Occhiaie di riguardo

Tutto il languore del Rixos

Toni Capuozzo

Che l'hotel Rixos fosse una trappola, lo sapevano tutti, da tempo. In qualche modo, ne aveva anche l'aspetto. Non tanto per essere all'interno di un parco, e chiuso da una cancellata, con le guardie all'ingresso: quelle che proteggevano sì l'albergo dalle manifestazioni di fedelissimi di Gheddafi che si accontentavano di sparare al cielo, ma anche rendevano impossibile uscire inosservati.

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    Che l'hotel Rixos fosse una trappola, lo sapevano tutti, da tempo. In qualche modo, ne aveva anche l'aspetto. Non tanto per essere all'interno di un parco, e chiuso da una cancellata, con le guardie all'ingresso: quelle che proteggevano sì l'albergo dalle manifestazioni di fedelissimi di Gheddafi che si accontentavano di sparare al cielo, ma anche rendevano impossibile uscire inosservati, se non con la scusa di andare a comprare le sigarette all'emporio dall'altra parte della strada. E neanche per l'incongrua trovata degli architetti, che avevano disegnato, all'esterno della hall, due muraglie di sassi trattenuti da una gabbia di metallo, così simili a quelle che circondano i campi della coalizione in Afghanistan, o ai muri di contenimento sul greto di un fiume.

    Forse erano e sono i prezzi esosi delle stanze e del buffet, o le procedure della reception, con i passaporti che, confiscati al confine con la Tunisia, finivano direttamente nelle mani del portiere, oppure il fatto semplice che risiedere al Rixos, per un inviato, era un obbligo, come il trascorrere i giorni in attesa che i funzionari dell'apposito ufficio decidessero che si poteva uscire, e dove, a filmare qualcosa. Il resto erano appostamenti sul tetto in attesa dei bombardamenti, ore passate su Internet – uno dei privilegi del Rixos era il collegamento, proibito altrove – chiacchiere tra colleghi, con un tema fisso: cosa sarebbe successo, come, e come sfuggire alla trappola. Mi ricordo in queste ore del mio piano, del tutto analogo a quello di altri: riparare nella casa del mio stringer (ha fiutato l'aria giusto in tempo, quindici giorni fa è passato in Tunisia, e da lì a Roma) alle prime avvisaglie, evadendo il controllo e – ridevamo – anche il conto d'albergo. Credo non sia riuscito a nessuno, quel tipo di piano. E adesso mi immagino il piccolo gruppo di inviati davanti allo psicodramma del manipolo di funzionari, e la schiera di camerieri e inservienti intrappolati con loro. Non so a cosa serva adesso il buffet, e se Aisha, la severa e però gentile responsabile del rapporto con i giornalisti sia ancora all'opera, e che cosa dica.

    Non so se sia rimasto in albergo quel conduttore televisivo che, dopo vent'anni di opposizione a Gheddafi, aveva condotto una battaglia di propaganda a suo favore con un talk show televisivo quotidiano, e aveva fatto del Rixos il suo ufficio, e la residenza della sua famiglia numerosa. So, o meglio riesco a immaginare, lo stato d'animo degli inviati, che da narratori di notizie si trovano a essere protagonisti di una notizia, e possono raccontare solo se stessi: la situazione peggiore. Malediranno il fatto di non aver colto il momento, o la fortuna di chi se n'è andato prima che fosse chiusa la strada per la Tunisia. Ma è il destino a decidere: ti nega di fare il tuo lavoro, ti lascia in balìa di domande senza risposta (mi useranno come ostaggio? E se scappassi attraverso il parco? Conviene che metta un drappo bianco alla finestra della stanza?) e ti offre la più singolare delle esperienze: vedere da vicino poche decine di persone che si giocano il futuro e la sopravvivenza e si controllano a vicenda, e intuire da un gesto, da una mezza parola chi ha già deciso da che parte stare, chi sa già cosa fare, chi si aggrappa agli altri, chi ti chiede informazioni sulla sua stessa sorte. Non racconti la fine e l'inizio di Tripoli, ma la fine di un piccolo mondo che una volta ne era il centro.

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