Il mio nemico / 6
La superciliosa
Trent'anni fa o giù di lì, l'antropologo Carlo Tullio-Altan (padre di Francesco in arte solo Altan, a sua volta genitore dell'operaio Cipputi e della Pimpa cagnolina a pois) bevve un caffè a casa della zia. Salutò, salì in macchina, al casello dell'autostrada si sentì male, fece giusto in tempo a borbottare “la governante, la governante…” e fu portato via con l'ambulanza. Lavanda gastrica: nella tazzina c'era una buona dose di insetticida, somministrata con cattive intenzioni dalla cameriera.
Trent'anni fa o giù di lì, l'antropologo Carlo Tullio-Altan (padre di Francesco in arte solo Altan, a sua volta genitore dell'operaio Cipputi e della Pimpa cagnolina a pois) bevve un caffè a casa della zia. Salutò, salì in macchina, al casello dell'autostrada si sentì male, fece giusto in tempo a borbottare “la governante, la governante…” e fu portato via con l'ambulanza. Lavanda gastrica: nella tazzina c'era una buona dose di insetticida, somministrata con cattive intenzioni dalla cameriera (supponiamo una questione di eredità, come nelle migliori famiglie). La precisione e la prontezza con cui il professore additò la nemica, fu molto ammirata. Capitò di chiacchierarne, a cena, parecchio tempo dopo. “Tu non l'avresti mai scampata”, commentò un amico. “Alla voce ‘nemici' avresti recitato un centinaio di nomi, e prima di arrivare in fondo alla lista il veleno sarebbe entrato in circolo”.
Non mancavano bersagli, quindi, per svolgere il compito estivo. A proposito, vorremmo umilmente e fantozzianamente rivolgere una supplica al Direttore Magnifico. Dopo il testamento, il corteggiamento, il “che c'è dentro di me” – da noi scampato per cause di forza maggiore: vorremmo tanto una vita interiore come chi guarda con incanto i tramonti e le stelle, ma quando è arrivato il nostro turno dovevano aver finito le riserve – non si potrebbe avere per l'anno prossimo qualche argomento più frivolo, leggero, cazzeggiante? Già in ginocchio sui ceci, a portata di mano la cuffietta da neonato e la carrozzina per essere scaraventati giù dalla scalinata della “Corazzata Potëmkin”, rispettosamente ringraziamo.
Abbiamo scelto Roberta De Monticelli perché rappresenta una categoria di nemici a cui sinceramente bisogna essere grati. Sono rubricati nella sottolista “le cose contro cui abbiamo sempre combattuto” (sì, certo, nel centinaio di nomi che il passare del tempo ha aumentato esistono anche le sottoliste, per esempio: “meritevoli di un intervento a gamba tesa, e se non dovesse capitare prima l'occasione, aspettatevi un sabotaggio ai freni della carrozzella nella casa di riposo dove saremo entrambi ricoverati”).
Quelli che in ogni occasione hanno il sopracciglio fremente in segno di rimprovero, mentre noi prendiamo nota delle cose da cui star lontani: la mancanza di ironia (l'autoironia sarà per un'altra vita), la prosa intorcinata, il disprezzo per qualsiasi cosa la cultura popolare abbia prodotto negli ultimi decenni, le calze a rete, gli abiti a fiori e le collanone etniche. Quelli che con il ditino sempre alzato ti fanno capire che hai sbagliato tutto, e dire che sembravi una ragazza studiosa, con un futuro da compilatrice di voci della garzantina. Quelli che quando ti incontrano a una festa chiedono “cosa fai tu qui?” e quando ti vedono nel backstage di una trasmissione di Rai Tre danno per scontato che stai mettendo le tartine sui vassoi e impilando i bicchieri di plastica. Quelli che prima o poi scrivono un volume di liriche intitolato “Le preghiere di Ariele”. Quelli che prima o poi pubblicano “Dal vivo. Lettere a mio figlio sulla vita e sulla felicità”, dove “la betulla fa tremare nel vento le sue foglie”, e noi non capiamo più che differenza passi tra l'alta meditazione filosofica (“l'alto ricetto del pensiero”, nel lessico della poetessa De Monticelli) e certi libriccini che insegnano ad apprezzare le piccole cose della vita. Fate conto: Philippe Delerm commosso dal primo sorso di birra, dalle domeniche di pioggia, dai marciapiedi al sole.
La frequentazione degli incolpevoli Dante, Luzi, Eliot, Ortese, Char, Penna, Rebora (così l'elenco di un recensore, a proposito di “Le preghiere di Ariele”) non impedisce a Roberta De Monticelli di maneggiare la poesia con la goffaggine di un professore di provincia. O, per non deludere mamma e papà che fecero sacrifici per mantenerci agli studi, con l'atteggiamento che Ruskin chiamava “fallacia patetica”. Il vezzo romantico di promuovere i fenomeni naturali, gli stessi della leopardiana natura matrigna, a specchio delle vicende umane (da qui arrivano i tramonti dell'occidente, le albe del mondo nuovo, i soli dell'avvenire). Da un articolo sul Fatto, scritto all'indomani della vittoria a Milano di Giuliano Pisapia: “Ci vorrebbe un poeta, a dire il respiro della piazza, ieri, a Milano. La meraviglia che cresceva come luce rosa sulla facciata del Duomo, per farsi con il passare delle ore, a mano a mano che virava in pura gioia, sempre più intensa, più aranciata, dalle guglie alla folla ormai fitta di bandiere e palloncini”.
Roberta De Monticelli arrivò alla Statale di Milano proveniente dalla Scuola Normale di Pisa. La stessa frequentata, senza conseguire uno straccio di laurea, da Massimo D'Alema: “Capotavola è dove mi siedo io”. Perfettamente dalemiano era il piglio: “Filosofia è quella che faccio io”. Bisogna sapere che, per motivi di afferenze, o di qualche altra diavoleria burocratica ormai dimenticata, la ricercatrice approdò alla cattedra di Filosofia del linguaggio, dove allora ci si barcamenava con problemini di logica e grammatica poco rilevanti per i destini del mondo. Alla prima lezione di logica il professore – assai di sinistra, con barba e sandalo fratino – raccontò che la dattilografa alle prese con la battitura di un suo saggio gli aveva chiesto “Ma questo cosa serve alle masse?”. “Nulla”, rispose il professore, e l'aneddoto fece il giro delle aule provocando smorfie di orrore. Una cosa sola avevamo ben presente. Un conto era studiare i filosofi, e magari capirli. Altro conto era filosofare in proprio.
In quel covo di miscredenti filosofici piombò, circondata da una nuvoletta di superiorità, la specialista della fenomenologia husserliana (per inciso, assieme a Heidegger, Husserl era un altro dei motivi per cui c'eravamo buttati sulla logica: non serviva a nulla, lasciava in pace i massimi sistemi, ma perlomeno applicandoci capivamo qualcosa). Nonché studiosa di sant'Agostino, familiarmente chiamato Agostino, di cui stava traducendo e annotando “Le confessioni”. Spesso spuntava il nome della giovane promessa e già venerato maestro Carlo Michelstaedter, con il suo carico di misticismo e morte precoce (perfino prima del ventisettesimo anno fatale alle rockstar, un suicidio tempestivo evita la fase arbasiniana “solito stronzo”). Al cahier de doléance prima compilato dobbiamo aggiungere un altro difettuccio. Al mondo esiste gente capace di rendere interessante quasiasi cosa, e gente capace di farti disamorare perfino delle cose che ti piacciono. Roberta De Monticelli sta in cima alla seconda categoria (sì, le liste sono ordinate per insopportabilità).
Qualche anno dopo, la filosofa partì per l'Università di Ginevra. Nella “prestigiosa cattedra che fu di Jeanne Hersch”, si mormorava come un mantra nei corridoi della Statale. Noi, sempre a trastullarci con i minimi sistemi, tra gente che si chiamava Quine e Frege, e perfino Wittgenstein, ma quello del “Tractatus” – pensiero forte, che non lasciava immaginare le debolezze successive, e perfettamente inservibile come tutti i grandi sistemi filosofici, non credete a quelli che “la filosofia è meglio del Prozac”, quella non è filosofia, sono i consigli della nonna – della signora Hersch allieva di Heidegger non avevamo mai sentito parlare. Ci informammo, capimmo che non era roba per noi e lasciammo perdere. Quando arrivò la notizia che Roberta De Monticelli era china sul pensiero di Jean-Paul Sartre, in materia eravamo più preparati. Passare dall'inventore dell'autobiografia al filosofo degli amori contingenti e degli amori necessari non sembrava un passo avanti. Il prosieguo non ci ha dato torto: una cattedra di “Filosofia della persona” all'Università Vita e Salute San Raffaele – “la prima in Europa”, ma non è detto che ne sentissimo il bisogno –, un volumetto sulla morale tanto contingente e d'occasione da dedicare spazio a Lele Mora. La precipitosa discesa dalla Filosofia alla filosofa che va in televisione era compiuto. Gad Lerner come primo scalino, e poi Fabio Fazio, dove abbiamo potuto constatare che la passione della filosofa per le calze a rete, gli stampati a fiorellini e il gioiello etnico è rimasta immutata. D'estate, secondo copione, la filosofa pellegrina batte il territorio, di festival in festival, e se mai vi venisse la voglia di un Dvd da mettere in mostra sul tavolino del salotto assieme ai libri patinati dell'editoria bancaria, per il “Caffè filosofico” di Repubblica Roberta De Monticelli racconta Tommaso d'Aquino. Noi abbiamo perso il filo dopo tre minuti esatti, ammirando però la capacità di ipnotizzare la telecamera simulando pensieri profondi.
In principio – parlando di filosofi alla tv – fu Stefano Zecchi, star del Maurizio Costanzo show e spina nel fianco degli altri professori universitari che in pubblico dicevano “che vergogna, che figura, ma l'hai visto, io non ci andrei mai”, e in privato singhiozzavano “ma cos'ha quello lì più di me” (in certi casi le mamme dei filosofi, spettatrici assidue della camicia con i baffi, gettavano sale sulle ferite: “Anche tu sei professore di Filosofia, perché non ti invitano?”). In quel periodo, l'altra spina nel fianco era Umberto Eco che con “Il nome della rosa” era diventato ricco e famoso. Che ci vuole a scrivere un romanzo che vende? “Io non lo voglio fare, ma ne sarei capacissimo”, era la cantilena. Che ci vuole? Chiedetelo ad Antonio Scurati, che ancora si rivolta di notte nel lettuccio pensando alle rese di “Una storia romantica”. E che ci vuole a scrivere “Una grande avventura epica, smisurata e furibonda, che fa i conti con la nostra crisi narrando di uomini in marcia dentro e contro l'onda distruttrice della storia”? Lo sapremo il 14 settembre, quando in libreria uscirà, sempre a firma Scurati, “La seconda mezzanotte”, 348 pagine di fantascienza apocalittica nella Venezia del 2092. Non vediamo l'ora di non leggerlo, constatata la prosa che orna il risvolto di copertina: “Un libro non solo ambientato nel futuro ma rivolto al futuro, a quella speranza di una vita a venire che sorge solo nel senso della lotta”.
Nel 2008, su MicroMega, Roberta De Monticelli celebra “l'addio alla chiesa cattolica di una cristiana laica”. La notizia fece l'effetto che fanno certi morti, accolti – prima di mordersi le labbra a sangue e preparandosi alla stesura dell'obituary - con la frase: “non sapevo che era ancora vivo”. Se una declassa sant'Agostino ad Agostino e san Tommaso a Tommaso – epperò si prostra davanti a “uno splendido articolo dell'angelico Marco Travaglio” (nero su bianco, su un quotidiano di Brescia) – qualcosa vorrà dire. Forse tanto consonante con la chiesa cattolica non era già da prima, ma un titolo così fa il suo bell'effetto. E' la strategia di Vito Mancuso: se non fosse abbarbicato alla sua posizione di teologo cattolico pur contestando certi non secondari punti di dottrina, chi comprerebbe i suoi libri? Sarebbe nel mucchio dei pensatori New Age, prima e unica argomentazione: “ma non puoi non credere in qualcosa sopra di noi” (ridateci i dogmi e i miracoli, l'incenso e le cattedrali).
E' l'insopportabile atteggiamento di chi segue diete sempre più strette, e non sgarra mai, temendo i fulmini dei radicali liberi. Eppure pretende una religione lasca, aperta a ogni modifica. Che non imponga di credere a cose che, suvvia, la scienza moderna giudica sorpassate (“la resurrezione era una metafora, una telecamera davanti al sepolcro non avrebbe inquadrato nulla” ha scritto Vito Mancuso su questo giornale). Poi si mette in fila per il test delle intolleranze alimentari, e in quelle crede fermamente. Da inguaribili superficiali, anche poco devoti, l'illogicità del ragionamento non finisce di stupire. Vuoi fare quello che ti pare? Nella felice, benché deprecata, società occidentale nessuno lo impedisce. Ma volendo credere, preferire una religione debole – adattata come un abitino su misura dalla sartina che copia gli stilisti – a “the real thing” (senza peraltro costi aggiuntivi), pare una mossa da Tafazzi.
Dare l'addio alla chiesa cattolica senza lasciare l'incarico all'Università Vita e Salute San Raffaele, fondata da don Verzé, è ovviamente un conflitto d'interesse neppure tanto minuscolo. Anche qui Vito Mancuso docet: i soldi della Mondadori no, i soldi dell'opera don Verzé sì. Va di pari passo con superiorità antropologica di chi si stupisce perché nell'università vicina alla famiglia Barbara Berlusconi viene trattata con più cortesia rispetto al normale studente (la professoressa De Monticelli fu esclusa dalla commissione, e ancora se ne lagna). Sono le contraddizioni in seno al popolo, o forse le istituzioni che si cambiano dall'interno (non ricordiamo più, c'era pure l'esproprio proletario, il privato che era politico, e gli Stormy Six di “Stalingrado” redivivi in concerto per Giuliano Pisapia). Chi fa Cultura e promette l'Immortalità non può pensare a dettagli volgari come i bilanci in ordine.
“Un libro di filosofia che non spaventa”: ecco “La questione morale” (Raffaello Cortina editore) nella sintesi di Fabio Fazio, che lo scorso gennaio ha invitato Roberta De Monticelli a sedersi nel bianco tronetto che miracola le vendite. D'accordo: è difficile dare risposte intelligenti a domande sciocche (lo sapeva bene George Bernard Shaw: “Non discutere mai con un cretino, la gente potrebbe non notare la differenza”). E Fazio, per aver troppo spesso invitato a “Che tempo che fa” l'architetto e sedicente filosofo Roberto Peregalli, dell'Accademia Mongiardino, ha evidentemente smarrito il senso del ridicolo. Tanti sudati studi, tante sudate carte, tante sudate pubblicazioni, tanti sudati concorsi, e ritroviamo la filosofa sulla stessa linea di chi approfitta dei microfoni aperti in radio per invocare: “Intercettazioni libere e abbondanti, chi non ha niente da nascondere non le teme” (ah sì, e vi siete mai chiesti quanto durerebbero in questo caso le vostre amicizie e i vostri amori?). Una filosofa dovrebbe sapere che il Panopticon di Jeremy Bentham non è un paradiso, ma un manicomio o una società totalitaria. A lei la scelta. Noi, che generosamente ai nostri nemici offriamo il fianco, preferiamo i vizi privati e le pubbliche virtù.
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