L'ora d'aria della Repubblica
La prima volta che finii in carcere fu per schiamazzi notturni e complicità nel furto della ruota di scorta di una Cinquecento. Doveva essere il 1971 o il 1972, non ricordo più bene, comunque molto prima di quel novembre 1976 in cui Adele Faccio, Emma Bonino e Mauro Mellini, barricandosi dentro le Murate di Firenze, dettero il via sotto la regia di Marco Pannella alla battaglia dei Radicali contro le ignominie del sistema carcerario, per una giustizia giusta.
La prima volta che finii in carcere fu per schiamazzi notturni e complicità nel furto della ruota di scorta di una Cinquecento. Doveva essere il 1971 o il 1972, non ricordo più bene, comunque molto prima di quel novembre 1976 in cui Adele Faccio, Emma Bonino e Mauro Mellini, barricandosi dentro le Murate di Firenze, dettero il via sotto la regia di Marco Pannella alla battaglia dei Radicali contro le ignominie del sistema carcerario, per una giustizia giusta.
In quell'inizio degli anni Settanta nelle celle “de Reggina”, come la chiamano a Roma, c'era ancora il bugliolo, il bidone dove si urinava e defecava davanti agli altri, privilegio storicamente riservato soltanto al Re Sole. Ma non fu questo a traumatizzarmi. Né il dover sfilare attraverso una teoria di inferriate, né la perquisizione corporale, né l'inchiostro nero spalmato sui polpastrelli per prendere le impronte digitali, né le rituali foto segnaletiche di faccia e di profilo. Non ebbi paura dello sguardo di astio delle guardie né mi colpì la ruvida scortesia con cui mi misero in braccio coperte di lana altrettanto ruvide e lenzuola rattoppate che sapevano di liscivia. La ferita, lo choc, l'avvertii quando sentii la porta della cella richiudersi alle spalle. Ricordo che mi voltai indietro, fissai la grata, la chiave e la guardia che la girava nella toppa, una reazione da debuttante che non si dovrebbe mai avere. Quella volta ci rimasi solo qualche giorno, negli anni a seguire ebbi modo e occasione di tornarci di nuovo per soggiorni più lunghi: ma quella sensazione di smarrimento non la ritrovai più, nell'anima ero già recidivo, appartenevo al club di quelli che sanno cosa c'è al di là della grata, che quindi non si girano più quando la porta si chiude e per prima cosa gettano uno sguardo ai compagni di cella.
In fondo è tutto qui il carcere, un click. Basta quello stridore meccanico a dare la sensazione che il tuo mondo è ridotto a una stia, che ti hanno estirpato dalla tua comunità e scisso la vita tra un prima e un dopo: il resto, l'isolamento imposto, le punizioni, le vessazioni quotidiane piccole e grandi, il negare un giorno quello che hanno concesso il giorno prima, la privazione persino di uno spazzolino da denti, tutto questo non ha nulla a che vedere né con la sicurezza né con il controllo, è puro arbitrio, ottuso sopruso amministrativo, cieca rivalsa dei micro poteri, tanto crudele quanto inutile.
Trentacinque anni fa i Radicali capirono tutto questo come d'incanto. Nemmeno loro sapevano quello che si prova quando viene girata la chiave di una cella, rinchiudersi in un carcere per protesta non sarà mai la stessa cosa. Eppure hanno capito. A pelle, con il cuore, con il corpo. Certo avevano anche ideali, volevano giustizia, si ripromettevano di difendere identità e dignità calpestate, coltivavano con puntiglio e persino in modo petulante, esagerato, la legalità in tutte le sue forme. Ma non avrebbero potuto prendere a testate un muro di gomma per un terzo di secolo se non avessero avuto un dono sconosciuto ad altri: la pietas, l'empatia istintiva con gli ultimi e gli ultimi fra gli ultimi. E' questo il sentimento che insieme alla non violenza rende diversi i Radicali. Diceva Gianni Baget Bozzo che Pannella era un profeta con motivazioni religiose, “interno alla cristianità italiana, volto a castigare il corpo per elevare l'anima, un impolitico che attraverso la politica non mira al governo ma a riformare l'orizzonte spirituale degli uomini”.
Lo stesso sentimento che, se gliene avessero lasciato il tempo, Pier Paolo Pasolini avrebbe descritto come “ricerca dappertutto di forme alterne e subalterne di cultura, al centro della città, e negli angoli più lontani, più morti, più infrequentabili, il coraggio di non avere alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, di non soggiacere ad alcun ricatto, di non avere paura né di meretrici né di pubblicani e neanche ed è tutto dire di fascisti”. O che più semplicemente sedusse Leonardo Sciascia al punto di vedere in Pannella il solo uomo politico che costantemente dimostrasse senso del diritto, della legge, della giustizia.
In quel 1976, i quattro radicali eletti per la prima volta in Parlamento e i loro supplenti, Franco De Cataldo, Roberto Cicciomessere, suor Marisa Galli, Angelo Pezzana, cominciarono ad andare su e giù per carceri normali e speciali, da Poggioreale all'Ucciardone, dalle Nuove a San Vittore a Regina Coeli, e Volterra, Trani, Palmi, Badu e Carros, Asinara, Pianosa: non ci sarà più Natale Capodanno o Ferragosto che non li vedrà passare qualche ora a ispezionare le carceri, a verificare le condizioni di detenzione, a parlare con i detenuti: per la prima volta nella storia repubblicana dei parlamentari si metteranno a esercitare una prerogativa rimasta lettera morta per trenta anni.
Così i Radicali diventano compagni, se non di sangue, almeno in carne della varia umanità ammassata nelle discariche del sistema giudiziario. Anche miei perciò, e di altri compagni che a stare rinchiusi si stempiavano o gli venivano i capelli bianchi. E dire che per anni li avevamo guardati con stolta sufficienza e con l'ironia sguaiata dei violenti. Ma loro erano lì, lo stesso, al nostro fianco. Uno in particolare, Toni Negri, se lo imbarcarono sulle liste elettorali e lo portarono in Parlamento, dopo cinque anni che stava in carcere senza alcuna condanna. Oddio non fu solo altruismo, la notorietà del “luciferino cattivo maestro” era tale da raccogliere anche un buon pacchetto di voti ma il calcolo che pure ci fu non tolse nulla alla forza simbolica e al coraggio della proposta radicale.
Ricorda Pannella: “Attraversammo estati di fuoco, rivolte e repressioni nelle case di pena italiane, dove la pubblica amministrazione e i governi hanno fino a oggi sequestrato due milioni di persone per oltre il 60 per cento dichiarate poi innocenti dalla giustizia stessa”.
Durante le rivolte di quegli anni pochi erano i detenuti che accettavano di incontrare socialisti o comunisti, il solo interlocutore richiesto è lui, il politico anomalo e disarmato che fa del proprio corpo strumento di lotta. Ed è difficile dare torto a quei detenuti che lo acclamano dai tetti quando il modello di normalità è una tale Maria Elisabetta Alberti Casellati, sottosegretario alla Giustizia che va in visita a Regina Coeli e pretende un tappeto rosso in segno di benvenuto. Siccome rosso non c'è, ne rimediano uno azzurro, forse la stoffa non è di primissima qualità, fatto sta che lei inciampa e rovina fragorosamente al suolo.
La diversità dei Radicali e dei loro compagni di strada, come le comunità cattoliche di base di don Mazzi e di don Gallo, spicca di fronte alla piccolezza, alla miopia dei partiti di governo e dell'allora Partito comunista: il compromesso storico, la convergenza tra due culture politiche e due concezioni dello stato non propriamente liberali, sarà l'ostacolo principale che incontreranno le proposte radicali di riforma della giustizia e di un'amnistia che svuoti i sotterranei della vergogna. In una lettera al leader radicale apparsa sul Corriere della Sera, Pasolini denuncia la “macerie di valori umanistici”, una distruzione più grave che nel 1945 perché operata “da uomini di potere con fini abietti e con stupida inconsapevolezza”. Il sistema carcerario comunque migliora, lentamente ma migliora, alcuni obbrobri vengono cancellati, la filosofia di Nicolò Amato a capo del dipartimento degli Affari penali al ministero della Giustizia dà alcuni risultati significativi. L'affare Tortora però dimostra come la strada sia ancora lunga, come non sia facile rimediare ai danni provocati dalla macchina dell'ingiustizia. “La nostra mobilitazione al fianco di Enzo Tortora – racconta Massimo Bordin – fu immediata non per la certezza della sua innocenza ma per la certezza delle colpe dei magistrati napoletani: su mille persone coinvolte nell'inchiesta, quasi cento persone, una su dieci, furono arrestate per omonimia”: quei magistrati, aggiunge l'ex direttore di Radio radicale, hanno fatto una carriera smagliante, chi alla Dia chi alla procura di Catanzaro, chi addirittura al Csm. Sono queste “le filiere assassine” di cui parla Pannella nella prefazione a “Tortura democratica”, il libro di Sergio D'Elia e Maurizio Turco, “le scie dei cento e cento casi Tortora, Cirillo, Moro, con i loro gruppi di fuoco costituiti da magistrati, giornalisti, terroristi e criminali comuni, pentiti e politici non cancellate, anzi divenute malcelati orpelli di grandi carriere, di storie e complicità fra individui potenti”.
Va almeno dato atto al profeta e alla sua banda di non aver mai fatto un passo indietro, di aver attaccato duramente anche il cosiddetto articolo 41 bis che prevede il carcere duro per mafiosi e capi della criminalità organizzata. All'indomani dell'attentato a Paolo Borsellino, una settantina fra loro vengono prelevati nottetempo dall'Ucciardone e da altre carceri siciliane, impacchettati e portati chi all'Asinara chi alla sezione Agrippa di Pianosa improvvisamente riaperta, tenuti per settimane in condizioni indegne di un paese civile che ha anche la pretesa di essere culla del diritto. I Radicali denunciano la cosa, presentano interpellanze, protestano con veemenza. Sono ovviamente soli. “Abbiamo sempre criticato quella legge, spiega Bordin, così come l'hanno severamente criticata varie istanze e corti di giustizia europee. Diciamo la cruda verità: se tu ti metti a fare vessazioni quotidiane a un mafioso e gli dici guarda che se parli smetto non fai altro che esercitare un ricatto sul suo corpo. E cos'è questo se non tortura?”.
Trentacinque anni di battaglie vanno sempre a onore di coloro che le combattono e per definizione non ammettono un bilancio, se non la convinzione mai incrinatasi che indignarsi è giusto, ribellarsi allo stato di cose un dovere. E' il senso angoscioso dell'ultima iniziativa, “Un'amnistia per la Repubblica” preparata da mesi e costruita con un'attenzione particolare a Giorgio Napolitano. Il feeling con il Quirinale pare risalga a uno dei primi atti ufficiali del capo dello stato, la risposta a Piero Welby in cui disse di voler esercitare il suo diritto d'ascolto: parole in punta di penna per i comuni mortali, non per Pannella che rimase impressionato da una correttezza istituzionale così inusuale. Siccome non è solo un importatore di Gandhi ma anche un politico consumato e un liberale scaltro, se il capo dello stato dice che la situazione delle carceri nel paese è intollerabile e che la giustizia si impone come questione di prepotente urgenza costituzionale e civile, ecco che Pannella lo prende au pied de la lettre, qui e subito, per “cercare di riportare le carceri italiane a livelli minimi di legalità e ripristinare il funzionamento di una giustizia lenta, di classe che tiene in ostaggio ormai un terzo della popolazione”.
Nonostante l'età ha sfoderato di nuovo le sue armi, quelle che irritano alcuni o vengono viste come ricatto da altri, ha digiunato dal 20 aprile al 19 luglio, in alcuni giorni ha pure rifiutato di assumere liquidi, tenendo in apprensione chi lo ama e non ci sta proprio a perderlo, le migliaia che hanno seguito il suo esempio e digiunato. Al clou dell'iniziativa prevista per domenica 14 agosto – una giornata di sciopero totale della fame e della sete per chiedere la convocazione straordinaria del Parlamento perché si occupi della giustizia e delle carceri, “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile” – questo Marco che è il fratello di tutti noi che almeno una volta abbiamo sentito girare la chiave di una cella, si presenterà più debole nel corpo ma con determinazione intatta nell'anima. Al suo appello hanno aderito in molti, oltre mille, intellettuali, giornalisti e fino a qualche giorno fa trecentosettantuno fra deputati e senatori. Sa bene che non c'è da fidarsi molto di chi pianse alle parole accorate di Papa Giovanni Paolo II e poi votò un indulto vergognoso subito rinnegato da tutti. Ma così come un Papa, anche un profeta non fa le battaglie che vince ma quelle che deve.
(ha collaborato Valentina Ascione)
Il Foglio sportivo - in corpore sano