Anche i ricchi piangono

Stefano Cingolani

Si lamenta Lloyd C. Blankfein, il big boss di Goldman Sachs, un po' piovra un po' vampiro, come ha scritto la rivista Rolling Stone, per la capacità di stendere ovunque i tentacoli e succhiare quattrini dalle povere vittime. In una settimana ha visto uscire dal suo portafoglio personale 52 milioni di dollari. Certo, gliene restano ancora 232 milioni e 200 mila, ma anche lui, che aveva anticipato (e manipolato, secondo le accuse della magistratura newyorchese) la crisi dei subprime, questa volta è caduto in trappola.

    Si lamenta Lloyd C. Blankfein, il big boss di Goldman Sachs, un po' piovra un po' vampiro, come ha scritto la rivista Rolling Stone, per la capacità di stendere ovunque i tentacoli e succhiare quattrini dalle povere vittime. In una settimana ha visto uscire dal suo portafoglio personale 52 milioni di dollari. Certo, gliene restano ancora 232 milioni e 200 mila, ma anche lui, che aveva anticipato (e manipolato, secondo le accuse della magistratura newyorchese) la crisi dei subprime, questa volta è caduto in trappola. Chi di speculazione ferisce…

    Quasi tutti i big boss delle grandi banche sono rimasti gabbati, persino l'arrogante Jamie Dimon, capo di JP Morgan, ha visto passare il proprio patrimonio da 205,3 a 174,5 milioni tra il 29 luglio e oggi. Ostenta sicurezza e fiducia nel futuro, ma non può fare altrimenti: “Mi riprenderò, l'intero mercato si riprenderà, vi garantisco che in cinque anni Wall Street sarà molto più in alto”, dichiara all'agenzia Bloomberg. Intanto, paga per i suoi errori di previsione.

    Anche i ricchi perdono, dunque, e più sono ricchi più perdono. Eppure si sta facendo strada un senso comune anti plutocratico che vorrebbe addossare a loro i costi della crisi. Tutti i costi come chiede Giorgio Cremaschi, guru della Fiom, nucleo d'acciaio della sinistra post comunista in Italia. O una parte dei costi, come dice Pier Luigi Bersani per il quale “chi ha di più deve dare di più”, secondo i principi della giustizia distributiva spiegati da Amartya Sen. Il paradigma del fiscalmente corretto attraversa i tradizionali confini e fa breccia anche a destra. La Lega mescola nel suo calderone celtico esotiche tasse sui servizi, mentre da una parte e dall'altra si materializza ancora una volta il fantasma della patrimoniale. Roma non fa eccezione, sia chiaro. In buona parte d'Europa circola lo stesso spirito anti plutocratico che abbatte le barriere tra le due ali dello spettro politico. Il neo-gollista Nicolas Sarkozy accarezza l'idea di una imposta sulle grandi fortune di mitterrandiana, anche se non proprio fausta, memoria. José Luis Zapatero vuol lasciare, nel suo mesto tramonto, qualcosa di socialista anche in economia. Giulio Tremonti può vantare un diritto di primogenitura perché or sono tre anni rievocò la mitica figura dell'arciere di Sherwood con la sua Robin Hood tax. Dalli al ricco, crapulone e sfruttatore. Colpi duri a chi in questi anni ha ballato sulla cassa del morto.

    La politica non fa prigionieri, amico o nemico. La realtà, invece, è tutta sfumature. Ha colpito l'immaginazione collettiva, nei giorni scorsi, il faccione levantino di Carlos Slim Helú, accigliato, imbronciato, depresso, stampato su tutti i giornali del mondo. In una sola settimana, con il calo delle piazze mondiali, ha visto sfumare 6,7 miliardi di dollari. Quelli di Blankfein e Dimon sono bruscolini al confronto. Certo, il tycoon messicano rimane ancora l'uomo più ricco dell'universo, il suo patrimonio veniva valutato a 64 miliardi prima che lasciasse sul tappeto verde un dollaro su dieci in suo possesso. Ha perso dappertutto, Carlos Slim, a cominciare dal business principale, i telefoni, ai quali deve buona parte della propria potenza (América Móvil è diventato il primo operatore mobile dell'America latina) e da dove ha cominciato vent'anni fa con la privatizzazione dell'azienda pubblica del suo paese. Una crisi lo ha fatto grande, un'altra crisi adesso lo colpisce. Su di lui conviene soffermarsi perché è l'esempio più eclatante dei nuovi ricchi che arrivano dal terzo mondo.

    Quando il Messico firma nel 1992 l'accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e il Canada, una delle condizioni è la liberalizzazione di una economia chiusa e statalista, modello sudamericano. L'altra è la riduzione del debito anch'esso tipicamente gonfiato da assistenza, sovvenzioni, prebende e ruberie. L'operazione non è affatto liscia, tanto che due anni dopo scoppia una crisi finanziaria, la prima di una lunga serie che nel decennio '90 colpirà il sud est asiatico (a cominciare da Thailandia e Indonesia) coinvolgendo persino la Cina, la Russia, il Brasile, l'Argentina. Proprio i paesi che nel decennio successivo saranno protagonisti della crescita mondiale. Si potrebbe dire che i Brics nascono da quel crogiolo rovente, lo stesso che ha forgiato Carlos Slim. Di origine libanese, il padre emigrato in Messico nel 1902, dopo una carriera in multinazionali come Alcatel, si mette in proprio creando un conglomerato industriale. Finché non arriva l'occasione con la vendita dei telefoni di stato, Telmex. Oggi ha circa 200 imprese, nei settori più disparati. Mr. Monopoly lo ha definito il Wall Street Journal (América Móvil controlla ancora il 70 per cento del mercato messicano). Ma anche la sua parabola ha raggiunto l'apogeo e nell'ultimo anno la crescita che sembrava senza limiti, ha cominciato a segnare il passo fino al rovescio estivo.

    Non sono solo i manager
    delle banche americane o i magnati del terzo mondo a leccarsi le ferite. I più grandi re di denari hanno subito docce ghiacciate. John Paulson che controlla il terzo hedge fund al mondo, ha perso il dieci per cento del suo valore nella prima settimana di agosto, soprattutto per colpa delle grandi banche che ha in portafoglio, da Bank of America a Citigroup. Molti sottoscrittori hanno annunciato che si ritireranno a settembre, Johnson ha scritto una lettera per rassicurare i clienti e ha sottolineato che il 36 per cento del fondo è nelle mani dei suoi partner che non hanno intenzione di ritirarsi. Ma tutto dipende da cosa accadrà in Borsa.

    L'Oracolo, Warren Buffett,
    che da Omaha, Nebraska, media città del Mid-west, guida la più potente corazzata finanziaria americana, ha ricevuto l'onta di una bocciatura da parte di Standard & Poor's. Anche lui. E se l'è presa a male. Del resto, quando l'agenzia aveva svalutato il debito americano, si era infuriato: “Se ci fossero quattro A, i titoli del Tesoro Usa le meriterebbero tutte”. Molti sostengono che si deve a lui l'atteggiamento più cauto di Moody's della quale è il principale azionista. Illazioni respinte da Buffett, il quale ha sempre fatto dell'etica negli affari una delle sue bandiere, insieme alla prudenza, al rifiuto di investimenti puramente speculativi e alla capacità di intervenire in compagnie in difficoltà per aiutarle a risalire la china. Dall'alto dei suoi 47 miliardi di dollari che lo piazzano al terzo posto al mondo dopo Slim e Bill Gates, compiuti ormai gli ottant'anni, medita a chi lasciare le redini della sua ammiraglia, Berkshire Hathaway. Dopo tante battaglie tira i remi in barca?

    Lo sta facendo George Soros, grande rivale dell'Oracolo anche nella filosofia degli affari: speculatore, compra e vende a breve termine, colpisce imprese pericolanti per smembrarle e poi cederne i pezzi. Con una scelta clamorosa, ha deciso di chiudere il suo fondo Quantum a ogni investitore esterno, per gestire solo gli affari di famiglia insieme con i figli Jonathan e Robert. Si tratta in ogni caso di 24 miliardi e mezzo di dollari, niente male. Proprio lui che impartisce lezioni a tutti dalle colonne dei giornali contro il capitalismo selvaggio (sic!), spiega la sua scelta con l'introduzione delle nuove norme che obbligano gli hedge fund a registrarsi presso la Sec, la commissione che controlla la Borsa. Tutte queste regole, nonostante le prediche, non fanno per Soros, il figlio dell'intellighenzia ebraica ungherese, profugo in Inghilterra, che avrebbe voluto prendere la cattedra del suo maestro Karl Popper alla London School of Economics. Finché la vita non lo ha portato altrove.

    Si è ritirato nel gennaio scorso
    , compiuti i 74 anni, con una semplice nota ai 98 mila dipendenti, l'uomo più ricco di Spagna: Amancio Ortega. E' una delle poche volte che i giornali si sono occupati delle sue scelte private. Tutti nel mondo conoscono solo Zara, la catena di grandi magazzini che l'umile figlio di un ferroviere galiziano ha fondato a La Coruña nel 1975, l'anno della morte del dittatore Francisco Franco. Un caso di incredibile successo. Ha superato bene anche la recessione mondiale del 2008-2009. Il suo target, l'abbigliamento di media qualità e prezzo basso, sembra proprio la ricetta giusta nei momenti di vacche magre. E tuttavia senza di lui è difficile che Zara rimanga quel che è. Anche in questo braccio di mare, abbondano i pescecani.
    I grandi di Spagna, quelli che sentono la crisi, sono soprattutto i banchieri. Emilio Botín ha evitato che il Banco Santander finisse travolto dal crac britannico nel 2008, anzi con la sua controllata Abbey National ha fatto shopping, acquisendo sportelli e banche in fallimento. Ma non tutto è andato bene: l'arresto di Bernie Madoff gli ha fatto perdere 2,33 miliardi di euro. In Italia, dove è stato protagonista di scalate e compravendite bancarie (come Antonveneta), è uscito da Generali (sua figlia Ana era in consiglio di amministrazione). La Ferrari, della quale è principale sponsor, non dà grandi soddisfazioni quest'anno. Tanto meno Mediobanca che dal 2006 al 2010 ha perso il 58 per cento del valore borsistico e ha visto gli utili ridursi di oltre la metà. A 77 anni, Emilio Botin-Sanz de Sautuola Garcia de los Rios, figlio d'arte, lascia alla sua unica erede una banca ormai troppo grande per rimanere in famiglia.

    Dilemma che si presenta
    anche al colosso dei media, News Corp. Rupert Murdoch, protagonista indiscusso degli ultimi trent'anni, si trova davanti a un passaggio esistenziale che coinvolge anche il quarto figlio, James, da lui avviato a prendere le redini del gruppo. Lo scandalo delle intercettazioni che ha colpito il suo tabloid di punta, News of the World, e lo stop all'acquisto dell'intero pacchetto di BSkyB, sono le ultime di una serie di débâcle, la più pesante delle quali è la sconfitta nella battaglia per il controllo di Internet. Murdoch aveva puntato su MySpace che sembrava il social network più cool dell'intero mondo anglosassone. Poi è arrivato Facebook. E lo Squalo ha dovuto battere in ritirata. Non medita di andare in pensione; come i vecchi granatieri dell'Impero, preferisce restare al pezzo. Ma dovrà risolvere le liti in famiglia (anzi tra le due famiglie) prima che facciano a pezzi la sua creatura.

    Passioni travolgenti per Arnaud Lagardère
    (spazio, armi, aerei e media) invaghitosi della solita modella, la bellissima ventenne belga Jade Foret che fa impallidire persino Carla Bruni dei tempi migliori. Giochi pericolosi con gigolò per la donna più ricca di Germania Susanne Klatten Quandt (Frau BMW). Liti per “la roba” in casa Agnelli. Infatuazioni senili come per Liliane Bettencourt (l'Oréal). Voglia di mettersi al sicuro (si pensi ai Bulgari che hanno venduto al bulimico Bernard Arnault). Certo, i leoni del capitalismo non ruggiscono più. I tycoon che hanno fatto la storia degli ultimi trent'anni, sono provati dal tempo che non conosce cicli, ma è una freccia puntata in una sola direzione. E fiaccati da crisi che nessuno di loro ha previsto né capito. A cominciare da quella del 2008 dalla quale tutto prende le mosse.

    Allora lo choc per i super ricchi fu pesante. La banca d'affari Merrill Lynch e la società di consulenza Capgemini ormai da vent'anni pubblicano un rapporto sulle fortune finanziarie di chi possiede oltre un milione di dollari. Nel mondo sono quasi undici milioni con 42 mila settecento miliardi di dollari, il 72 per cento del prodotto mondiale del 2010. Il paragone non è corretto perché mette insieme uno stock accumulato nel tempo e un flusso annuo, ma dà l'idea di uno squilibrio impressionante. Ebbene, nel 2009 il loro numero era diminuito del 14,9 per cento, con una perdita complessiva di patrimonio pari a un quinto del totale. Ha perso di più, anche in percentuale, chi ha di più. I ricconi si sono rifatti l'anno successivo, tanto che lo studio sul 2010 mostra un nuovo recupero (+ 8,3 per cento con un patrimonio salito di quasi dieci punti), maggiore dove la caduta è stata brusca, soprattutto in nord America. Ma il 2011 è di nuovo a rischio.

    I Creso della globalizzazione
    sono ancora concentrati negli Stati Uniti (oltre tre milioni di milionari e hanno un terzo della ricchezza mondiale), in Giappone (un milione 739 mila) e in Germania (quasi un milione), pressati dall'arrivo dei nouveaux riches dai paesi in via di sviluppo: la Cina (al quarto posto, con 535 mila supera ormai la Gran Bretagna), l'India, l'America latina. L'Italia con 170 mila milionari, è scesa al decimo posto, sorpassata dall'Australia e tallonata dal Brasile. Un segnale anch'esso inequivocabile.

    Che il fior fiore del capitalismo
    nostrano abbia subito un duro colpo lo si può capire incrociando le analisi di R&S, la società di ricerca di Mediobanca che ha appena pubblicato il suo volume annuale e uno studio sull'andamento delle 50 principali società quotate, dal 2006 al 2010, cioè da prima che arrivasse il rallentamento della congiuntura e poi il crac di Wall Street e delle banche. Per la nostra narrazione ci serve solo prendere l'andamento del valore in Borsa in modo da valutare l'effetto sul titolo. Ma l'analisi entra nei bilanci e nei risultati operativi. Pochi mostrano un segno più. Sostanzialmente la Exor degli eredi Agnelli, sostenuta dalla complessa metamorfosi subita e dall'effetto Marchionne premiato dalla Borsa. C'è poi Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che è riuscito a tenere la quotazione precedente pur in mezzo alle montagne russe degli ultimi anni. La Danieli, Campari, Tod's di Diego Della Valle, Recordati. Hanno perso con percentuali a due cifre (in alcuni casi fino al 70 per cento) i bei nomi della finanza e dell'industria: Pesenti, Benetton, Berlusconi (in Borsa con Mediaset e Mondadori), la Indesit dei Merloni, la Cofide di Carlo De Benedetti, De Agostini, Caltagirone, Pirelli, Ligresti. Non si sono salvate nemmeno le imprese pubbliche (Eni, Enel, Finmeccanica), le grandi banche (Unicredit e Intesa), le assicurazioni, con in testa Generali. Ciò rispecchia, del resto, la congiuntura con un prodotto lordo che non ha recuperato ancora i livelli ante crisi. Macro e microeconomia, imprese, azioni, capitalisti, si muovono sostanzialmente in sintonia. Allora non è vero che i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri?
    “Certo che è vero”, giura Jean-Paul Fitoussi l'economista francese ben radicato in Italia (tra l'altro siede nei consigli di Telecom e Banca Intesa, oltre che docente alla Luiss, l'Università della Confindustria). “Se non ci fosse stato un aumento della sperequazione sociale, non si sarebbe nemmeno verificato il boom degli aste finanziari che ha provocato la bolla del 2007. Mentre l'aumento dei poveri spiega perché la domanda rimane fiacca e l'economia non riparte, nonostante l'abnorme aumento del debito”. La sinistra keynesiana colpisce ancora e fornisce gli argomenti per manovre economiche che fanno perno sugli aumenti fiscali, le patrimoniali, “l'eutanasia del rentier”.

    Che fine ha fatto il trickle-down
    dei Reagan boys secondo i quali la ricchezza è destinata a colare verso il basso come il grasso dell'oca al forno? E il capitalismo di massa clintoniano? E la Big Society che si autogoverna pacifica, sepolta dagli hooligan dei nuovi ghetti? Modelli arrivati al capolinea, senza che se ne presenti uno nuovo. Ci manca il paradigma, anche per questo la crisi non finisce mai. Allora, chi può coltiva i cavoletti come il vecchio Diocleziano nel palazzo-fortezza di Spalato, il primo imperatore a dare le dimissioni. Chi non può, paga tasse e sovrattasse. Pardon, contributi solidali.