La contingenza di un essere speciale

Claudio Cerasa

In effetti dietro la venerazione della figura di Jobs esiste una precisa base teorica che negli anni ha permesso all'azienda di Cupertino di imporsi non solo come una sorta di nuovo culto condiviso ma anche come una sintesi perfetta di una grande controcultura trasversale fatta di pensatori liberi, di spiriti indipendenti, di personalità creative e di consumatori appassionati decisi a costruire insieme una realtà che riesca a imporsi sul così detto “sistema dominante”.

    (3. segue) In effetti dietro la venerazione della figura di Jobs esiste una precisa base teorica che negli anni ha permesso all'azienda di Cupertino di imporsi non solo come una sorta di nuovo culto condiviso ma anche come una sintesi perfetta di una grande controcultura trasversale fatta di pensatori liberi, di spiriti indipendenti, di personalità creative e di consumatori appassionati decisi a costruire insieme una realtà che riesca a imporsi sul così detto “sistema dominante”. Con l'idea che l'unico modo di affrancarsi dallo status di minoranza oppressa, e l'unico modo di trovare la forza per reagire a una certa minacciosa e ingiusta egemonia culturale, sia quello di trasformare il computer, gli iPod, gli iPhone e persino gli iPad in grandi strumenti di liberazione sociale. In questo senso, il capolavoro compiuto da Jobs è stato insomma quello di far diventare, già alla fine degli anni Settanta, il mondo della Apple la cassa di risonanza delle sollecitazioni che arrivavano dall'universo della controcultura californiana, ed è forse proprio per questo che nel corso degli anni il capo della Apple si è impegnato in tutti i modi a mantenere quello standard di azienda “socialmente impegnata” schierando di volta in volta, metaforicamente, simbolicamente e soprattutto commercialmente, la sua Apple contro i grandi colossi del mercato americano. Uno schema, questo, che si trova anche alla base di una delle interpretazioni più fantasiose, e forse più affascinanti, che gira attorno alla complessa origine della simbologia del marchio della Apple – e che potrebbe aiutare a capire una volta per tutte che cosa cavolo c'entri la Mela di Jobs con la Grande Mela di New York. Escluso, ovviamente, che la Big Apple si chiami così in omaggio alla Apple di Jobs (si dice che negli anni Venti furono quei musicisti jazz che alla fine dei loro concerti ricevevano in dono una big apple a far nascere l'idea di dare alla città di New York il nome di una Grande Mela) non è invece da escludere affatto che dietro al morso della mela si nasconda quel conflitto di lungo corso che a partire dagli anni Settanta ha messo una contro l'altra la dottrina tecnologica californiana – quella caratterizzata dalle piccole aziende della  Silicon Valley, sponda ovest degli Stati Uniti – con quella più legata alla sponda est dell'America, rappresentata dal leggendario Massachusetts Institute of Technology di Boston e in particolare da quei colossi americani magnificamente rappresentati a loro volta da quel gigante di nome Ibm: gigante che dall'inizio del secolo scorso ha la sua sede operativa nell'est degli Stati Uniti, nella zona di Armonk, New York, a trenta minuti di macchina esatti da Manhattan. E seguendo allora lo schema del buoni-cattivi, creativi contro tromboni, est contro ovest, Silicon Valley contro New York, frizzante minoranza contro establishment opprimente, beh, quale altro simbolo migliore al mondo può esistere per riassumere con un tratto di matita la sfida lanciata da Jobs al mondo della Big Apple se non quello di una magnifica Big Apple tutta morsicchiata?

    Interpretazioni del simbolo della mela a parte, bisogna però riconoscere che è proprio nella ribelle controcultura californiana degli anni Settanta che va ricercata la formula che ha permesso a Jobs di dividere il mondo degli smanettoni tecnologici tra i fighetti buoni (quelli creativi, scravattati, geniali, imprevedibili, frizzanti della Apple) e quegli sfigati e cattivi (quelli seriosi, noiosi, prevedibili in doppiopetto, dell'Ibm, della Microsoft e in parte ora di Google) destinati a essere travolti da un incontenibile fiume di pura creatività.

    “La rivoluzione del personal computer – secondo Leander Kahney, autore del “Culto del Mac” – ha avuto la sua codificazione genetica a metà degli anni 60. E mettendo insieme la protesta, la politica, la musica, la droga e il personal computer, è stato proprio in quel momento storico che la Apple è riuscita a diventare il simbolo di una realtà anti autoritaria, anti guerra, anti disciplina e più semplicemente anti potere. In quel periodo, poi, fu chiaro che una volta esaurita nella società la spinta di rinnovamento portata avanti dai movimenti politici quel compito sarebbe stato ereditato da chiunque fosse stato capace di coinvolgere le nuove comunità facendo propri i valori del cambiamento. E non può dunque stupire che alcuni tra i primi gruppi degli utenti Mac siano nati con motivazioni politiche (a Berkeley il primo negozio della Apple venne gestito da una comunità hippie); non può stupire che prima di fondare la Apple Jobs abbia vissuto per sei mesi in una comunità Hippie dell'Oregon (quella in cui avrebbe mangiato un sacco di mele); e non può nemmeno stupire che il primo grande negozio della Apple, fondato nel nord della California negli anni Ottanta non fosse propriamente un negozio ma, come a Berkeley, una comunità di libero amore di hippie del san Francisco Haight Ashbury District: formata da circa 30 membri della comunità hippy kerista. E lo stesso abbigliamento di Steve Jobs – jeans, sneakers e maglione a collo alto – è un preciso tratto distintivo che porta quasi meccanicamente l'interlocutore a credere che lui, Steve, sia diverso rispetto a tutti gli altri sfigati incravattati miseramente corrotti dal sistema dominante”.

    La suddivisione dei due mondi disegnata dal messia di Cupertino fu per la prima volta esplicitata in mondovisione il 22 gennaio del 1984, quando la Apple, due giorni prima che fosse messa sul mercato l'ultima versione del Mac, decise di acquistare per 368 mila dollari uno degli spazi più costosi e più ambiti dell'intero mercato pubblicitario americano. Si trattava, come molti ricorderanno, del famosissimo intervallo della diciottesima edizione del Super Bowl americano, e in quei celebri novanta secondi di spot la Apple pubblicizzò la sua ultima diavoleria con un apocalittico spot di ottanta secondi girato da Ridley Scott (dove, anni dopo, si scoprì che tra gli umanoidi che combattevamo la  polizia del pensiero vi era anche, nascosto tra le comparse, una bella donna atletica interpretata dallo stesso Jobs) che si concludeva con una frase storica: “Il 24 gennaio Apple lancerà il Macintosh. E capirete perchè il 1984 non sarà come 1984”. Sottotesto dello spot: “Se non volete più sentirvi complici di uno schifosissimo mondo malvagio che attraverso l'utilizzo dei personal computer sta schiavizzando la vostra esistenza trasformandovi in piccoli, brutti e insignificanti robot privi di personalità, se insomma non volete continuare a sentirvi come se foste i protagonisti del romanzo di Orwell, beh, sapete a chi, da ora in poi, dovete rivolgervi. A noi, naturalmente”.

    Come se non bastasse, nel corso degli anni le strategie comunicative con cui Steve Jobs ha cercato di affermare l'idea che tutto ciò che è legato al mondo della Mela non possa che essere investito da un'irresistibile aura di armonica bellezza ha varcato i confini degli spot tradizionali e ha trovato un importante terreno fertile all'interno dell'universo del cinema americano. Che ci si creda o no, uno dei capolavori più recenti del capo della Apple è stato quello di sfruttare le sue buone entrature tra gli Studios di Los Angeles (Jobs, in fondo, è pur sempre membro del consiglio d'amministrazione della Disney!) per riuscire a posizionare i prodotti più cool della propria azienda all'interno delle scene chiave di alcune famose, e recentissime, storie hollywoodiane. E così, tra film e serie tv, è stato calcolato da un sito di maniaci della Mela che il numero di prodotti Apple comparsi sugli schermi dall'inizio degli anni Ottanta fino alla fine del 2007 si aggira attorno alle 1.500 unità. E da Beverly Hills 90210 a Melrose Place, da Dharma & Greg a X Files, da The Drew Carey show a Spin city, da Indipendence Day a Mission Impossible fino ai casi forse più clamorosi di Carrie Bradshaw in Sex And The City e di Jack Bauer nella serie “24” la costante è sempre la stessa: i buoni, i giusti e quelli più in gamba utilizzano il Macintosh; i cattivi utilizzano i programmi della Microsoft.

    In Sex And The City, per dire, ricordiamo il caldo fascio di luce bianca a forma di mela proiettato dal computer utilizzato da Carrie per scrivere le sue column sulle pagine del New York Star, e allo stesso tempo ricordiamo come il fastidioso ticchettio prodotto dalla tastiera utilizzata dall'uomo che più volte ha spezzato il cuore della povera Carrie, mister Big, proveniva non certo da un Mac ma da un misero computer caricato con le manovelle della Windows. Per non parlare poi del caso di “24”, la geniale serie tv americana ideata da Joel Surnow e Robert Cochran in cui il protagonista Jack Bauer (agente dell'Unità anti terrorismo interpretato da Kiefer Sutherland) sceglie di salvare ogni giorno l'America utilizzando un Powerbook titanium della Apple e tenta di disinnescare le minacce terroristiche con una particolare squadra speciale formata da agenti che con i loro sottilissimi MacBook a schermo piatto cercano di sventare ogni giorno le malefatte ordite da un gruppo di spietati terroristi serbi, che si servono – neanche a dirlo – di rudimentali computer della Dell (e tra i cattivi solo una persona utilizza un computer della Apple: si chiama Jamey e alla fine della serie passerà naturalmente con i buoni).

    Al di là però della meccanica con cui la Apple è riuscita a trasformarsi in un formidabile simbolo di esplosiva creatività, vi è anche un altro spunto di riflessione che può spiegare bene le ragioni che hanno permesso al mago Steve di affermarsi come uno dei veri miti del Ventunesimo secolo. Abbiamo già parlato del ruolo avuto da Jobs nell'andare a rappresentare una storia esemplare di sogno americano, abbiamo già parlato dell'importanza avuta dal capo della Apple a trasformarsi nella guida di una certa controcultura americana ma non abbiamo ancora parlato del modo in cui l'inventore della Mela è riuscito a diventare un modello universale di un nuovo genere di leadership carismatica. Un modello che nel corso del tempo ha evidentemente superato i confini delle dinamiche aziendali e che, se ci si riflette un attimo, ha avuto anche l'effetto di influenzare direttamente il mondo della politica non solo americana. E il fatto che Steve Jobs sia diventato un esempio a cui ispirarsi, un simbolo a cui affiancarsi e, nel senso più stretto del termine, una grande “icona” delle leadership di nuova generazione non può certo essere considerato un elemento secondario nel processo di beatificazione del messia di Cupertino.

    “Per la politica – ci dice Matteo Renzi, che, oltre a essere sindaco di Firenze e oltre a essere, come da sua stessa ammissione, un Apple dipendente, è anche uno dei politici che in Italia ha ammesso con più franchezza di ispirarsi sinceramente all'esempio di leadership ideato dall'inventore della Mela – è un modello nel senso che poche persone come lui sono riuscite a produrre in modo così genuino quel tipo di sentimento di identificazione planetario con un singolo uomo di cui è stato protagonista l'inventore della Apple. A questo va anche aggiunto che per molti versi la storia di Jobs è da studiare anche per essere diventata il simbolo di come si possano raggiungere risultati straordinari anche passando con intelligenza attraverso degli insuccessi clamorosi; e di come insomma chiunque possa raggiungere i propri sogni anche ripartendo da zero, anche senza avere raccomandazioni, anche senza avere chissà quali spinte dall'alto. D'altra parte – continua Renzi – ciò che del metodo Apple ha avuto indiscutibilmente un effetto reale nel mondo della politica, e al quale è obiettivamente molto difficile non ispirarsi, è certamente l'attenzione maniacale per il dettaglio che ci ha insegnato l'inventore della Apple; la cura amorevole per la propria immagine; la grande connessione con la comunità che si sente di rappresentare; e la consapevolezza di come anche il design, anche l'estetica e anche la bellezza non siano più un semplice accessorio della comunicazione; ma più semplicemente siano una parte integrante del messaggio che vuoi dare. Ricordo – dice ancora il sindaco di Firenze – che a un certo punto del suo famoso discorso di Stanford Jobs disse che la vita di ognuno di noi si sarebbe dovuta ispirare a quella di un artista: ‘Osserva un artista, se è davvero in gamba, gli capita sempre prima o poi di arrivare al punto in cui potrebbe fare un'unica cosa per il resto della vita, e per tutto il mondo esterno continuerebbe ad avere successo ma non avrebbe successo per se stesso. Quello è il momento in cui si vede davvero chi è, se si mette in gioco rischiando il fallimento, è ancora un artista'”.

    Secondo il sindaco di Firenze, “il primo politico a essere riuscito a parlare, con il linguaggio di Jobs, con il suo modo di fare e persino, scusate la parola, con i suoi valori, è stato naturalmente Obama, e nessuno oggi meglio del presidente americano può dire di essere un interprete sincero di quello spirito creativo, gioioso, artistico e rivoluzionario di cui si è fatto portavoce l'inventore della Mela. E' evidente, poi, che se è vero che ispirarsi a Jobs dovrebbe essere quasi naturale per un politico di nuova generazione è anche vero che nel mondo della politica vi è sempre di più quella buffa tentazione di pigiare il bottone ‘Jobs' per provare a creare un collegamento metaforico tra la propria immagine e quella dell'inventore della Apple, come se bastasse farsi fotografare in giro con un bell'iPad o con belle cuffiette bianche attaccate a un bell'iPhone per poter dire: ‘ehi, amici guardatemi bene, guardate come sono fico, come sono cool, come sono creativo, come sono rivoluzionario: guardate insomma come sono parte anche io di quel fantastico mondo degli spiriti liberi della Apple…”.

    Quattro anni dopo il famoso intervento alla Stanford Cancer University, Steve Jobs – che durante le cure ormonali anti tumorali ha sviluppato il diabete di tipo 1 che lo ha costretto a iniziare la terapia insulinica per curare gli scompensi metabolici e che lo ha obbligato a seguire una particolare dieta bilanciata con apporti controllati di carboidrati, proteine e grassi per compensare la carenza di proteine e di zuccheri nel sangue – oggi vive con la moglie e i suoi tre figli a pochi passi dalla sede della Apple, nella contea di Palo Alto, in quella famosa casa realizzata vent'anni fa con degli speciali mattoni rossi costruita al centro di un grande campo di albicocche giusto nel cuore della California. Ed è stato proprio qui che, qualche tempo fa, Jobs ha ricevuto l'ultima raffica di telefonate di amici comprensibilmente preoccupati: era il 20 febbraio 2011, un paparazzo americano inquadrò fuori dal Centro Oncologico di Stanford un affaticato uomo dai tratti scheletrici molto simili a quelli di Steve Jobs, la celebre rivista di gossip americana National Enquirer pubblicò sulla rete gli scatti rubati e affiancò a quelle immagini lo spietato commento del famigerato dottor Samuel Jackson. Un commento secco che faceva più o meno così: “Quell'uomo, è evidente, non ha più di sei settimane di vita”. Punto.

    Negli ultimi mesi, va detto, tra cene strafighe alla Casa Bianca e presentazioni di nuovi fantastici modelli di iPad, l'inventore della Apple ha dato più volte prova di essere ancora decisamente in forze; ma nonostante ciò, come dimostrano anche le dimissioni di due giorni fa da amministratore delegato dell'azienda, le notizie sulla salute di Jobs non hanno ancora smesso di far tremare i polsi degli amanti della Mela. E così, ogni volta che di questi tempi vi è stata la possibilità, anche solo per un attimo, di pensare a che cosa potrebbe davvero essere un mondo senza Steve i devoti si sono spesso ritrovati a compiere un gesto quasi meccanico: ad accendere il computer, a collegarsi con la rete, ad aprire la finestra del proprio motore di ricerca preferito e a scrivere una accanto all'altra le parole Steve+Jobs+discorso+stanford e a rileggersi poi con calma quelle parole con cui il capo della Apple, descrivendo il senso più profondo del suo think different, raccontò nei dettagli quattro anni fa che cos'è che gli era passato esattamente per la testa in quei mesi in cui il suo corpo si era ritrovato improvvisamente morsicchiato, proprio come se fosse una mela.

    “Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento
    che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose – tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire – semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che avete qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c'è ragione per non seguire il vostro cuore. Essendoci passato attraverso posso parlarvi adesso con un po' più di cognizione di causa di quando la morte era per me solo un concetto astratto e dirvi: Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E anche che la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la Morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della Vita. E' l'agente di cambiamento della Vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo. Adesso il nuovo siete voi, ma un giorno non troppo lontano diventerete gradualmente il vecchio e sarete spazzati via. Mi dispiace essere così drammatico ma è la pura verità. Il vostro tempo è limitato, per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro. Non fatevi intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui offuschi la vostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno che cosa volete realmente diventare. E tutto il resto, ragazzi, tutto il resto è semplicemente secondario. Grazie a tutti”. (3.fine)

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.