Così il Gheddafistan combatte la guerra tribale che qui chiamiamo “rivolta”
Un Gheddafistan: non è molto probabile, ma è possibile che il colonnello, alla fine, possa attestarsi e resistere in un'area a cavallo tra Libia, Ciad, Niger e Algeria. Una zona franca, da cui menare azioni di guerriglia e di terrorismo profittando della permeabilità delle frontiere e della benevolenza dei governi confinanti, oltre che dell'appoggio di quei tuareg sempre generosamente finanziati in Ciad, Mali e Algeria.
Un Gheddafistan: non è molto probabile, ma è possibile che il colonnello, alla fine, possa attestarsi e resistere in un'area a cavallo tra Libia, Ciad, Niger e Algeria. Una zona franca, da cui menare azioni di guerriglia e di terrorismo profittando della permeabilità delle frontiere e della benevolenza dei governi confinanti, oltre che dell'appoggio di quei tuareg sempre generosamente finanziati in Ciad, Mali e Algeria. Nonostante le mistificazioni di una informazione in conflitto d'interesse petrolifero (a partire da al Jazeera, il cui proprietario ha già in tasca contratti petroliferi col Cnt), è evidente che la resistenza dei lealisti a Sirte, a Sheba e soprattutto nello strategico Fezzan dopo la caduta di Tripoli non è frutto della pervicacia dei “mercenari”. Mai si sono visti nella storia dei mercenari combattere con tanta energia, dopo avere constatato che il loro committente non potrà pagare loro il soldo. Non perché non disponga tuttora di qualche decina di miliardi in oro, ma perché è evidente che non potrà materialmente consegnarglielo, neanche se volesse nelle città assediate. In realtà assistiamo a una resistenza disperata di tripolitani, e non solo della tribù Ghadafa, di abitanti del Fezzan – e di tuareg – contro i cirenaici in nome di una diffidenza e di un odio plurisecolari. Il paragone con la caduta di Baghdad e di Kabul è eloquente. In Iraq e in Afghanistan la caduta della capitale segnò in due-tre giorni la capitolazione, la fuga scomposta di tutti i gerarchi e la dissoluzione carsica dei regimi. In Libia, passati nove giorni, le truppe di Bengasi non sono ancora riuscite ad arrivare a Tripoli via terra, per la litoranea e neanche hanno iniziato la marcia verso quel Fezzan in cui è situata la maggior parte dei pozzi. La stessa capacità di Muammar Gheddafi e del suo quartier generale di fedelissimi di far perdere le tracce, prova che gode di evidenti complicità e accoglienza.
La stessa Nato brancola nel buio perché i loro convogli consistenti non vengono denunciati da nessuno e si muovono favoriti da una omertà che ha solide motivazioni politiche e tribali. Misteriosa è la loro destinazione, ma evidente è il loro disegno: fortificarsi in un'area interna – un Gheddafistan, appunto – in cui resistere, che condanni la Libia del Cnt e della Nato alla instabilità permanente. Progetto disperato, con poche possibilità di realizzazione, ma che ha una sua logica, soprattutto perché una grande nazione confinante, l'Algeria, ha tutto l'interesse per favorirlo. Abdelaziz Bouteflika, il presidente algerino, ha fatto ben più che fornire a Gheddafi aiuti militari e permettere a duemila tuareg algerini di unirsi alle sue milizie. Ancora oggi mostra tutta la sua ostilità e disprezzo verso lo stesso Cnt, rifiutandosi di riconoscerne la legittimità e addirittura condizionando sprezzantemente il riconoscimento a una “assunzione di un preciso e forte impegno a combattere al Qaida nel Maghreb”. Un atteggiamento ostile che ha spinto il 27 agosto Omar Bani, portavoce militare del Cnt a minacciare: “Verrà un giorno in cui Algeri dovrà rispondere del suo atteggiamento nei confronti dei rivoluzionari libici” (dopo la notizia del corteo di macchine blindate che attraversava il confine con l'Algeria, ieri è arrivata la conferma di Algeri: due figli, la moglie e la figlia di Gheddafi si sono rifugiati in quel paese).
E' evidente che la nuova Libia dovrà fare i conti con una situazione di forte attrito a occidente, per ragioni di potenza regionale e di politica petrolifera. Algeri teme infatti una nuova Libia testa di ponte nel Maghreb della Francia e della Nato alle proprie frontiere. Una Libia in cui oggi si sente – a scorno delle illusioni illuministe dei tanti Bernard-Henri Lévy – il peso degli islamisti (come si è visto con la bozza di Costituzione shariatica) e in cui tra le forze ribelli c'è uno “sceiccato islamico di Derna”, affiliato ad al Qaida. Una Libia sempre bisognosa della determinante protezione militare della Nato e probabilmente in preda a strascichi di quel conflitto tribale che oggi impropriamente passa per rivoluzione. Una Libia che quindi dovrà sviluppare una politica petrolifera subordinata all'Europa, opposta a quella “rialzista” sempre praticata da Algeri.
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