Pensioni alla Bismarck

Stefano Cingolani

Allora, è solo frutto di un cinico calcolo conservatore? Il mélange di pensioni e assicurazioni sociali che 120 anni dopo è in discussione in tutto il mondo, nasce dalla volontà di tenere a bada il quarto stato in marcia e i socialisti che s'arrogavano il diritto mistico di rappresentarlo? Le parole del Cancelliere di ferro, stampate nella biografia scritta da Emil Ludwig (nato Cohn), lo stesso autore del celebre libro intervista a Benito Mussolini, fanno pensare che sia solo un miserrimo espediente.

    “Avere contenta la classe più povera è una cosa che non si paga mai cara abbastanza. E' un buon impiego del denaro anche per noi: a quel modo evitiamo una rivoluzione che potrebbe inghiottirci ben altre somme” (Otto von Bismarck).

    Allora, è solo frutto di un cinico calcolo conservatore? Il mélange di pensioni e assicurazioni sociali che 120 anni dopo è in discussione in tutto il mondo, nasce dalla volontà di tenere a bada il quarto stato in marcia e i socialisti che s'arrogavano il diritto mistico di rappresentarlo? Le parole del Cancelliere di ferro, stampate nella biografia scritta da Emil Ludwig (nato Cohn), lo stesso autore del celebre libro intervista a Benito Mussolini, fanno pensare che sia solo un miserrimo espediente. In realtà, fin dal 1863, Bismarck aveva intrattenuto un dialogo con Ferdinand Lassalle, la mente della socialdemocrazia tedesca, già discepolo di Karl Marx, poi suo bersaglio teorico e personale (saranno famose le scudisciate nella “Critica del programma di Gotha”). Lassalle voleva una Germania unificata e pensava che Bismarck fosse l'uomo giusto per realizzarla, il Cancelliere perseguiva un ampio consenso nazionale attorno ad alcuni cambiamenti sociali che a suo avviso avrebbero rafforzato il Reich all'interno e all'estero. Non solo. Alcune idee dello scrittore e agit-prop ebreo (“Uno degli uomini più intelligenti e amabili che abbia incontrato”, lo definì nel 1878, quattordici anni dopo la sua morte) avevano fatto breccia. Il nemico comune era la borghesia liberale, per ridimensionare la quale Bismarck avrebbe concesso il suffragio (quasi) universale nel 1881. Pochi anni dopo, mise mano alle grandi riforme a tutela dei lavoratori dalla culla alla tomba.

    Sì, il sistema di sicurezza sociale nasce proprio nella Germania guglielmina. Non nell'America di Roosevelt, nell'Italia mussoliniana o nell'Inghilterra laburista. E' Bismarck, nel bene e nel male, che ha dato l'impronta. E' il suo socialismo di stato a segnare ancor oggi il meccanismo che tutti vorrebbero cambiare, ma nessuno ha il coraggio di farlo. Adesso la discussione riguarda l'allungamento dell'età pensionabile per accompagnare la curva demografica, non solo per risparmiare quattrini in epoca di crisi fiscale. In realtà, non si tratta solo di invecchiamento progressivo della popolazione (o meglio, migliori aspettative di vita), bensì di rivedere il grande patto tra chi ha un impiego e chi non più, tra giovani e vecchi. Poteva funzionare quando c'erano tre lavoratori attivi per ogni pensionato, come ancora negli anni 80; oggi siamo a due e il rapporto scenderà ancora. Non solo. Con un mercato del lavoro frastagliato, complesso, variabile, il lavoratore a reddito fisso, colui il quale ha pagato per tutti nell'età della industrializzazione di massa, non è più l'alfa e l'omega della società moderna. Hic Rhodus, ma nessuno si lancia in quel che sembra un salto nel buio. Chi oggi protesta, si accapiglia, scende in piazza, sciopera come in Francia, in Grecia, in Italia, si batte contro i mulini a vento. Le pesanti controriforme delle quali si racconta, non sono altro che pecette.

    E' il 1889 quando viene varata la legge sulla invalidità e vecchiaia preceduta già dalla normativa sugli infortuni e poi dall'assicurazione contro le malattie. Non si trattava di novità assolute in Europa, perché già Napoleone III in Francia aveva preso  provvedimenti che oggi chiameremmo di sicurezza sociale. Ma Bismarck stava costruendo un sistema che sarebbe durato per oltre un secolo. Lo ha fatto applicando un principio che egli definiva nel 1871 socialismo di stato: “Chi più facilmente può procurarsi il denaro, lo stato, deve prendere la cosa in mano sua. Non come una elemosina, ma come diritto ad un aiuto, là dove la buona volontà di lavorare diventa insufficiente. Perché deve ricevere una pensione soltanto chi ha perduto la capacità sul campo o in un impiego, e non il soldato del lavoro? Questa idea finirà per affermarsi, essa ha certamente l'avvenire per sé. E' possibile che la nostra politica vada in malora; ma il socialismo di stato si apre la via”. Il concetto di protezione sociale resta valido, tutto il resto è cambiato, dalla struttura produttiva al presupposto pratico di fondo: cioè che lo stato possa più facilmente procurarsi il denaro.

    Il modello tedesco a ripartizione (ossia, i contributi versati dai lavoratori attivi non vengono accantonati a loro favore, ma sono utilizzati per pagare i sussidi a quanti li ricevono già), si distingue radicalmente dalla social security anglosassone. Scrive Christina Benita Wilke, docente all'Università di Mannheim, esperta di previdenza: “Diversamente da quanto accade in altri paesi, come il Regno Unito e l'Olanda, dove fin dall'inizio è stato adottato un sistema alla Beveridge che assicura solo una pensione minima, in Germania le pensioni pubbliche erano pensate per mantenere anche dopo il ritiro dal mondo del lavoro lo stesso livello di vita raggiunto in età lavorativa. Di conseguenza, sono in linea di massima commisurate al reddito conseguito nel corso dell'intera vita lavorativa, con pochi correttivi. Per questo chiamiamo il sistema tedesco assicurazione pensionistica e non sicurezza sociale come negli Stati Uniti, e i lavoratori hanno a lungo pensato i loro contributi come premi assicurativi e non come tasse”.
    L'ultima riforma, approvata nel 2003, allunga a 67 anni l'età per riscuotere l'assegno di vecchiaia. Tre anni prima era stato introdotto un livello minimo garantito, con un forte incentivo fiscale per aderire alla previdenza integrativa. Restano in piedi i quattro pilastri fondamentali: i punti salario che riflettono la posizione relativa del lavoratore, gli anni di anzianità, fattori di riequilibrio per diversi tipi di pensione, un valore di riferimento per la pensione. I primi tre formano la base individuale, il quarto determina in generale la distribuzione del reddito tra lavoratori e pensionati. L'assicurazione copre l'85 per cento della forza lavoro e il tasso di sostituzione come i tecnici chiamano il rapporto tra pensione e busta paga, è in media il 70 per cento, di poco inferiore a quello francese dopo la riforma Sarkozy contro la quale, inutilmente, per mesi, sono scesi in piazza i sindacati.

    Il sistema transalpino è più complesso, basato su trentotto schemi, tra obbligatori, pubblici, a ripartizione, contributivi e redistributivi, legati ai redditi, che coprono quasi l'intera popolazione. La distinzione principale riguarda il regime generale (dipendenti del settore privato e liberi professionisti) e i regimi speciali (settore pubblico). Per i lavoratori la cui contribuzione sia insufficiente al pensionamento, c'è un salario minimo garantito d'anzianità, ricavato da un meccanismo a ripartizione e non a capitalizzazione. I pensionati francesi percepiscono dal 50 al 55 per cento dello stipendio e vanno in pensione a 60 anni e 40 anni di contributi, per i dipendenti pubblici, o a 65 anni e 41 anni di contributi per i privati. I lavoratori del settore privato sono iscritti a schemi di previdenza complementare. Si tratta di sistemi “a punti” a contribuzione definita e a ripartizione. L'assegno pensionistico è calcolato moltiplicando il numero dei punti maturati durante la carriera lavorativa per il valore di ogni punto di pensione, che è variabile di anno in anno in base alla dinamica dei flussi di entrate e uscite. La riforma Sarkozy aumenta le imposte e i contributi, riducendo i benefici con l'obiettivo di pareggiare il bilancio entro il 2018. L'età minima sale da 60 a 62 anni, mentre l'età di pensionamento a tasso pieno passa da 65 a 67 anni entro il 2016.
    La Gran Bretagna continua a seguire il modello proposto da William Beveridge nel 1942 in piena Guerra mondiale, su indicazione di Winston Churchill (un altro conservatore, come Bismarck). E' basato sulla sicurezza sociale che assicura una base minima a tutti. Il tasso di sostituzione medio è vicino al 37 per cento e si dovrebbe ridurre al 26-27 per cento intorno al 2050. Una copertura così bassa va compensata con un solido pilastro complementare. Il Regno Unito dispone di un sistema di previdenza ad adesione individuale tra i più evoluti al mondo che vanta un tasso di partecipazione del 70 per cento dei lavoratori. Con la riforma del 2004 denominata Pension Act, sono stati introdotti incentivi agli schemi privati e il consolidamento del risparmio personale a scopo previdenziale. È stato inoltre accentuato il controllo sui rischi delle forme integrative. La crisi del 2008 ha mandato in fumo molte garanzie e compromesso, si dice, la certezza per le pensioni. Ancora peggio negli Stati Uniti. Almeno secondo un diffuso convincimento comune. Ma è proprio così? Calma. Il Wild West non era poi tanto selvaggio, come ormai ammettono gli storici, e il Far West della leggenda non impregna di sé il welfare all'americana.

    Il 14 luglio del 1935, con la firma posta dal presidente Franklin Delano Roosevelt sotto il Social Security Act (nell'ambito del programma di sostegno all'economia New Deal), nasce il sistema previdenziale pubblico statunitense (indennità di disoccupazione, malattia e vecchiaia). Nel corso dei decenni è rimasto sostanzialmente invariato e avrà conti in attivo almeno fino al 2017; solo allora l'evoluzione demografica degli Stati Uniti richiederà di mettere mano al tesoretto accumulato per fare fronte al pagamento delle indennità erogate. Il sistema è a ripartizione. Secondo i calcoli governativi copre il 96 per cento dei lavoratori attivi negli Stati Uniti (tutti coloro che lavorano regolarmente nei confini nazionali debbono avere il loro social security number) ed è finanziato da un'aliquota contributiva pari al 12,4 per cento da dividere a metà tra il lavoratore e il datore di lavoro (gli autonomi devono sostenere da soli l'intero peso).

    Durante la vita professionale si accumulano crediti validi per l'erogazione dei sussidi previsti dal sistema. Il numero necessario per il diritto alla pensione dipende dall'anno di nascita. L'ammontare dell'assegno varia con i redditi accumulati durante la carriera e l'età in cui si lascia il lavoro. Matura la pensione completa a 65 anni chi è nato prima del 1938; dopo, l'età pensionabile si innalza gradualmente fino ai 67 anni per i nati successivamente al 1960. Per chi decide di ritirarsi prima o dopo il raggiungimento dell'età di pensionamento completo, la ricezione dell'assegno è legata ad alcuni limiti di reddito.

    Il sistema statunitense si basa su altri due pilastri (fondi pensione e piani individuali), cui i lavoratori possono aderire su base volontaria. La previdenza complementare è pensata per i redditi medio-alti. Ai piani collettivi s'affiancano quelli individuali (Ira) e le polizze assicurative a scopo previdenziale. I 401 (k), che prendono il nome dal numero della legge che li ha istituiti, rappresentano quasi la metà del patrimonio dei lavoratori americani investito in fondi e il 10 per cento delle aziende Usa ha già imposto l'iscrizione automatica per i neo assunti con una contribuzione volontaria pari al 6 per cento del reddito. Al momento dell'adesione a uno di questi fondi, il lavoratore apre un conto individuale all'interno del piano e prende su di sé la responsabilità delle decisioni di investimento che finiranno per determinare il suo tenore di vita in età avanzata. Sarà quindi lui a scegliere il mix desiderato e a decidere, al momento della pensione, se riscuotere la prestazione in capitale o continuare con l'investimento. Il punto debole è il legame con il posto di lavoro, anche se questo può essere un incentivo a tenerselo stretto. D'altra parte, in situazioni normali, passano pochi mesi prima di trovare un altro impiego. Il problema, anche negli Stati Uniti, sorge con un mondo che dal lavoro passa ai lavori.

    La crisi finanziaria ha spinto al limite del collasso molti fondi, ma la ripresa borsistica che ha quasi raddoppiato in due anni il valore dell'indice Standard & Poor's dei maggiori 500 titoli (nei quali investono i fondi previdenziali), ha riportato in alto i valori. Oggi è difficile proporre, come fece Franco Modigliani, di passare dal modello germanico a quello americano. Un sistema a capitalizzazione integrale è stato introdotto solo in Cile nel 1980, ma c'era Augusto Pinochet. Però, attenti alle facilonerie: funziona e il Cile democratico non ha intenzione di tornare indietro. I cultori del modello partecipativo, inoltre, dovrebbero far tesoro della vicenda Chrysler che ha messo in evidenza il ruolo dei sindacati: il loro fondo pensione aziendale è il secondo azionista dopo Fiat. Una compartecipazione entro una logica di mercato, diversa dalla Mitbestimmung tedesca.

    Ma torniamo a Bismarck. Anzi, a Giovanni Giolitti, in una Italia abbracciata agli Imperi centrali attraverso la Triplice alleanza. Nel 1898 viene istituita la Cassa nazionale di previdenza degli operai e l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. Nel 1919 diventa obbligatoria anche l'assicurazione d'invalidità e vecchiaia con età di pensionamento a 65 anni. Nel 1924 nasce l'indennità di licenziamento trasformata nel 1942 in indennità di anzianità. Quarant'anni dopo sarà chiamata Tfr, trattamento di fine rapporto. La pensione attraversa i regimi, ritoccata, aggiustata, imbellettata come una vecchia dama. Mussolini fonda nel 1933 l'Inps, l'istituto che nel corso degli anni diventerà l'ente unico previdenziale e assistenziale. Riduce a 60 anni l'età pensionabile per gli uomini e a 55 per le donne, aumenta i contributi e crea gli assegni familiari. La Repubblica non cambia, aggiunge. La Dc estende la pensione anche ai contadini, agli artigiani e ai commercianti (anche se non hanno pagato contributi), gestioni separate, ma tutte a carico dell'Inps. Gli anni delle lotte operaie fanno nascere la pensione sociale nel 1965 e dal 1969 l'assegno non sarà più calcolato in base ai contributi versati, ma sul 74 per cento della retribuzione dell'ultimo triennio lavorativo. Inoltre, viene agganciato al costo della vita, una scala mobile che gonfierà i costi negli anni 80, quando si passa a coprire in modo massiccio i disavanzi dello stato stampando buoni del Tesoro. Dal 1980 al 1995 il debito pubblico sale dal 70 al 118 per cento del prodotto lordo, le pensioni da 17.172 mila con un costo di 42.686 miliardi di lire arrivano a 21 milioni 445 mila per un ammontare di 262.297 miliardi. Dal 2000 la curva si appiattisce e i costi si stabilizzano passando dal 10 al 12 per cento del prodotto lordo. Grazie al lavoro di manutenzione continua dell'ultimo decennio, oggi non c'è una emergenza costi propriamente detta, l'allarme semmai riguarda il futuro.

    La riforma Dini del 1995 e poi quella Maroni del 2004 hanno creato un sistema spurio, retributivo con oltre 18 anni di contributi, contributivo per chi viene assunto dopo il 1996 e misto per tutti gli altri. Dunque, una lunga transizione che seppellisce il Sessantotto anche nella previdenza. All'età pensionabile s'è messo mano l'anno scorso per allungarla con gradualità. Ora si discute di anticipare i tempi sia per le pensioni di anzianità sia per quelle di vecchiaia. Un altro colpo di cipria che rinvia il momento della verità. La crisi, quella dei subprime e quella dei debiti sovrani, l'una figlia dell'altra, ha posto i paesi occidentali di fronte alla necessità di rivedere e rinegoziare il contratto sociale che da un secolo li tiene in piedi, anche attraverso regimi politici antitetici. Non solo per ragioni emergenziali, che pure in questa fase non sono affatto infondate, ma perché le nostre società stanno cambiando in modo profondo. Urge un nuovo Bismarck, con meno socialismo di stato in testa, ma con lo stesso sguardo lungo e disincantato. Fino a quando dovremo aspettarlo?