L'insulto elegante
Adesso, esattamente prima del ritorno dalle ferie, sarebbe il caso di mettere da parte la parola “nano” – mica per devozione brunettiana, che pur sempre l'apposito ministro prende ma dà: insomma, se la cerca – solo perché il troppo stroppia, e nell'insulto che mira all'aspetto fisico c'è sempre una parte di gratuita violenza. Per dire: un politico cretino è oggettiva condizione da sottoporre a repentino e ripetuto sberleffo.
Purtuttavia l'arte dell'insulto richiede un alto livello di risolutezza e di profonda abilità mentale; non significa che ognuno possa fare tutto ciò che gli pare e persino parlare in modo sventato (…) Tali situazioni incresciose mettono in luce la totale negligenza verso i principi dell'abilità d'insultare…” (Liang Shiqiu, “La nobile arte dell'insulto”, Einaudi)
Adesso, esattamente prima del ritorno dalle ferie, sarebbe il caso di mettere da parte la parola “nano” – mica per devozione brunettiana, che pur sempre l'apposito ministro prende ma dà: insomma, se la cerca – solo perché il troppo stroppia, e nell'insulto che mira all'aspetto fisico c'è sempre una parte di gratuita violenza. Per dire: un politico cretino (e ci sarebbe da mietere come nei campi di grano a luglio) è oggettiva condizione da sottoporre a repentino e ripetuto sberleffo; ancora meglio nel caso di un politico intelligente – non cretino di suo, dunque cretino di convenienza, e l'insulto a tale altezza deve allora giungere. Insomma, ha da mostrarsi intelligente, oltre l'insultato, anche l'insultante (che di solito, con la faccenda dell'indignazione agitata a vessillo sopra la capoccia, tale obbligo ritiene di abbuonarsi).
Ma torniamo ai nani, per poi non tornarci più. Ora, a parte il piacere leghista e pedemontano dell'insulto di non troppa sofisticata qualità – ci furon precedenti di scorregge e cessi e durezze sempre vantate e poco certificate – anche scendendo più a valle si scopre l'uso dello stesso, risaputo epiteto. Non ha forse il travagliesco “Cainano” sostituito, persino nel lessico del comune sentire di piazza, il morettiano, sofisticato “Caimano”? E se certo fu più filologicamente strutturato “l'energumeno tascabile” di stampo dalemiano, addirittura in musica il divertente Checco Zalone ha messo la questione nella sua “Taranta del centrodestra”, là ove richiama, seppur con indiretta evocazione, “evviva Brunetta, persona come si deve / Evviva tutti e sette… Evviva Biancaneve”, e così Maurizio Crozza inevitabilmente porta in scena l'irruento ministro piegato sulle ginocchia. Il peccato veniale berlusconiano di allungarsi qualche centimetro di straforo – vuoi a motivo di tacchi slancianti, vuoi a ragione di sedie e palchetti strategicamente posizionati – può rappresentare motivo di accanimento satirico? Son ritocchi al metraggio di innocente vanità, per minimamente svettare – mica, per dire, una questione di centimetri quali quelli di Clark Gable posti in luce da sua moglie Carol Lombard: “‘Re di Hollywood?' Se avesse solo un centimetro in meno lo chiamerebbero ‘Regina di Hollywood'…”, che anzi nel caso del Cav. molti sospetti sono possibili, ma questo pare del tutto da escludersi. Nano, nano, nano… Bisogna sempre saperne uscire con una certa classe – come fece Nicole Kidman quando lasciò il caruccio ma non proprio sovrastante Tom Cruise: “Finalmente posso tornare a mettere le scarpe con i tacchi!” – e abbandonare al solo genere letterario-musicale il giudice nano cantato da De Andre', incattivito dal fatto di avere “il cuore troppo vicino al buco del culo”. Che poi, la faccenda della bassa statura quale insulto in politica si poteva già considerare chiusa con il suo debutto nell'Aula di Montecitorio nel 1971, quando Fanfani – peraltro immortalato in una magnifica foto mentre parlava da dietro una tribuna issato su una pila di giornali – correva per il Quirinale e fu affossato dai suoi amici democristiani, che nel segreto della cabina anziché scrivere il suo nome poetavano: “Nano maledetto / non sarai mai eletto”.
E quindi – via nano, coglione, cretino, checca, zecca (nel senso di comunista, recentemente innalzata a dignità comiziale dalla presidente laziale Polverini), fottiti, vaffanculo, palle di velluto e palle di ferro, schifoso, coglione (il Cav. molti ne vede in prossimità delle urne elettorali), rompere i coglioni (attività che Bersani attribuisce alla Gelmini), lo specifico scajoliano di rompicoglioni, stronzo (da Fini pur rivendicato per buona causa: saluto da indirizzare ai razzisti), coniglio, merda, venduto, farabutto – poi un ladro sempre ladro resta, pur se uno va a cercare possibili sinonimi: una rosa è una rosa è una rosa, un ladro può sempre essere un mariuolo. Ma a difesa dell'insulto stesso – della sua efficacia, del suo elevarsi da rutto a fulminante annotazione – di tante porcate, calderolianamente parlando, un falò occorre fare (a meno che non sia Totò, e allora si può dire tranquillamente: “Lei è un cretino, s'informi!”, senza essere scambiati per un ministro). Immediatamente dopo occorre un nuovo solido indottrinamento – ché le botteghe mediatiche televisive, con la componente cavernicola che ne declinano efficacia e limite, stanno per riaprire, e un ripresentarsi affinati anziché al solito biliosi può essere di un certo conforto: per la battaglia che si combatte (se a qualcuno frega), e per il diletto dello spettatore – che il rutto vuole, ma all'assenza di rutto è pure capace di abituarsi. O tenersene fuori, ma senza l'aria del troppo fighetto che la plebe non merita. Avere, nel caso, lo charme linguistico di un Martinazzoli quando rifiutò l'invito a una trasmissione di Santoro: “Io lì non ci vado, quella è una fumeria d'oppio”. E perciò, da dove cominciare? O da qualche libro, o da qualche pratico esempio. Che pure i famosi padri costituenti, scomodati a perenne cazzeggio quotidiano, hanno molto da insegnare. Dove oggi, sbrigativamente, uno dice all'altro “cretino” o “rimbambito” o “coglione!”, e dai!, così se la cavava Francesco Saverio Nitti con il detestato Vittorio Emanuele Orlando (antipatie dai giorni dell'era giolittiana) che faceva notare come oramai camminasse con fatica: “La vecchiaia: a qualcuno prende le gambe e ad altri la testa. Orlando cammina benissimo”.
L'insulto felice, il bell'insulto, richiede innanzi tutto personale intelligenza delle cose e indiscutibile felicità di spirito. Insomma, un po' Churchill e un po' Oscar Wilde – neanche a ravanare sotto tutti gli scranni di Montecitorio si troverebbe tale mirabile combinazione. Così, meglio munirsi di alcuni indispensabili volumi – studiarli a fondo, mandarli a mente e buttarli via: se un insulto intelligente bisogna leggerlo prima di scandirlo, meglio stare zitti: l'intelligenza dello stesso svelerebbe l'esatto opposto del momentaneo oratore. Dunque, l'onorevole – cosciente di quanto dà al paese e di quanto, contemporaneamente, il paese fa incazzare – proceda così: spedisca l'autista, invece che a raccattare i soliti biglietti a sbafo per la tribuna dello stadio, in libreria, fornito di una buona lista. Che potrebbe essere la seguente: a) “L'arte di tacere”, dell'Abate Dinouart – un mondano ecclesiastico francese del Settecento. Dice: per impare a parlare, un libro che insegna a stare zitti? Appunto, “smettere di tacere soltanto quando abbiamo qualcosa da dire che valga più del silenzio”. Questo sarebbe l'ideale. Il gran capo dei dorotei democristiani, Antonio Gava, quando guidava il gruppo al Senato, e ognuno di quelli apriva bocca e prendeva fiato, ne fece recapitare una copia a testa: gesto generoso ma, da come andarono poi le cose, chiaramente anche gesto infruttuoso. E per dire di quanta saggezza ci sia nell'elaborato dell'Abate Dinouart, basta annotare a seguito una raccomandazione di Talleyrand, che di politica e di potere sapeva e capiva – e l'insulto aveva di estrema raffinatezza: “Ogni passo non necessario è imprudente”. Ma se proprio la bocca si deve aprire, per provare a rintuzzare un avversario, il politico destinato più che altro a YuoTube si munisca di: b) “L'arte di insultare” di Arthur Schopenhauer. In realtà, a scorrere le pagine del libretto, non si sa bene che uso se ne potrebbe fare nel corso di un dibattito a “Ballarò” o in un acceso confronto con chi decisa antipatia suscita: però è sempre un filosofo tedesco, e con i filosofi tedeschi c'è sempre la possibilità d'intimorire l'avversario.
Nella lista consegnata all'autista non deve assolutamente mancare: c) “Pensieri spettinati”, di Stanislaw J. Lec, il più geniale scrittore di aforismi del Novecento. Siccome l'aforisma è sempre buona cosa, e se di un genio lascia affiorare sintesi e ferocia – Lec nella sua vita ha dovuto fronteggiare tanto i nazisti quanto i comunisti, figurarsi se non ha qualcosa per mettere in un angolo i Responsabili o Dario Franceschini – è necessario memorizzarne qualcuno. Del resto, molti di Lec al confronto politico si prestano, e dell'insulto elegante sono assoluto paradigma. Alcuni sono già noti, con tanto di trionfo sulle t-shirt democratiche-adolescenziali: “Aveva la coscienza pulita. Mai usata”. Ma è un campo praticamente sterminato, quello arato dallo scrittore polacco. Così, da “Andateci piano col drammatizzare la vita. E se si trovassero attori migliori per i vostri ruoli?” a “Bisogna essere decisi anche per tergiversare”, da “Anche le repubbliche sono a volte governate da re nudi” a “Chi porta l'acqua in bocca abbia almeno la creanza di non sputarla poi sugli altri”, da “In principio era il Verbo – e alla fine le chiacchiere” (più o meno, ci siamo) a “Mi stimi molto – dici? Lo so, chiederesti più di trenta denari”. Oggettivamente, Lec basterebbe per una Thatcher, figurarsi per un sottosegretario nostrano. Ma è risaputo: una volta che si principia, l'uomo (persino il politico) si fa avido di sapere.
Così, mettere in lista: d) “La nobile arte dell'insulto” di Liang Shiqiu. E' un ragionato metodo per l'insulto, scritto da un letterato cinese del secolo scorso. Ecco il suo (utilissimo, per lo scopo di cui trattiamo) progetto: “D'ora innanzi cercherò di considerare e illustrare la nobile arte dell'insulto, affinché tutti quanti ne possano fruttuosamente disporre. Quale soccorso può dunque offrirci questa nobile arte?”. Praticamente, si tratta di un vero e proprio breviario. Dieci capitoletti, brevi ed essenziali come racconti zen, con una strategia dell'insulto evocativa della strategia de “L'arte della guerra” condensata nel libro di Sun Tzu – e dunque “Non insultare chi non è al nostro livello”, “Colpire di fianco, attaccare obliquamente”, “Presupporre e stare in agguato”, “Servirsi di espressioni e maniere eleganti”, e infine, ultima regola, “Allearsi ai lontani per attaccare i vicini”. Conclude Liang Shiqiu il suo magistero: “La nobile arte dell'insulto consiste nel tenere a mente e nell'abilità di utilizzare al momento opportuno le sopraddette dieci regole”.
A questo punto, affinata la tecnica dell'insulto elegante, è il caso di buttarsi tra: e) “Storia dell'eternità” di Jorge Luis Borges, che nelle ultime pagine contiene un prezioso saggio del grande scrittore argentino: “Arte dell'insulto”. Tutto troppo elevato e rarefatto, per la quotidiana contesa politica – “La lingua è un repertorio di queste utili insolenze, che hanno un ruolo di primo piano nelle controversie (…) Queste parole aride si combinano con altre esuberanti, e la vergogna dell'avversario è eterna”. Racconta, Borges, di un tale che durante una controversa teologica e letteraria “ricevette in faccia un bicchiere di vino. L'aggredito non battè ciglio e disse all'offensore: ‘Questa, signore, è una digressione: aspetto la sua argomentazione'. (L'autore di questa replica, un certo dottor Henderson, morì a Oxford verso il 1787 senza lasciarci altro ricordo che queste giuste parole: sufficiente e bella immortalità)”. Né vale pensare: a cosa può mai servire, un apologo del genere? Ecco a cosa: nella questione dell'insulto e della sua qualità, c'è da registrare persino una lettera al Corriere di Daniela Santanchè contro Claudio Magris, giusto un anno fa. La disputa era sorta, spiega la scrivente, “per aver usato, in una recente intervista, la parola ‘merda' riferendomi all'onorevole Fini” – e Magris invocava sanzioni. Così la Santanchè prende carta e penna, “rivendico la licenza poetica che Magris concede a Dante, Gadda e Benigni. Su questo (e solo su questo) la penso come il filosofo Herbert Marcuse, che sdoganò il turpiloquio politico per privare i capi dell'alone ipocrita di pubblici servitori che hanno a cuore solo gli interessi della comunità”. Concessa alla sottosegretaria la stessa licenza poetica di Dante e di Gadda, col sostegno di Marcuse (ecco come le cose nella vita si fanno ingarbugliate), si provveda all'accaparramento (se ancora si trova) del: f) “Libro delle citazioni politiche”, un volumetto messo a punto negli anni Novanta da un membro del Parlamento inglese, Gyles Brandreth. E siccome la parola passa spesso a geniali politici, geniali scrittori, geniali pensatori, in quelle pagine l'insulto è di livello, lo scontro è eccellente, l'eleganza è garantita. Sta in una tasca: tra uno stacco pubblicitario e l'altro, una furtiva occhiata permette di raddrizzare la sorte del confronto televisivo. Per esempio, nel chiacchiericcio di questi giorni, non farebbe ben figurare, a sinistra, una simile considerazione: “Uomini che preferiscono qualunque carico di infamia, non importa quanto grande, a qualunque pressione fiscale, non importa quanto lieve”? E non potrebbe dire il Cav. ai suoi, come Lord Melbourne: “Non mi servono compagni che mi sostengano quando ho ragione. Mi servono compagni che lo facciano quando ho torto”? E non dovrebbe, sempre lo stesso Cav., concordare con Gladstone: “La dote indispensabile di un Primo ministro è di essere un buon macellaio”? E se l'indignazione monta, come sempre monta, può venir buona, nella rissa che si prepara, questa osservazione di Paul Valery, dal peccato di berlusconismo certo distante: “Un atteggiamento di permanente indignazione denota grande povertà mentale. La politica costringe i suoi adepti a prendere quest'abitudine e tu puoi vedere le loro menti, tra uno scoppio di sacrosanta rabbia e un altro, impoverirsi giorno dopo giorno”. E infine, nei giorni dell'antipolitica alle porte, chi sarà il primo che, volendo la Casta nuovamente sfottere e insultare, ricorrerà all'indiscutibile ironia di Mark Twain: “Lettore, supponi di essere un idiota; e supponi di essere un membro del Congresso: ma oggi mi sto ripetendo”.
Ecco, nell'imminente riapertura del vociare autunnale – se ne andranno le rondini e torneranno i talk show: sarà proprio un guadagno? – questo breve elenco di testi, dove è possibile tanto abbeverarsi alle fonti teoriche, quanto usufruire di un rapido consulto pratico. Siccome l'insulto persisterà, e probabilmente se ne farà un uso ancora più largo – tutto un ring, tutta una curva, tutto uno studio televisivo – sarà bene affrontare la battaglia decentemente attrezzati. Magari fino a rendere persino divertente quello che al momento risulta solo irritante. Se persino il cardinal segretario di stato Bertone ha fatto sapere: “Io non dico parolacce” – e si doveva vedere solo questo: c'è da sperare che tra un cardinale e un ministro qualche differenza sempre rimanga – magari è il momento di dare meno pensieri a Sua Eminenza anche per ciò che riguarda il suo gregge un po' sbandato e un po' belante. Ultimo esempio su come essere feroci e insieme geniali. Telegramma del commediografo George Bernard Shaw a Winston Churchill: “Le ho riservato due posti a teatro. Venga con un amico, se ne ha uno”. Risposta: “Grazie. Verrò alla seconda rappresentazione. Se ci sarà”. Meraviglioso. Di questi giorni, da queste parti, magari qui si sarebbero scapicollati pure alla prima televisiva di “Tamarreide” – e persino pronti a fare (benissimo) la parte dei tamarri.
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