Meglio prevenire che curare? Quando il principio di precauzione ci fa vivere peggio

Carlo Stagnaro

Con l'uragano Irene, la tragedia non si è ripetuta tanto in farsa quanto in melodramma. L'establishment politico-mediatico americano ne aveva fatto, complice la memoria ancora fresca di Katrina, l'evento della stagione. Gli ingredienti c'erano tutti: la natura scatenata, la vendetta della Terra contro l'uomo-inquinatore-moderno-Prometeo, la sciagura proprio nella città dove stanno tutte le telecamere di tutte le tivù (mica New Orleans), i politici sempre a caccia dello scatto migliore. Il tutto in una singolare congiuntura: il sindaco della Grande Mela, Michael Bloomberg, aveva bisogno del suo 11 settembre, per risollevare la popolarità.

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    Con l'uragano Irene, la tragedia non si è ripetuta tanto in farsa quanto in melodramma. L'establishment politico-mediatico americano ne aveva fatto, complice la memoria ancora fresca di Katrina, l'evento della stagione. Gli ingredienti c'erano tutti: la natura scatenata, la vendetta della Terra contro l'uomo-inquinatore-moderno-Prometeo, la sciagura proprio nella città dove stanno tutte le telecamere di tutte le tivù (mica New Orleans), i politici sempre a caccia dello scatto migliore. Il tutto in una singolare congiuntura: il sindaco della Grande Mela, Michael Bloomberg, aveva bisogno del suo 11 settembre, per risollevare la popolarità con un'esibizione muscolare alla Rudy Giuliani; il presidente, Barack Obama, a sua volta cercava e cerca buone crisi da non sciupare (con la recessione economica e il petrolio nel Golfo del Messico gli è andata male). Dietro questa tempesta perfetta – fatta di voyeurismo mediatico, opportunismo politico e cinismo del potere – sta un'architettura ideologica complessa, il cui asse portante, come ha scritto Giuliano Ferrara, è il “principio di precauzione”.

    Il principio di precauzione è una bestia strana, che risale almeno al “Vorsorgeprinzip”, il cardine della politica ambientale tedesca degli anni Settanta il quale imponeva di “provvedere prima” ai disastri (nel senso: meglio prevenire che curare). In realtà alcuni scavano ancora più indietro, risalendo ora agli anni Cinquanta, ora alla fine dell'Ottocento, ma tutti riconoscono l'importanza della figura di Hans Jonas e del suo “Principio di responsabilità”. Il principio di precauzione piace al movimento verde, piace agli interventisti economici, piace ai governi e piace alle organizzazioni internazionali, perché fornisce a ciascuno di questi attori una fortissima giustificazione morale per “fare” sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno), ossia, per dirla in modo un poco datato, per pianificare. Proprio in un documento dell'Onu, la Dichiarazione di Rio del 1992, sta la formulazione canonica del principio: “Laddove vi siano minacce di danni seri o irreversibili, la mancanza di piene certezze scientifiche non potrà costituire un motivo per ritardare l'adozione di misure economicamente efficienti volte a prevenire il degrado ambientale”.

    Il richiamo alla “cost effectiveness” è la parte più trascurata del principio. Infatti esso rappresenta un salto quantico rispetto alla tradizionale analisi costi-benefici, perché l'accento si sposta interamente dal lato dei costi, l'onere della prova ne viene conseguentemente ribaltato (per poter fare, devo provare che non danneggerò nessuno), e l'enfasi è tutta sull'abolizione del rischio, mentre nessuna attenzione rimane per le possibilità colte oppure perse. Nelle parole di Aaron Wildavsky, lo scienziato sociale autore di “Searching for Safety”, esistono due tipi di approccio: per “tentativi ed errori” oppure per “tentativi senza errore”. Scrive: “Secondo la dottrina del ‘tentativo senza errore' nessun cambiamento verrà consentito se non c'è una solida prova che la sostanza o l'azione proposta non farà alcun male… E' vero che senza tentativi non possono esserci errori; ma senza questi errori, ci saranno anche meno insegnamenti”.

    Per Wildavsky, chi non risica non rosica, e soprattutto non impara. Poiché la dimensione dell'apprendimento è fatalmente collettiva, l'avversione al rischio demolisce il processo di creazione della conoscenza (in senso ampio, il mercato) e impoverisce tutti, intellettualmente, tecnicamente e finanziariamente. Gli esempi sono numerosi. Gianni Fochi, chimico della Normale di Pisa, spesso ricorda la guerra al Ddt, una delle prime battaglie precauzionali: per paura, peraltro infondata, che il suo uso avrebbe danneggiato alcuni uccelli, le popolazioni della parte povera del globo sono state private dell'arma più efficace ed economica contro la zanzara anofele, portatrice della malaria. I canarini forse si sono salvati, le zanzare di sicuro, i bambini no.

    Idem per gli organismi geneticamente modificati: anziché adottare l'approccio scientifico dell'esame caso per caso, i fanatici del principio di precauzione hanno attaccato la mera tecnica del dna ricombinante, ostacolando l'adozione di nuove varietà e rallentando una delle frontiere più promettenti della tecnologia, come racconta in modo suggestivo Antonio Pascale nel suo straordinario “Scienza e sentimento”. Il riscaldamento globale, poi, è la grande madre di tutti i catastrofismi, perché, date le enormi incertezze, tutto gli si può attribuire senza essere smentiti (incluse Katrina e Irene, ed esclusi i maramaldeggiamenti del “climategate”, ossia i trucchi di alcuni scienziati per rendere più “scary” gli scenari climatici e più pingui i finanziamenti alle loro ricerche e ai loro amici). Indur Goklany, economista del Cato Institute, ha dedicato un lungo saggio (“The Improving State of the World”) all'esame, tra l'altro, dei problemi che concretamente l'aumento delle temperature potrebbe causare nel mondo in via di sviluppo. La conclusione? “I cambiamenti climatici non creano nuovi problemi ma esacerbano quelli come la fame, la malaria, la pressione sulle risorse idriche, le inondazioni costiere e le minacce alla biodiversità”. Questi problemi non esistono più, o sono ridotti a livelli drasticamente inferiori, nel mondo industrializzato: segno che intervenire sulle cause reali dei problemi umani, stimolando la crescita economica, può salvare molte più vite che non tentare maldestramente di curare la febbre al pianeta con misure dai dubbi benefici (ambientali) e dagli indubbi costi. Da considerare poi i risultati del pionieristico lavoro di Wilfred Beckerman, e dei suoi epigoni, sul rapporto virtuoso tra l'aumento del reddito e la qualità dell'ambiente. Il paradosso del principio di precauzione è che viene generalmente interpretato come un principio d'inazione: per paura che qualcosa di brutto possa accadere, costringe tutti a vivere come se fosse già accaduto. Il principio di precauzione è il principio di un mondo che rigetta l'incertezza: e dunque al progresso (che è movimento, che è ignoto) preferisce la stasi.

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