SE NE VA IL CRISTO DEI COMPUTER

Claudio Cerasa

La musica e le immagini, il cinema e i giornali, la mela e i santuari, il capellone e lo spinello, l'addio e la resurrezione, il nemico e la rivoluzione, la controcultura e l'evangelizzazione, e poi il sogno, lo spot, la politica e naturalmente la malattia. Steve Jobs decise di parlarne per la prima volta undici mesi dopo quella lunga mattinata trascorsa con la moglie Laurene al primo piano del reparto oncologico della Stanford University, al numero 875 di Blake Wilbur Drive, nel cuore della contea californiana di Santa Clara.

    La musica e le immagini, il cinema e i giornali, la mela e i santuari, il capellone e lo spinello, l'addio e la resurrezione, il nemico e la rivoluzione, la controcultura e l'evangelizzazione, e poi il sogno, lo spot, la politica e naturalmente la malattia. Steve Jobs decise di parlarne per la prima volta undici mesi dopo quella lunga mattinata trascorsa con la moglie Laurene al primo piano del reparto oncologico della Stanford University, al numero 875 di Blake Wilbur Drive, nel cuore della contea californiana di Santa Clara: undici mesi dopo quella mattinata in cui il capo della Apple si ritrovò tra le mani di un famoso chirurgo della Stanford Cancer University che nel giro di tre ore riuscì a rimuovergli quel tumore maligno che gli era stato diagnosticato tre settimane prima in uno studio medico di Palo Alto, e che in appena un mese e mezzo gli aveva rosicchiato prima il pancreas, poi la cistifellea, quindi lo stomaco e infine una buona parte dell'intestino tenue. E proprio undici mesi dopo quell'intervento che gli avrebbe salvato la vita, Steve si fece coraggio, raccolse le forze, rispose con un “sì” all'e-mail del suo amico preside della Stanford e alla fine decise di raccontare proprio nella sua vecchia università californiana tutto quello che non aveva ancora avuto il coraggio di raccontare a nessun altro. Era il 25 giugno del 2005 e quel giorno, Steve, era anche di ottimo umore.

    “Più o meno un anno fa – disse il capo della Apple di fronte ai centocinquantadue neolaureati della Stanford University – mi è stato diagnosticato un cancro: ho fatto la scansione alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Figuratevi, non sapevo neanche che cosa fosse, un pancreas! I dottori, allora, mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, e che sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari – che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire. Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli, in pochi mesi, tutto quello che pensavi avresti avuto ancora dieci anni di tempo per dirglielo; questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile; questo, in altre parole, significa prepararsi a dire i tuoi ‘addio'. Vedete, ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno e la sera tardi, poi, è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie, che era là, mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare forte, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro, curabile con un intervento chirurgico. Così ho fatto l'intervento chirurgico e adesso sto bene. Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte, e spero, sinceramente, che sia anche la più vicina, almeno per qualche decennio”.

    Sono passati quasi sei anni da quello che è diventato uno degli speech più famosi della storia di Steve Jobs ma sei anni dopo quella magnifica mattinata alla Stanford University – con gli studenti incantanti, i professori rapiti, i giornalisti stregati e gli occhi di Jobs lucidi per l'emozione – le notizie sulla salute di Steve non hanno smesso di preoccupare i devoti della Mela. E tutte quelle foto con la faccia visibilmente scavata che di tanto in tanto compaiono qua e là sui giornali americani e tutti quei maglioncini neri a collo alto in cui Jobs sembra scomparire niente affatto metaforicamente hanno avuto l'inevitabile effetto di stimolare in questi mesi un'infinità di ragionamenti legati a uno scenario che fino a qualche tempo fa sembrava quasi inimmaginabile: un mondo senza Steve Jobs. Uno scenario dietro cui si nascondono però non soltanto una serie di interrogativi relativi al futuro di una delle aziende più amate del pianeta, ovvio, ma anche un mare di questioni che è difficile non porsi ragionando sulla figura del capo della Apple, la sua storia, la sua filosofia, il significato della sua biografia e quella genuina venerazione che si respira ogni volta che nell'aria si sente sussurrare il nome di “Jobs”.

    Si dice che è sempre nei momenti in cui si percepisce la possibile assenza di una figura cara che si riesce a comprendere fino in fondo l'importanza di quella persona, il senso della sua presenza e in un certo modo il significato più profondo della sua stessa esistenza. E in effetti, in questi giorni, nei confronti di Jobs, gli amanti della Apple, e non solo loro a dire la verità, stanno vivendo esattamente la stessa strana sensazione vissuta da chiunque si ritrovi all'improvviso a dover fare i conti con la possibile scomparsa di una persona importante, e l'idea che la persona che potrebbe scomparire da un momento all'altro sia una di quelle che negli ultimi anni ha forse più cambiato la nostra vita, e in parte la nostra cultura, non può che farci interrogare sulle ragioni che hanno permesso a quello che fino a poco tempo fa era soltanto l'inventore di un computer molto cool, molto trendy e molto fighetto, di diventare il vero volto simbolo del Ventunesimo secolo: la vera icona del nostro millennio.

    E così, partiti da questa premessa, ci siamo dati un po' da fare:
    abbiamo spulciato in mezzo a tutta la vasta bibliografia esistente in Italia sull'inventore della Mela, abbiamo letto tutto quello che c'era da leggere sul mondo della Apple, abbiamo rincorso per settimane una serie di persone che quel mondo lo conoscono assai bene e dopo aver coinvolto nella nostra indagine giornalisti, politici, antropologi, sociologi, economisti e grandi esperti del settore abbiamo pensato di buttare giù questa inchiesta per provare a spiegare, molto semplicemente, come diavolo abbia fatto Jobs a trasformare la sua azienda nella nuova religione del millennio: una religione in cui i prodotti naturalmente diventano “oggetti di culto”, in cui i negozi diventano “cattedrali del consumo”, in cui le battaglie commerciali diventano pacifiche “guerre sante”, in cui la clientela diventa una “comunità di fedeli” e in cui lo stesso capo azienda si ritrova a essere paragonato ora a “un messia”, ora a “un profeta”, ora a “un salvatore”, ora a un “redentore”. “La gente – come ha ammesso il giornalista americano Sherry Turkle in una famosa cover story del Time nel 1998 intitolata Jesus Online – si è ormai abituata a utilizzare un gran numero di simboli sacri per relazionarsi con gli strumenti delle nuove tecnologie ed è ormai evidente che in questo mondo saranno destinate ad avere successo solo quelle realtà che sapranno sfruttare con intelligenza e furbizia, e soprattutto senza fare una figura ridicola, l'universo semiotico delle metafore divine”.

    La metafora del rapporto tra mondo religioso e mondo della Apple è stata perfettamente sintetizzata con la famosissima copertina scelta tre anni fa dall'Economist per celebrare l'arrivo sul mercato di uno dei prodotti che hanno certamente fatto la storia recente della Apple, l'iPad. In quell'occasione, il settimanale inglese scelse di rappresentare il senso dell'ultima rivoluzione della Mela pubblicando nella sua cover una storica immagine in cui Steve veniva raffigurato con un'angelica aureola attorno al capo spelacchiato, una lunga tunica di seta blu poggiata sulla solita e anonima magliettina nera e due scintillanti tavolette della legge, a forma di iPad, delicatamente poggiate sui palmi aperti delle mani di Steve-Mosè-Jobs. E il titolo di quella copertina diceva già molto sulla rappresentazione più o meno divina dell'inventore della Mela: “Ecco a voi le nuove tavole della legge”. Certo, è evidente: si potrebbe anche pensare che la fissa per la metaforica rappresentazione del mondo della Apple in qualcosa di assai simile a una sorta di nuova religione sia soltanto una bizzarra materia da strampalate copertine di giornali o da grandi paginone di piccoli giornali d'opinione. Ma i segnali che testimoniano la progressiva e scientifica trasformazione del marchio Apple in un simbolo trasparente di una nuova, irresistibile e trascinante fede planetaria si trovano in realtà sparpagliati un po' ovunque nella grande rete della Apple: ed è davvero difficile trovare oggi un terreno migliore di questo per spiegare che cosa si nasconde davvero dietro lo straordinario culto creatosi attorno al messia.

    Appena due anni dopo quella storica copertina, due famosi professori americani della Texas A&M University (la settima università degli Stati Uniti), nel marzo del 2010, pubblicarono un lungo e documentato paper per dimostrare come la storia della Apple “contenesse realmente un gran numero di tratti che riflettono alcuni elementi basici delle religioni tradizionali”. “E' innegabile – ha detto la professoressa Heidi Campbell, uno dei due autori dello studio, intervistato nell'ottobre 2010 su Fox News – che il linguaggio che contraddistingue il così detto culto della Apple indichi la presenza all'interno di quel mondo di una sorta di ‘implicit religion', di una religione implicita, e se ci si pensa bene vi sono almeno tre fattori che permettono di comprendere perché l'universo della Mela morsicchiata sia oggi percepito come una nuova forma di culto condiviso: vi è il luogo umile in cui sono stati dati i natali alla creatura Apple (il garage di una casa di Cupertino, che sta alla Apple come la mangiatoia di Betlemme sta alla chiesa cattolica); vi è l'idea che alla guida di una comunità di fedeli vi sia un leader che prima di essere stato riconosciuto come una vera figura messianica è stato costretto ad attraversare vari passaggi difficili della sua vita (e in questo senso il miracoloso ritorno a Cupertino di Jobs, dopo il licenziamento dalla Apple, è paragonabile simbolicamente alla resurrezione del Salvatore); e infine nelle varie fasi della vita della Apple c'è sempre la figura di un acerrimo, spietato e indiavolato nemico (ora l'Ibm, ora la Microsoft, ora Google) che viene di volta in volta presentato come fosse davvero quel simbolo delle forze del Demonio contro cui combattono coraggiosamente gli angioletti della Apple”.

    Naturalmente, a quel vecchio furbacchione di Jobs l'idea di essere percepito come “il Gesù Cristo della Modernità” non è mai dispiaciuta, e in fondo è praticamente dalla fondazione della Apple che il vecchio Steve si diverte a mescolare la narrazione della propria storia con quella del Cristo Redentore. E se l'episodio più curioso che viene spesso raccontato dai più anziani dipendenti della Apple è quello relativo al famoso Natale del 1977, quando Jobs si presentò alla festa organizzata dalla Apple travestito proprio da Gesù Cristo, la storia forse più significativa sulla rappresentazione religiosa del mondo della Mela è la scelta fatta da Jobs all'inizio del 2003 per presentare quel graziosissimo oggetto rettangolare di nome iPhone. Un oggetto che, come disse in quell'anno Jobs con tono eccitato nel corso di uno dei Keynote speech più famosi della storia della Apple, “sono certo che farà il miracolo di cambiare il mondo”.

    “Nella storia dell'iPhone – come ci racconta un vecchio dipendente della Apple – vi sono davvero tutti gli ingredienti che hanno permesso a Steve di presentarsi negli anni come fosse una sorta di grande messia contemporaneo. E se ci si pensa bene, nell'universo culturale legato all'iPhone vi è proprio tutto il mondo divino di Jobs: c'è la celebrazione di un evento miracoloso, c'è il rapporto tra la fede e la creazione, c'è la consacrazione di un messia e c'è infine la devozione di un'intera comunità per un oggetto piuttosto particolare che non a caso, proprio nei giorni in cui fu presentato, qualcuno ribattezzò subito con un soprannome, come dire, piuttosto forte: Jesus Phone, nientemeno che il telefonino di Gesù Cristo…”.

    Nei mesi in cui l'iPhone venne presentato al mondo da Jobs, cominciarono a girare alcune immagini simbolicamente molto significative: giornali brasiliani pubblicarono fotomontaggi raffiguranti una Maria pronta ad accudire nella mangiatoia un iPhone al posto di Gesù, una famosa comunità di blogger asiatici ritoccò la famosa immagine del sacro cuore di Gesù inserendo nella mano sinistra di Cristo non più un cuore pulsante ma un telefono della Apple e alla fine, senza farsi niente affatto intimorire dal temerario accostamento tra la storia di Steve e quella di Gesù, la Apple decise di farsi interprete del clima mistico creatosi attorno al mondo dell'iPhone per lanciare una campagna pubblicitaria dallo slogan “touching is believing”, “toccare per credere”.

    Campagna il cui soggetto, e forse qualcuno se lo ricorderà, era un iPhone sospeso nell'aria che veniva sfiorato dall'indice di una misteriosa mano fluttuante ispirata al dettaglio più famoso della “Creazione di Adamo” di Michelangelo: quell'istante cioè in cui l'indice della mano destra di Adamo sfiora l'indice della mano sinistra di Dio ricevendone la linfa vitale. Inutile dire che nella famosa pubblicità della Apple la mano che sfiora l'iPhone, che altro non è naturalmente che la mano di Jobs, si trova proprio dalla parte giusta: ovviamente, e ci mancherebbe, dalla parte del Creatore.

    “La trasformazione del telefono della Apple in una sorta di telefono di Cristo – ci racconta Alberto Marinelli, docente di Nuove tecnologie all'Università la Sapienza di Roma – è stato uno dei momenti più importanti della storia dell'azienda di Jobs: è stato quello in cui per la prima volta la Mela morsicchiata ha offerto alla sua comunità un collegamento diretto tra la biografia di Steve e quella del Creatore ed è stato anche il momento in cui, forse in modo definitivo, si è completato il lungo processo di rappresentazione divina dell'inventore della Apple. Un processo che è diventato evidente con l'arrivo dell'iPhone ma che trae le sue origini a quando la Apple decise di legare l'universo simbolico dell'azienda con quello della mela. E non credo sia affatto un errore dire che l'assimilazione dell'iconografia religiosa all'interno della cultura consumistica americana nasca proprio quando Jobs decise di far discendere la sua creatura dal frutto proibito del primo libro della Genesi”. (1. continua)

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.