La lezione feroce di Gheddafi

Carlo Panella

Incomprensibile per noi, la decisione di Gheddafi di non trattare, di rifiutare le cento vie d'uscita che gli sono state offerte, di combattere e morire a Tripoli (se così sarà), ci spiega in realtà molto. Innanzitutto che non è affatto vero che con lui combattono sino alla fine, oltre ogni speranza dei “mercenari”, come tuona una propaganda occidentale stucchevole e cieca. In queste ore migliaia di libici leali al colonnello stanno opponendo una resistenza disperata ovunque, da Brega a Misurata alla stessa Tripoli, nonostante la pressione dei ribelli e i martellanti bombardamenti Nato.

    Incomprensibile per noi, la decisione di Gheddafi di non trattare, di rifiutare le cento vie d'uscita che gli sono state offerte, di combattere e morire a Tripoli (se così sarà), ci spiega in realtà molto. Innanzitutto che non è affatto vero che con lui combattono sino alla fine, oltre ogni speranza dei “mercenari”, come tuona una propaganda occidentale stucchevole e cieca. In queste ore migliaia di libici leali al colonnello stanno opponendo una resistenza disperata ovunque, da Brega a Misurata alla stessa Tripoli, nonostante la pressione dei ribelli e i martellanti bombardamenti Nato.

    C'è una parte della Libia, con loro, una parte piccola, minoritaria, ma è una parte del popolo libico che non si arrende e che segue con eroismo cieco la sorte ormai segnata del rais, così come lo ha difeso per cinque mesi con una determinazione inaspettata in occidente. Non sono fanatici, questi “lealisti”, ma hanno le loro ragioni per morire con le armi in mano, non solo per fedeltà al rais, non solo per privilegi da difendere. Sono tripolitani che hanno paura di cadere – loro e i loro cari, la loro gens – sotto il dominio dei cirenaici, sono membri di tribù che hanno sanguinosi conti secolari, faide, vendette, con le tribù ora vittoriose. Sono combattenti che sanno bene, peraltro, che a guidare la “nuova Libia” ci sono alcuni tra i più spietati complici di Gheddafi, a partire dal suo feroce braccio destro Abdessalam Jallud, e che giustamente non si fidano delle loro sirene.

    Ma questo, il seguito, il consenso che un dittatore feroce continua a riscuotere in una parte della sua gente è soltanto un aspetto della piccola apocalisse che insanguina le strade di Tripoli. In realtà, la lezione feroce, e anche eroica, non si può negarlo, che Gheddafi e i suoi terribili figli vogliono disperatamente dare al mondo, al loro mondo, al mondo arabo è un'altra, inquietante. La vita, a schiena dritta, il potere, spietato, il sogno, folle, vengono prima, addirittura negano, ogni possibilità di compromesso, di mediazione, di accordo anche in extremis con l'avversario, col nemico.

    Gheddafi ci testimonia della fine, della assenza della “politica” nel suo orizzonte di vita di arabo, di musulmano. Ancora una volta, nelle strade di Tripoli, così come nelle moschee pachistane in cui si fanno esplodere i kamikaze musulmani per straziare musulmani, la politica è morta, non esiste, non conta. Conta solo l'affermazione violenta, superba della propria verità, del proprio arbitrio, della propria capacità di dare morte. Insomma, Gheddafi e i suoi figli stanno spiegando al mondo cosa è oggi il jihad, non più quella suprema, ma intima, lotta con sé e dentro di sé per accogliere Dio e la sua fede, ma la feroce – anche disperata, anche inutile – guerra contro un nemico che altri non è se non l'incarnazione, sotto specie umana, del Male, del Maligno. Fanatismo. Millenario.

    Rivista con gli occhi di oggi, tutta la vita di Gheddafi, a partire dal suo uso orrendo del terrorismo e dei terroristi, ci appare densa di una spaventosa coerenza. Certo, può essere che alla fine, correndo per i cunicoli di quella città da incubo che si è fatto scavare nelle viscere di Tripoli, Gheddafi, posto di fronte alla morte, ceda, cerchi un riparo, un rifugio, un'ambasciata compiacente per salvarsi. Ma se sarà così, sarà solo la sua più grande sconfitta: avrà tradito se stesso.