Perché l'America in crisi si specchia sempre di più nel “Grande Gatsby”
Sono più di tre anni che se ne parla e finalmente è suonata l'ora del primo ciak per il nuovo adattamento cinematografico del “Grande Gatsby”, con la regia dell'australiano Baz Luhrmann (quello di “Moulin Rouge” e di “Australia”) e Leonardo DiCaprio nella parte che fu di Robert Redford nel 1974 (regia di Jack Clayton e sceneggiatura di Francis Ford Coppola), di Alan Ladd nel 1949 e anche di un molto meno indimenticabile Toby Stephens nel 2000, mentre l'inglese Carey Mulligan interpreterà il ruolo di Daisy (Mia Farrow nel '74).
Sono più di tre anni che se ne parla e finalmente è suonata l'ora del primo ciak per il nuovo adattamento cinematografico del “Grande Gatsby”, con la regia dell'australiano Baz Luhrmann (quello di “Moulin Rouge” e di “Australia”) e Leonardo DiCaprio nella parte che fu di Robert Redford nel 1974 (regia di Jack Clayton e sceneggiatura di Francis Ford Coppola), di Alan Ladd nel 1949 e anche di un molto meno indimenticabile Toby Stephens nel 2000, mentre l'inglese Carey Mulligan interpreterà il ruolo di Daisy (Mia Farrow nel '74).
Mai momento fu più propizio, a quanto pare, per riportare alla ribalta la storia raccontata nel 1925 da Francis Scott Fitzgerald. I temi del sogno americano minato dall'interno, della vita vissuta al di sopra delle proprie possibilità, della ricchezza dissipata, del declino incombente e della sconfitta delle ambizioni – mentre gli inquieti anni Venti sono di continuo evocati a precedente, non solo simbolico, delle attuali contingenze – concorrono a fare del “Grande Gatsby” il perfetto specchio dell'America di oggi.
Non c'è solo l'annunciato remake cinematografico a crederci. Nell'autunno del 2010 c'era stato a Broadway il successo di “Gatz” (il vero cognome di Jay Gatsby prima che se lo cambiasse per nascondere le origini tedesche, poco adatte a conquistargli il rispetto del mondo wasp), una maratona teatrale di sei ore e mezzo interrotta da due pause di settantacinque minuti (per un totale di otto ore) durante la quale l'intero romanzo di Fitzgerald veniva letto da un gruppo di impiegati nel loro ufficio, tra un affare e l'altro.
Da un paio di mesi è anche uscito il romanzo umoristico “Daisy Buchanan's Daughter”, di Tom Carson, che prende a pretesto Fizgerald per raccontare le avventure dell'ottantaseienne Pamela, una possibile “figlia” di Daisy – la donna che Gatsby amerà fino all'autodistruzione, “la figlia del re, la ragazza d'oro… sicura e orgogliosa” – e del suo consorte, l'odioso Tom Buchanan. Senza contare che esiste addirittura un videogioco, messo in commercio lo scorso anno, ambientato nella sontuosa dimora costruita da Gatsby a Long Island. Monumento imponente alla sua troppo recente e misteriosa ricchezza, dove scorrono perennemente i canonici fiumi di champagne, si balla, ci si ubriaca e tutti, tranne il padrone di casa, sembrano divertirsi moltissimo. In questo scenario – popolato da ragazze su di giri, avventurieri di piccolo calibro e gioventù dorata – la sfida consiste nel trovare cinque preziosi orologi nascosti nelle stanze della villa. A proposito della dimora che Jay Gatsby si era costruito per stare vicino a quella dove viveva l'innamorata, l'inglese David Dowling, autore nel 2006 della guida scolastica “The Great Gatsby in the Classroom. Searching for the American Dream”, ha notato, intervistato da Bbc News, che alla fine del romanzo la villa appare squallida e vuota come le tante case americane pignorate e abbandonate dopo che i loro proprietari si sono trovati nell'impossibilità di pagarne il mutuo.
La casa di Gatsby diventa insomma, per usare le parole della voce narrante del libro di Fitzgerald, Nick Carraway, la metafora di “un enorme incoerente fallimento”: quello personale di Gatsby e di un intero mondo, nelle intenzioni del romanzo; quello dell'America vissuta a credito, nella lettura estensiva che viene ora proposta. Quando Nick dice a Gatsby: “Non si può ripetere il passato”, l'altro gli risponde “Ma certo che si può”. Gatsby, che in quel caso si sbagliava, non poteva sapere che quasi novant'anni dopo – purtroppo – gli avrebbero dato ragione.
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