Il Cous Cous Clan
Di nascita è comunista, perché non si poteva non nascere comunista in una terra dove si sparava sui contadini. Di suo è geometra e in quanto comunista, lui dice, il Raymond Poulidor, eterno secondo in graduatoria e primo fra i non assunti in tutti i concorsi pubblici banditi da anni a questa parte. Ma nel suo foro interiore se ne frega del comunismo che fu e del catasto che c'è, e magari fa danni anche peggiori: la realizzazione di sé, quella cosa che dà luce allo sguardo, che fa parlare, mette in collera, emoziona e appassiona, insomma la ragione d'essere liberi, Salvatore Bonafede da Petrosino, l'ha trovata nel cous cous.
Di nascita è comunista, perché non si poteva non nascere comunista in una terra dove si sparava sui contadini. Di suo è geometra e in quanto comunista, lui dice, il Raymond Poulidor, eterno secondo in graduatoria e primo fra i non assunti in tutti i concorsi pubblici banditi da anni a questa parte. Ma nel suo foro interiore se ne frega del comunismo che fu e del catasto che c'è, e magari fa danni anche peggiori: la realizzazione di sé, quella cosa che dà luce allo sguardo, che fa parlare, mette in collera, emoziona e appassiona, insomma la ragione d'essere liberi, Salvatore Bonafede da Petrosino, ottomila anime, un tempo frazione di Marsala da trenta anni comune a sé stante e tale destinato a rimanere, l'ha trovata nel cous cous. Tutte le sere al Playa del Sol, il suo stabilimento balneare tutto in legno e perciò trendy, tra Marsala e Mazara del Vallo, dove c'è sempre il vento e il mare fa quello che vuole, prepara un cous cous che non ha eguali. Vengono un po' da tutte le parti e gli amici portano via quello che avanza perché l'indomani è, pare, ancora migliore.
Un piatto che altrove evoca immigrazione e fobie padane. Non qui. C'è chi dice che da questa sponda del Mediterraneo lo si cucinasse ben prima delle scorribande saracene e che gli arabi del nord Africa siano riusciti astutamente a farne cosa loro. Il che ovviamente vellica i siciliani abituati a pensare che ogni cosa abbia avuto principio e cominciamento nella loro isola. Ma rafforza anche quel certo orgoglio nazionale per aver inventato di tutto e quello che non abbiamo inventato per saperlo fare meglio degli altri. Solo che se si chiede poi a Salvatore perché solo da queste parti la semola non è banale semolino, ultima ridotta dei diversamente anziani, ma per l'appunto cous cous con tutto quello che lascia immaginare di godurioso, le risposte sono vaghe: dice che in quel tratto di costa il pesce è sempre stato così tanto che lo si poteva prendere addirittura con le mani, che è sempre stato particolarmente profumato per via delle forti correnti che tengono pulito il mare e così i contadini poveri cominciarono ad arrivare dall'entroterra, si portavano dietro la semola, accendevano il fuoco sulla spiaggia e la mischiavano con il pesce. Insomma tutto uno spot in favore della buona autarchia, della bellezza del chilometro zero.
In vero, è tutta una questione di arte. E della tradizione plurisecolare Salvatore è esponente eminente, che ogni anno si esibisce al festival che si tiene a San Vito Lo Capo. Dove sbarcano a centinaia per mettersi in fila con il piatto in mano. E “la coda da me è sempre la più lunga” gongola. L'ultima volta pare che il profumo si sentisse per trecento metri alla ronda e non era nemmeno cous cous di pesce, ma di babbaluci, quei lumaconi bianchi che quando finiscono in padella mandano ai matti siciliani e non. Il primo premio lo ha vinto la cuoca personale del re del Marocco, che però ha pensato bene di fare un salto nello stand di Salvatore. E lui un paio di segreti glieli ha pure svelati, preparare la semola la notte prima, farla riposare con spicchi d'aglio interi in modo che acquisti sapore. Ma mai l'essenziale, quello che hanno insegnato la nonna e la nonna della nonna, che si tramanda di generazione in generazione e fa la sua grandezza di chef. Cose su cui Salvatore è davvero avaro di spiegazioni. Accenna vagamente che dipende anzitutto da come si sceglie la semola, poi da come la si lava, dalla velocità con cui si fa scorrere l'acqua, se la si fa scivolare o meno sulla mano che impasta. Ma in fondo a che serve fare domande a cui solo il palato di chi gusta può rispondere davvero? Semmai qualche conto: a dieci chili di semola minimo ogni cento persone, più o meno mezzo quintale da lavare a regola d'arte, ore e ore in piedi, le gambe che diventano insensibili, le caviglie che si gonfiano. Ecco perché anche il cous cous è arte.
Il Foglio sportivo - in corpore sano