Quaranta) – ma poi Moro tornò, e la sua caduta definitiva fu la raffica del mitra degli assassini. Era il vecchio Mariano Rumor – che fu capo doroteo d'immenso potere, finito insultato al congresso del suo stesso partito, e che percorreva il Transatlantico ancora roseo e sorridente, ma poteva tendere una mano per un saluto – e quella mano non essere raccolta. Era, quella dei democristiani nel momento della loro personale caduta, una sorta di “fuga mundi”, un perdersi e un nascondersi dal mondo (feroce mondo, perciò): in conventi, in preghiera, a distillar speranze di vendetta. E confidare in Dio, e a Dio rimettersi, come fu per Antonio Gava, quando fu costretto, malato e sotto attacco, a lasciare il Viminale: “Non mi dimetto perché lo chiede il Pci. Me ne vado perché me lo ha chiesto nostro Signore. E al Signore non si può dire di no”. Fu la caduta di tutto, quando in Italia tutto cadde, che trascinò via usanze e riti e persino linguaggi. Fu la saliva che, nel cadere, si seccava agli angoli della bocca del capo: ché di troppe parole spese, ora non una necessaria più si trovava. Fu allora che persino Martinazzoli, il più atipico e curioso di tutta quella Gran Corte conventuale, notò che “Dio si è voltato dall'altra parte”, e al cronista che gli chiedeva della caduta sua e di tutto ciò che restava della gloria democristiana, così rispose: “Ci vuole un'intera vita, e molta fortuna, per rifare una sola riga del Don Chisciotte” – e con un'ultima meraviglia linguistica, così democristiana e così poco democristiana, la caduta fu sigillata. E ogni luogo che fu di potere, dopo la caduta si fa necropoli, spaesata architettura – un germe di rovina, pur nella sua vita di cemento e mattoni che continua. Come Palazzo Sturzo, insensato e labirintico monumento al potere democristiano, quasi celebrativo della sua mancanza di grazia estetica, dove di notte, con un furgoncino, s'avventurava il mite Gabriele De Rosa, storico cattolico e di quella stessa storia (nel suo tramonto: di fughe disordinate e capitomboli) parte, a cercar di raccattare la memoria stessa disordinatamente abbandonata ai topi e all'incuria e agli spazzini che verranno. Lo scempio ultimo, dopo il cadere. “Lo spettacolo è indegno. Che cosa resta della tradizione, delle glorie, dei trofei della Dc? Carte, manifesti, fascicoli, gettati a terra alla rinfusa nelle stanze dell'Eur. Finisce così sghangheratamente questa dannata storia?” (dal diario del professor De Rosa).

    La slavina s'annuncia – che sia salvifica, chissà. Ché in fondo, il cadere in politica, pur circonfuso dal peccato dell'immoralità e dalla proclamazione della nuova moralità, non è dissimile allo svuotarsi di un bordello – e senza nulla avere a pretendere con le cronache ultime, piuttosto come fu evocato una volta dal regista Dino Risi, mentre rammentava certi giovanili trascorsi milanesi. “Chi non dà commercio liberi la sala!”, urlava la signora Maria, a custodia della ben avviata intrapresa, “e spegneva le luci rivolgendo parole poco gentili ai giovani uscenti, come flanelloni, fanigottoni, bollettari o, epiteto supremo: student!” – e non sarà allora che la caduta tanto del bordello quanto di un'intera era politica si riduca sostanzialmente a questo: al fatto di non dar più commercio, di non far più utili, inutili piuttosto che di scarsa santità, e quindi fuori dalla sala!, sfaccendati e bollettari!, libera sala e libera scena!, la povera Maria con un riflesso non troppo dissimile da quello del ceto medio riflessivo.

    I segnali ci sono tutti, e tutti a sacramentare sul buon menù a poco prezzo del Parlamento, e se persino il vecchio Cesare Romiti – una vita da padrone, e che padrone! – ora scalpita a motivo di effettivo sovvertimento delle cose, “organizzatevi, datevi da fare, urlate, senza eccedere naturalmente, ma urlate: io stesso non avrei problemi ad andare in piazza”, vuol dire che le crepe si stanno sempre più allargando, la solennità marmorea di chi si credette statista o capopopolo o innovatore dà segni di sbriciolamento. Come i busti del Gianicolo, di gloriosa e tediosa epica: a vederli da lontano appaiono quale parata compatta e solida, poi da vicino vedi il naso smozzicato, l'occhio cavato, l'orecchio saltato, il baffo pittato di blu, la dentatura estirpata. Il presagio della caduta è anche questo porsi sempre più a debita distanza – per evitare indebite occhiate (sarà la famosa distanza tra la politica e la società civile, chissà). I segni, leggere i segni: i menù dei parlamentari – decentemente appetibili, sconsideratamente sparagnini – che passano di mano in mano, di chiacchiera in chiacchiera, di vaffanculo in vaffanculo. I politici, che prima che la folla s'ammassi la precedono: cretino! scemo! troia!, un lisciare il pelo e un accenno, sempre, di panico – si prende quell'aria da annegati riportati che ogni tiggì mostra, capaci di rimettersi in grottesca fila per adunate all'alba come fu per la pensata pannelliana in giorni altrettanto precipitosi. Dove un semidio volteggiava – e neppur ieri l'altro tale quel ministro appariva, sulla cui simpatia nessuno s'impegnava ma del suo ingegno ognuno assicurava, e oggi pure i suoi gli vanno dietro e gli fanno cenno, da divino a (quasi) avanspettacolo, da oracolo a Ciccio Formaggio, e ognuno che pur lo temeva ora sfotte e gli taglia “'e pizze d''a paglietta”. Talleyrand – che di cadute ne ebbe innumerevoli, e ancor più innumerevoli furono le resurrezioni (a santo protettore dovrebbero prenderlo, altro che darsi a pellegrinaggi brancaleoneschi per le terre sante), e ogni regime servì, fino ad apparire scaltro e cinico e opportunista, ma stupido mai – lo sapeva che era tutta un'illusione: “Un governo che si sostiene è un governo che cade”. Saranno care memorie, dimenticanze assolute, redenzioni difficili. O rassegnarsi e incrementare la folla di fantasmi che vaga dentro il Parlamento: ex ministri, ex deputati, ex potenti, che ora nessuno riconosce e che ora nessuno saluta. “Chi l'ha mai sentito nominare…”. Come un monito sfiorano i potenti che ancora credono di esserlo – da caduti a coloro che cadranno. Simile a quella scritta nella cripta, nella chiesa dei cappuccini non troppo distante: “Noi eravamo quello che voi siete, e quello che noi siamo voi sarete”. Meglio posare il menù e andare di corsa a gettare un'occhiata.