Nostalgia di Gengis Cav.

Stefano Di Michele

Altro che “Una storia italiana” – “Una storia mongola”, piuttosto. Dimentichi il Cav. la mappazza fotografica di una decina di anni fa – roba destinata a creare impressione soprattutto presso i negozi di parrucchieri di target medio-basso – e si concentri sul meraviglioso “Il Conquistatore del mondo”, di René Grousset, appena pubblicato da Adelphi. E' una biografia di Temüjin – il futuro Gengis Khan: l'Oceano, oppure l'Incrollabile.

    Altro che “Una storia italiana” – “Una storia mongola”, piuttosto. Dimentichi il Cav. la mappazza fotografica di una decina di anni fa – roba destinata a creare impressione soprattutto presso i negozi di parrucchieri di target medio-basso – e si concentri sul meraviglioso “Il Conquistatore del mondo”, di René Grousset, appena pubblicato da Adelphi. E' una biografia di Temüjin – il futuro Gengis Khan: l'Oceano, oppure l'Incrollabile. Non per sollecitare immediata identificazione – figurarsi, il Cav. a sentir parlare di Conquistatore e di Oceano (fosse pure la sola Costa Smeralda) e di Incrollabile, certo subito un saltello sul proscenio (seppur più che con falcata da equino della steppa da composto pony di scuola viennese) è tentato di farlo: “Eccomi, son mi!”, come Miguel er merenderoooo di venerata memoria pubblicitaria.

    Ma a mettere insieme i fatti della sua vicenda e quelli di otto-nove secoli fa in terra mongola, qualche divertente similitudine si trova (fatta la tara, ovviamente, sulla descrizione fisica di Temüjin, “la notevole altezza” che potrebbe mettere fuori strada) – così che, alla fine, non è impossibile immaginare un sorprendente passaggio dal casalingo e consueto Cav. a un più suggestivo e bellicoso Gengis Cav. Che altro che don Sturzo o Cavour o Villa Certosa – piuttosto la memoria del khan Qutula, “le sue mani vigorose, simili alle zampe di un orso, con cui era capace di spezzare in due un uomo come fosse una freccia”, o di suo padre Yisügei il Coraggioso; e la iurta reale, la tenda mongola, per casa: quando il nemico è alle porte, la smonti e parti, beninteso col suo carico di fanciulle “dalle gote splendenti”, otri di latte di giumenta fermentato, ben più sostanzioso e magari peccaminoso dello stucchevole sanbittèr.

    Similitudini che danno da pensare. Così come il Gengis Cav. si ritiene messo alla gogna mediatica, così Gengis Khan fu effettivamente messo dai nemici alla canga, “una sorta di gogna mobile”, e così combinato andava “vagando di iurta in iurta, costantemente sorvegliato”. E se è nota la vicenda, dall'Unto Gengis Cav. costantemente evocata, dell'avvenuta Unzione, non fu forse Gengis Khan sempre costantemente sotto la protezione dell'Eterno Tengri, l'Eterno Cielo Blu che sta sopra a tutto? – e onestamente, tra il blu e l'azzurro è solo questione di sfumatura. E più ancora, non è forse parte della mistica del Gengis Cav. brianzolo la faccenda del sole da portare sempre in tasca? Beh, ecco cosa sognò il capotribù Dei-secˇen la notte prima di incontrare l'ancora giovane Temüjin: “Un falcone bianco, che stringeva tra gli artigli il sole e la luna, è sceso dal cielo per venire a posarsi sulla mia mano”. E la faccenda della traversata del deserto politico, che l'oceanico nostro premier costantemente rammenta ai fedeli (e magari ai nipoti), di quei dì che politicamente in disgrazia si trovava? Lo stesso toccò a Gengis Khan: deserto di Gobi piuttosto che desolazione arcoriana, ma come metafora ci siamo, “la ghiaia e la sabbia e l'argilla formano un suolo duro e compatto”. E a scrutare bene con attenzione, tra le pagine appassionanti del “Conquistatore del mondo”, persino il Predellino – l'elevazione a capo, diciamo khan, per acclamazione popolare – si rintraccia. Certo, il Gengis Cav. del Terzo millennio se la sbriga più modestamente a piazza San Babila, mentre al Gengis Khan mongolo gli tocca arrancare “nel sito di Qara-Virüken, sul fiumiciattolo Sang-ghur, primo affluente di sinistra del Kerulen, al riparo del monte Gurelgu e presso uno stagno che i Mongoli chiamavano ‘lago azzurro' (Kökö-na'ur)” – nientemeno “lago azzurro”, chiarissimo segno del destino. Fu lì che le tribù adunate gli presentarono questo programma, che Gengis Khan approvò e che Gengis Cav. farebbe suo all'istante: “Vogliamo eleggerti khan. Allorché tu sarai diventato khan, per te galopperemo contro il nemico come avanguardia. Le donne più belle che cattureremo, le fanciulle dalle gote splendenti, te le porteremo nella tenda reale (ordo-ger)… Se in tempo di guerra dovessimo mai trasgredire ai tuoi ordini, spogliaci delle nostre donne e di tutti i nostri beni, fa' rotolare al suolo le nostre teste nere di schiavi…”. Così nacque Cˇinggis-qan – Gengis Khan, appunto; così (più o meno, parecchio meno) nacque il pidielle e il suo apposito Cˇinggis-cav. E ciò che il capo mongolo disse ai suoi nuovi fedeli, più o meno il capo brianzolo disse ai suoi, di fedeli, al momento dell'esordio alla conquista delle lande italiche: “Voi sarete, se il Cielo e la Terra sosterranno il mio regno, i primi tra i miei fedeli, i capostipiti del mio impero, i fortunati compagni della mia buona sorte!” – fece solo attenzione a non usare la parola “compagni” che in Brianza impressiona più che in Mongolia.

    E da quel momento in poi, tali e quali furono la politica e le campagne d'armi che i due dovettero affrontare: federare le tribù mongole Gengis Khan, federare le tribù moderate Gengis Cav. E se il secondo pian piano adunò Giovanardi e Nucara, Bossi e Fini, Capezzone e Stracquadanio, il primo dovette assoggettare i Tatari e i Kereyit, i Merkit e gli Onggirat, i Qatagin e i Taycˇi'ut. E tutti a promettere impegno e dedizione, come il sottomesso re kereyit Toghril: “Il tuo popolo che si è disperso, io lo radunerò per te. Lo salderò a te come il deretano è saldato alle reni, e il petto alla gola”. Ma uguale discorso si sentirono di fare, anni dopo, ai tanti che avevano elevato: “Erano delle zucche e li ho trasformati in principi” (Gengis Cav.); “Ti ho messo all'ingrasso quando morivi di fame” (Gengis Khan). Ché intanto i nemici minacciosi restavano: come certi avi di Gengis Khan furono impalati “su un asino di legno” per volontà del Re d'Oro di Pechino, non vorrebbero forse, sospetta Gengis Cav., certi “giudici comunisti” – pechinesi e maoisti, probabilmente – impalare pure lui a simile bestia?
    E pare d'intendere, a scorrere le pagine di Grousset, che identici discorsi possano correre ancor oggi tra alleati ed ex alleati e Gengis Cav., come allora tra alleati ed ex alleati e Gengis Khan. Tra il capo mongolo e il capo tribù Ong-khan, così come tra il capo brianzolo e quello leghista Bossi-khan, servirebbero forse parole diverse? “Se una terza persona tenta di instillare diffidenza e discordia tra di noi per morderci, non permetteremo che il suo morso abbia presa su di noi, ma presteremo fede solo a quello che diciamo l'un l'altro, in completa sincerità”.

    E per la rovina del rapporto tra Gengis Cav. e Fini-khan, cos'altro dire che se non ciò che Gengis Khan disse a un suo antico sodale? “Perché sei entrato in rotta con me e perché hai deciso di spaventarmi? (…) Se un carro perde una delle sue due stanghe, il bue non può più trainarlo. Se perde una delle sue due ruote, non può avanzare. E io non ero forse una delle due stanghe, una delle due ruote del tuo carro?”. E lo stesso, quando dal fronte opposto qualcuno accorre in soccorso del vincitore, non deve forse Gengis Cav. regolarsi come regolarsi doveva Gengis Khan, dando ai nuovi arrivati “il permesso di serbare per sé, nella caccia come in guerra, quanta selvaggina fossero riusciti ad abbattere, quanto bottino fossero riusciti ad arraffare”? Fortuna – per ogni razza di conquistatori – che c'è comunque un Gianni Letta, nella steppa come a Palazzo Chigi: un saggio abruzzese nel caso di Gengis Cav., un saggio cinese per Gengis Khan, che cercherà di ingentilire la sua cultura nomade, e ai suoi eredi insegnerà pure a brutto muso che se l'impero è stato “conquistato a cavallo”, lo stesso impero non può essere “governato a cavallo”.

    Il mongolo saggiamente gli dava ascolto, il brianzolo ogni tanto si distrae. Gengis Khan arrivò a lambire il palazzo imperiale di Pechino, creando uno degli imperi più sconfinati di tutta la storia umana. Invece Gengis Cav. il Palazzo se l'è preso direttamente, tribù e clan ha attruppato attorno a sé, ma lo stesso il Muro di Piombino, che pure voleva abbattere anni fa, costeggiandolo dalla Nave Azzurra, e che certo non è la Grande Muraglia, ancora resiste. Erano così, le truppe di Gengis Khan: “Hanno fronti di bronzo, le loro fauci sono come una tagliola, la loro lingua come un punteruolo, il loro cuore è di ferro, la loro coda è come una spada. Si dissetano di rugiada. Corrono a cavallo del vento”. Inevitabile che da Cicchitto a Quagliariello, da Gasparri a Lupi, si vada invece più al piccolo trotto – manca magari un po' la “steppa a dorso d'asino” (Sa'ari-ke'er), e un po' pure la “steppa del cammello” (Teme'en-ke're). Troppo poco i soli cactus di Villa Certosa.